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Black Mirror 6: Che cosa guarderemo, e come, su quello schermo nero?

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Che cosa fareste se un giorno, davanti alla tv, vi capitasse di aprire Netflix e di trovare una serie che nel titolo ha il vostro nome e che parla proprio di voi, della vostra vita, anche se nella finzione avete il volto di una star di Hollywood? È lo spunto, inquietante, di Joan Is Awful, il primo dei cinque episodi che compongono la stagione 6 di Black Mirror, la serie cult di Charlie Brooker che da anni ci mette davanti a uno specchio e ci racconta il nostro rapporto con la tecnologia per dirci chi siamo e che cosa siamo diventati oggi. La nuova stagione è disponibile dal 15 giugno su Netflix. In occasione di questa nuova stagione, Netflix riflette su se stessa: al centro dei primi episodi, infatti, c’è Streamberry, una piattaforma di streaming che è in tutto e per tutto simile a lei, e che può arrivare a fare cose molto preoccupanti. È un modo per ragionare sulla società dei contenuti consumati avidamente on demand, dei contenuti costruiti ad hoc per ogni target. Oggi ogni contenuto è creato ad arte per gruppi precisi di persone. Domani sarà confezionato per ogni singola persona? Tutta la stagione 6 di Black Mirror sembra essere una riflessione sulle immagini e sul loro senso nella nostra vita di oggi, sul nostro rapporto con esse. Dalle immagini in alta definizione a cui assistiamo comodamente in streaming ogni giorno alle immagini di repertorio, in bassa definizione, che possono custodire la memoria, e forse svelare la verità. Dalle immagini fotografiche rubate, quelle che entrano in quella che dovrebbe essere la vita privata delle persone, ma che la loro fama rende pubblica, fino alle prime immagini che, dalla notte dei tempi, venivano usate per riprodurre la realtà, cioè i dipinti. Ma anche all’immagine che, da sempre, rappresenta la nostra identità, cioè il nostro volto: e se, per una volta, non la rappresentasse? Black Mirror ci racconta tutto questo attraverso 5 episodi, ognuno di genere diverso: la satira, il thriller, la fantascienza distopica, l’horror sovrannaturale e l’horror classico. Generi diversi, stesso messaggio. Da non perdere.

Joan Is Awful: attenzione a termini e condizioni…
Che cosa vuol dire sentirsi la protagonista della propria vita? A Joan (Annie Murphy, bravissima) capita letteralmente. Joan lavora in una grande compagnia hi-tech, dove è la persona che deve comunicare a chi viene licenziato la brutta notizia. Ha una storia finita che non si è lasciata del tutto alle spalle, Mac, e una storia in corso, con Krish. Un giorno, guardando con lui la tv su una piattaforma, che si chiama Streamberry ma è del tutto uguale a Netflix, trova una serie che si chiama Joan Is Awful, Joan è terribile. La protagonista, interpretata da Salma Hayek, ha gli stessi capelli. E sembra vivere in tutto e per tutto la sua vita. Già è imbarazzante per sé vedersi rappresentata sullo schermo. Ma il vero problema è che tutti hanno Streamberry, e tutti vedono ogni cosa fa Joan. È come essere in un acquario, in un Truman Show. Ma come è possibile? Lo scoprirete. Ma fate attenzione ai termini e condizioni che accettate ogni volta che vi iscrivete ad una app… Joan Is Awful è un racconto inquietante, e attualissimo, che diventa un vorticoso gioco di scatole cinesi in cui la percezione naufraga e non sappiamo più cosa è reale e cosa no. E in cui Netflix fa ironia su se stessa. “Hanno preso 100 anni di cinema e li hanno ridotti a una misera app”.

