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Black Mirror 6: Che cosa guarderemo, e come, su quello schermo nero?

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Che cosa fareste se un giorno, davanti alla tv, vi capitasse di aprire Netflix e di trovare una serie che nel titolo ha il vostro nome e che parla proprio di voi, della vostra vita, anche se nella finzione avete il volto di una star di Hollywood? È lo spunto, inquietante, di Joan Is Awful, il primo dei cinque episodi che compongono la stagione 6 di Black Mirror, la serie cult di Charlie Brooker che da anni ci mette davanti a uno specchio e ci racconta il nostro rapporto con la tecnologia per dirci chi siamo e che cosa siamo diventati oggi. La nuova stagione è disponibile dal 15 giugno su Netflix. In occasione di questa nuova stagione, Netflix riflette su se stessa: al centro dei primi episodi, infatti, c’è Streamberry, una piattaforma di streaming che è in tutto e per tutto simile a lei, e che può arrivare a fare cose molto preoccupanti. È un modo per ragionare sulla società dei contenuti consumati avidamente on demand, dei contenuti costruiti ad hoc per ogni target. Oggi ogni contenuto è creato ad arte per gruppi precisi di persone. Domani sarà confezionato per ogni singola persona? Tutta la stagione 6 di Black Mirror sembra essere una riflessione sulle immagini e sul loro senso nella nostra vita di oggi, sul nostro rapporto con esse. Dalle immagini in alta definizione a cui assistiamo comodamente in streaming ogni giorno alle immagini di repertorio, in bassa definizione, che possono custodire la memoria, e forse svelare la verità. Dalle immagini fotografiche rubate, quelle che entrano in quella che dovrebbe essere la vita privata delle persone, ma che la loro fama rende pubblica, fino alle prime immagini che, dalla notte dei tempi, venivano usate per riprodurre la realtà, cioè i dipinti. Ma anche all’immagine che, da sempre, rappresenta la nostra identità, cioè il nostro volto: e se, per una volta, non la rappresentasse? Black Mirror ci racconta tutto questo attraverso 5 episodi, ognuno di genere diverso: la satira, il thriller, la fantascienza distopica, l’horror sovrannaturale e l’horror classico. Generi diversi, stesso messaggio. Da non perdere.

Joan Is Awful: attenzione a termini e condizioni…
Che cosa vuol dire sentirsi la protagonista della propria vita? A Joan (Annie Murphy, bravissima) capita letteralmente. Joan lavora in una grande compagnia hi-tech, dove è la persona che deve comunicare a chi viene licenziato la brutta notizia. Ha una storia finita che non si è lasciata del tutto alle spalle, Mac, e una storia in corso, con Krish. Un giorno, guardando con lui la tv su una piattaforma, che si chiama Streamberry ma è del tutto uguale a Netflix, trova una serie che si chiama Joan Is Awful, Joan è terribile. La protagonista, interpretata da Salma Hayek, ha gli stessi capelli. E sembra vivere in tutto e per tutto la sua vita. Già è imbarazzante per sé vedersi rappresentata sullo schermo. Ma il vero problema è che tutti hanno Streamberry, e tutti vedono ogni cosa fa Joan. È come essere in un acquario, in un Truman Show. Ma come è possibile? Lo scoprirete. Ma fate attenzione ai termini e condizioni che accettate ogni volta che vi iscrivete ad una app… Joan Is Awful è un racconto inquietante, e attualissimo, che diventa un vorticoso gioco di scatole cinesi in cui la percezione naufraga e non sappiamo più cosa è reale e cosa no. E in cui Netflix fa ironia su se stessa. “Hanno preso 100 anni di cinema e li hanno ridotti a una misera app”.

Loch Henry: rinvangare un passato torbido
Anche qui al centro della storia c’è la serialità televisiva, la piattaforma Streamberry, e un produttore di documentari, Historik. Tutto nasce dalla storia di un ragazzo, che da Londra torna nel paesino dove è nato con la sua nuova compagna, per girare un documentario lì vicino. Un amico racconta loro la storia di Iain Adair, un folle che sequestrava le persone e le torturava. La ragazza crede che il loro film dovrebbe parlare di questo, e che debba essere qualcosa che possa essere visto da tante persone. Ma è giusto rinvangare un passato torbido? È giusto riportare alla luce qualcosa che fa così male? Quando è il caso di fermarsi? Oggi che tutti vedono le immagini ad alta definizione, che senso hanno le immagini delle vecchie vhs? Sono sgranate, ma sono la memoria storica; sono imperfette, ma sono legate chiaramente a un’epoca. La riflessione sul mezzo e sui linguaggi è la base di partenza di quello che diventa un thriller, un horror “found footage”, una di quelle storie dove il Male si annida proprio dove non si crede. E poi svolta di nuovo verso una satira tagliente e beffarda sul limite che deve porsi chi racconta le storie. Nel cast c’è John Hannah, l’attore di Sliding Doors e La mummia.

Beyond The Sea: siamo uomini o replicanti?
Siamo in un 1969 alternativo e due astronauti, dalle vite idilliache, sono impegnati in una missione nello spazio. A casa ci sono le loro mogli, i loro figli e… Beyond The Sea è un racconto dal respiro più ampio, più