Loch Henry: rinvangare un passato torbido
Anche qui al centro della storia c’è la serialità televisiva, la piattaforma Streamberry, e un produttore di documentari, Historik. Tutto nasce dalla storia di un ragazzo, che da Londra torna nel paesino dove è nato con la sua nuova compagna, per girare un documentario lì vicino. Un amico racconta loro la storia di Iain Adair, un folle che sequestrava le persone e le torturava. La ragazza crede che il loro film dovrebbe parlare di questo, e che debba essere qualcosa che possa essere visto da tante persone. Ma è giusto rinvangare un passato torbido? È giusto riportare alla luce qualcosa che fa così male? Quando è il caso di fermarsi? Oggi che tutti vedono le immagini ad alta definizione, che senso hanno le immagini delle vecchie vhs? Sono sgranate, ma sono la memoria storica; sono imperfette, ma sono legate chiaramente a un’epoca. La riflessione sul mezzo e sui linguaggi è la base di partenza di quello che diventa un thriller, un horror “found footage”, una di quelle storie dove il Male si annida proprio dove non si crede. E poi svolta di nuovo verso una satira tagliente e beffarda sul limite che deve porsi chi racconta le storie. Nel cast c’è John Hannah, l’attore di Sliding Doors e La mummia.

Beyond The Sea: siamo uomini o replicanti?
Siamo in un 1969 alternativo e due astronauti, dalle vite idilliache, sono impegnati in una missione nello spazio. A casa ci sono le loro mogli, i loro figli e… Beyond The Sea è un racconto dal respiro più ampio, più lento e compassato, dove le sorprese sono dietro a ogni angolo. È una riflessione sull’essere umano e la possibilità di replicarlo, che va dritta alla fantascienza distopica di Philip K. Dick e del Blade Runner di Ridley Scott e continuata in decine di libri e film. Che cosa accrebbe se avessimo una replica di noi stessi (un link, così lo chiamano) che ci permetta di essere da un’altra parte, con chi conosciamo, con la nostra mente e un corpo simile al nostro? E se, a un certo punto, potessimo invece “indossare” il corpo di un’altra persona? Beyond The Sea è un vero e proprio film (80 minuti) con il ritmo di un lungometraggio. È fatto di sorprese, e di alcuni esiti prevedibili, e ha un cast di gran classe. Il protagonista è Josh Hartnett, che 25 anni fa era un divo in pectore di Hollywood, e che oggi, invecchiato benissimo, è ancora affascinante e sempre più espressivo. E poi ci sono la Kate Mara di House Of Cards e l’Aaron Paul di Breaking Bad e di Westworld.

Mazey Day: agire o scattare?
È un viaggio indietro nel tempo anche quello di Mazey Day, ma non così tanto. Torniamo a 17 anni fa, ai tempi della relazione tra Tom Cruise e Katie Holmes, e della nascita della figlia Suri. È la radio, in sottofondo, a raccontarcelo, e ci immerge immediatamente in un’epoca. Sono gli anni in cui l’iPod è l’oggetto di culto. Una fotografa (Zazie Beetz) scatta una foto compromettente a un attore che cambia la sua vita e anche quella della sua compagna. La cosa ha dei risvolti anche sulla fotografa che ha scattato la foto, e ora si vede assegnare l’incarico di “paparazzare” un’attrice, Mazey Day, che sta affrontando una fase di riabilitazione. Anche questo episodio è una riflessione sulle immagini – in questo caso le fotografie – e sulla loro capacità di rendere la realtà, e di influire sulla vita delle persone. In un episodio che, a sorpresa, svolta verso l’horror soprannaturale, la riflessione è comunque importante: nel momento del pericolo, che si tratti di aiutare qualcuno o di scappare, il dilemma è: agire o riprendere/scattare? La risposta, nella società dell’immagine, è scontata.

Demon 79: che horror l’Inghilterra degli anni Settanta
Demon 79, quinto e ultimo episodio di Black Mirror 6, è un altro viaggio nel passato: dai caratteri dei titoli di testa, alle immagini di quel colore tenue, tra il grigio e il marrone, con quelle imperfezioni tipiche della pellicola, veniamo trasportati in un horror degli anni Settanta. Al centro della storia c’è una ragazza di origine asiatica che lavora in un grande magazzino di abbigliamento. Siamo alla viglia delle elezioni che consacreranno Margaret Thatcher come nuova premier, e un nuovo leader conservatore sta per salire al potere. La comparsa di un demone offre a quella ragazza l’occasione di uccidere… L’horror classico è la forma di un racconto che diventa metafora politica, e che ci vuole dire come la salita al potere dei conservatori in Gran Bretagna sia stata un orrore. Forse ci vogliono dire che lo è anche oggi, con la Brexit e tutto il resto? Demon 79 è un classico horror anni Settanta, ma gioca sul genere con ironia, con un demone che ha l’aspetto di una disco star anni Settanta e la musica di Boney M, Abba, Madness e Boomtown Rats.

Cosa guarderemo in futuro?
Stiamo guardando Black Mirror comodamente in streaming, ma non siamo così tranquilli, perché ci interroghiamo su quale sarà il futuro delle nostre visioni. E ci immaginiamo contenuti unici e fatti su misura per ognuno degli iscritti alla piattaforma, opere visive che si generano automaticamente grazie ai computer quantistici e ai dati e i consensi che concediamo. Ci aspettano infiniti contenuti generati artificialmente, con buona pace della creatività, di sceneggiatori e attori. In quel primo episodio, Joan Is Awful, metanarrativo, Netflix riflette su se stessa, sullo stato dell’arte, su come la tecnologia possa cambiare la creatività.  Anche Loch Henry è una riflessione sul lavoro creativo di chi fa film e serie, e su quello che la gente vuole vedere, sul fare prodotti per una nicchia ristretta o per un pubblico sempre più ampio, i famosi 190 paesi. A proposito di metanarrazione, attenzione al riferimento a San Junipero.

Le novelle e la loro epifania
Black Mirror è una serie affascinante non solo per i temi che affronta e per il tono, che è sempre inquietante come quello di un thriller ma tagliente e beffard come quello di una pagina satirica. È affascinante anche per la sua struttura narrativa, che è quella letteraria di una raccolta di novelle. Come tali vivono sempre di un’epifania, uno svelamento che dà il senso a tutto il racconto breve. Così si assiste a ogni episodio di Black Mirror in attesa di questa epifania. In questi anni abbiamo sempre visto Black Mirror come una serie che ha ridefinito gli standard della serialità, come punto di riferimento per la qualità della narrazione e anche per la maturità della riflessione sul futuro. “Sembra un episodio di Black Mirror” abbiamo sempre detto, come se fosse un complimento. Ecco, gli episodi di Black Mirror sono qui, finalmente. E sono da non perdere.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Dark Matter: Le vite che non abbiamo mai vissuto… con Joel Edgerton e Jennifer Connelly, su Apple Tv+

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“E se quel giorno, invece di aver fatto quella scelta, avessi…”. Quante volte nella vita ci siamo fatti questa domanda? E quante volte, al cinema, abbiamo visto personaggi in qualche modo sdoppiarsi in due, tra quella che è la loro vita e quella che sarebbe potuta essere? Dark Matter, la nuova serie Apple Original, disponibile dall’8 maggio su Apple Tv+, con i primi due episodi (seguiti da un nuovo capitolo settimanale fino al 26 giugno) ripropone ancora una volta questo tema, ma lo fa con un thriller oscuro e misterioso, intrigante ed ipnotico che tiene incollati allo schermo. Forse è il nuovo Lost, forse non lo è, perché siamo in territori, colori e interrogativi, ma è dalla serie di J.J. Abrams (e, volendo, dalla prima stagione di Westworld) che una serie non ci emozionava in questa maniera. Definito come uno dei migliori romanzi di fantascienza del decennio, Dark Matter è una storia sulla strada non percorsa. La serie Apple lo rende in una forma visiva sublime e con delle prestazioni attoriali estremamente intense. Dark Matter è una delle serie dell’anno.

Jason Dessen (Joel Edgerton) è un fisico, un professore e un padre di famiglia che vive una vita serena e felice a Chicago. Una notte, mentre torna a casa per le strade della città viene rapito da un misterioso uomo con una maschera bianca sul volto. Quando si risveglia, si rende conto di avere a che fare con delle persone che conosce. Tutti lo riconoscono, lui non riconosce tutti. Non riconosce il posto in cui si trova: sono stanze e corridoi grigi, ambulatori e laboratori di quella che sembra essere una grande azienda. Presto si rende conto di trovarsi in una versione alternativa della sua vita. Cerca di tornare alla sua realtà, ma non è affatto facile. Non ce n’è solo una, ma una serie di vite che avrebbe potuto vivere. Nel frattempo vediamo Jason tornare a casa, seppure in ritardo, dall’amata moglie Daniela (Jennifer Connelly). Come è possibile? Presto Jason capisce che dovrà salvare la sua famiglia dal nemico più terrificante e imbattibile che si possa immaginare: se stesso.

C’è una scatola. Dentro c’è un gatto. E un meccanismo che potrebbe farlo morire. Secondo una teoria c’è una possibilità, che il gatto sia vivo e morto allo stesso tempo. È il paradosso del gatto di Schrödinger che, tramite un disegno alla lavagna, Jason spiega ai suoi studenti. Secondo un’affascinante teoria di fisica quantistica le nostre scelte possono scatenare ogni volte infinite vite parallele, infiniti mondi. Proprio come quei videogame a scelta multipla, in cui, a ogni svolta, prende vita una strada diversa. La teoria al centro di Dark Matter è che questi mondi alternativi non siano teorici ma reali. E che qualcuno abbia trovato il modo per muoversi tra di essi. Sì, Dark Matter parla di multiverso. Ma non nella maniera in cui il cinema ne ha parlato finora.

Si tratta di fare una grande sospensione dell’incredulità e di farsi avvolgere dal racconto fino a precipitarvi inesorabilmente dentro. Non sarà difficile sospendere l’incredulità – in fondo non lo facciamo sempre di fronte a una serie o a un film? – e non vi preoccuperete molto di capire la teoria di fisica quantistica alla base del racconto. Perché Dark Matter è estremamente convincente sia per i mondi che costruisce, sia per la tensione e il dramma che provano i personaggi e arrivano dritti allo spettatore.

La regia e la fotografia disegnano un mondo grigio antracite, oscuro e misterioso. È un mondo di strutture metalliche fredde, levigate, di una tecnologia che ci sembra ostica, nemica. I toni dell’immagine poi cambiano, diventando più caldi o più freddi, a seconda della vita che stiamo seguendo. Il centro di gravità permanente della storia è quella scatola, quel cubo nero imponente come il monolite di Kubrick ed enigmatico come il cubo di Rubik. Lasciate ogni speranza voi che entrate, scriverebbe il poeta. Una volta dentro c’è un corridoio – sempre buio, sempre grigio – potenzialmente infinito. È un corridoio doloroso, perché dentro ci sono tutte le nostre occasioni perdute e forse quelle evitate. Ci sono i nostri rimorsi e i nostri rimpianti. Ci sono le nostre paure e le nostre incertezze. E anche le catastrofi.

E dentro questo limbo ci sono le persone, con i loro legami, i nostri sentimenti. Un uomo che vuole tornare dalla donna amata, dal figlio, da quella storia costruita con fatica, compromessi e rinunce, ma che è diventata una casa solida. Torniamo ancora a Lost, sperando di non nominare la parola invano, perché le storie tra Penny e Desmond e Jack e Kate si inserivano nel contesto del mistero, contribuendo e renderlo tutto ancora più intenso e caldo. Se Dark Matter è una serie riuscita lo dobbiamo anche alla trama sentimentale e agli attori che la mettono in scena. Joel Edgerton non è mai stato così a fuoco, così perfetto in una parte in tutta la sua carriera, e questa serie è la sua consacrazione: volto duro, spigoloso, ferito, ma con due occhi che possono essere ghiaccio o sciogliersi in sguardi dolenti e teneri. A tratti sembra di vedere il miglior Kurt Russell. Jennifer Connelly è al solito affascinante, e diversa a seconda dei mondi in cui si trova: moglie semplice e intrigante, con i capelli corti a caschetto e vestiti comodi, o artista irresistibilmente sexy con abiti da sera e capelli lunghi. Un’altra attrice che abbina bellezza e intensità e che, più di vent’anni dopo l’Oscar per A Beautiful Mind, si ritrova in una storia fatta di labirinti della mente.

Che sia il nuovo Lost o meno (quello che scriviamo è rischiosissimo, e ne siamo consci) Dark Matter è una grande serie, una delle serie dell’anno. È un racconto potente, intenso, e originale, pur contenendo in sé una serie di rimandi. L’architettura tecnologica, la famosa scatola dove si muovono i protagonisti (non dimentichiamo la bravissima e affascinante Alice Braga), ci rimanda alla fantascienza di The Cube, non solo per il marchingegno al centro del racconto, ma anche perché la serie, come in quel film, si pone interrogativi chiave delle nostre esistenze, il fondamentale che ci facciamo in questo mondo e dove stiamo andando”. Tra i riferimenti di Dark Matter ci sono anche i film che hanno parlato di realtà parallele, come Smoking/No Smoking e Sliding Doors (per non parlare dei paradossi temporali da Ricomincio da capo a Questione di tempo che finiscono, a loro modo, per creare mondi paralleli), ma l’originalità di Dark Matter è togliere tutto quello che di pop e di commedia ci fosse in quei film per portarci in un mondo angosciante. È c’è anche Face/Off. Pensate all’idea di guardare un uomo in volto, sapendo che dietro quel volto, in fondo, c’è qualcun altro. Altro non possiamo dirvi, non vi resta che sprofondare nel buio di Dark Matter.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Loro: La paura, il terrore e il razzismo arrivano su Prime Video

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Pam Grier appare subito, in una delle prime scene di Loro: La paura (Them: The Scare), seconda stagione della serie antologica horror creata da Little Marvin, disponibile in streaming su Prime Video. La presenza della famosa attrice afroamericana ci vuole dire subito una cosa: la nuova stagione di Loro, ambientata nel 1991, è un omaggio al cinema Blaxploitation degli anni Settanta e a quel cinema degli anni Novanta che lo ha riportato in auge. Ricorderete tutti Jackie Brown di Quentin Tarantino, che aveva scelto Pam Grier come protagonista proprio per riprendere quel mondo. Per questo Loro: La paura è un viaggio tra i Settanta e i Novanta, una nuova storia che rimane perfettamente coerente con quella della prima stagione di Loro.

Loro: La paura è ambientato ancora una volta nella contea di Los Angeles. La prima stagione, Loro: Covenant, era ambientata a Compton nel 1952. Adesso siamo nel 1991. La detective della squadra omicidi di Los Angeles Dawn Reeve (Deborah Ayorinde) è alle prese con un nuovo caso: il raccapricciante omicidio di una madre affidataria che ha lasciato scossi anche i detective più esperti. Nel pieno di un tumultuoso periodo a Los Angeles, con una città sul filo del caos, Dawn è determinata a fermare l’assassino. Mentre si avvicina alla verità, qualcosa di sinistro attanaglia lei e la sua famiglia…

Il senso di Loro, sin dalla prima stagione, è stato quello di sublimare attraverso l’horror l’orrore. Il genere, il soprannaturale, lo spaventoso erano un veicolo per raccontare qualcos’altro di molto raccapricciante: il comportamento dei bianchi verso le persone afroamericane. Così, in Loro: Covenant, seguivamo, sconvolti, quello che accadeva a una famiglia di neri che si era appena trasferita in un quartiere benestante. L’horror arrivava in un secondo momento, era spaventoso, certo. Eppure a lasciarci sconvolti era il comportamento quotidiano delle persone.

Loro: La paura continua sulla sua strada di denuncia sociale, ma l’horror vira più sul thriller. La protagonista, infatti, è un’investigatrice che segue il caso di un serial killer. L’atmosfera funziona, tra colori chiari e omogenei, che ci riportano allo stile di un certo cinema indie anni Novanta, accesi da toni di rosso e nero che sono indispensabili al racconto. C’è molto David Fincher in questa storia. Guardate l’arrivo della polizia sul primo luogo del delitto, e vi verrà in mente l’incipit di Seven, in cui la polizia squarcia il buio con la sola luce delle sue torce. Più tardi, parlando delle modalità di comportamento del killer, si fa riferimento al caso Zodiac, che era stato raccontato da David Fincher nell’omonimo film.

Gli anni Novanta in cui si muove Loro: La paura sono anche quelli del famoso caso di Rodney King, il tassista afroamericano che fu pestato violentemente della polizia nel marzo del 1991, mentre qualcuno stava riprendendo la scena per un video che fece il giro del mondo, denunciando il razzismo e gli abusi della polizia sui neri americani (un caso simile, tristemente, è accaduto di nuovo proprio pochi giorni fa). Il pestaggio a King scatenò violenti disordini a Los Angeles nei giorni successivi alla diffusione del video e ad una grande sommossa un anno dopo, quando i poliziotti accusati vennero assolti. È in questa atmosfera che vive la nuova stagione di Loro. Ed è una grande scelta, perché è un momento chiave del razzismo in America.

Un razzismo che, in Loro: La paura, viviamo però in ogni sequenza. Seguiamo Dawn, che è una donna realizzata, emancipata, una stimata detective del LAPD, ma che è continuamente sminuita in tutta una serie di modi. È razzismo se Dawn viene affiancata da un altro collega (maschio, bianco, più anziano) per un’indagine, e se non viene dato credito alle sue piste. È razzismo se, chiedendo di poter parcheggiare nel cortile del dipartimento, viene apostrofata con epiteti che potete immaginare. È razzismo se, a ogni sua mossa, viene liquidata con delle battute. Se anche una poliziotta viene discriminata, figuratevi chi è al di fuori della polizia.

Dawn è interpretata da Deborah Ayorinde (già nel cast della prima stagione, in un altro ruolo), una vera rivelazione: un volto fiero, un piglio orgoglioso, una personalità notevole e anche una dose di sex appeal che ne fa una protagonista perfetta, un personaggio definito a tutto tondo. L’attrice storica Pam Grier interpreta la madre Athena. I bianchi, e il loro razzismo, sono interpretati da Wayne Knight, caratterista visto in molti film di Hollywood, che è il capo della polizia, Schiff, e da Jeremy Bobb, che è il viscido detective Ronald McKinney, che segue le indagini insieme a Dawn. Ma l’altra rivelazione della serie è Luke James, nel ruolo di Edmund, un ragazzo che lavora in un ristorante – parco giochi per bambini, e che è un aspirante attore. Quando, per prepararsi al provino per il ruolo di un serial killer, comincia a entrare nel ruolo, assistiamo a una serie di trasformazioni, prima goffe e poi sempre più inquietanti.

Loro: La paura viaggia tra gli anni Ottanta e Novanta anche attraverso la musica, black e non solo. C’è il pop di Rockwell con Somebody’s Watching Me (la canzone che era nata come risposta a Thriller di Michael Jackson), il rap dei Run DMC con gli Aerosmith di Walk This Way, il cool jazz di Sade e Your Love Is King. E anche un po’ di sano hard rock, con i Guns’n’Roses e Welcome To The Jungle. Little Marvin, ancora una volta, riesce a colpirci con il perturbante, con la paura che nasce da quelli che dovrebbero essere i luoghi più sicuri, gli angoli della casa. Ma che cos’è dunque la paura? “La paura è il dolore che sorge dall’anticipazione del Male”. Lo diceva Aristotele.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

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La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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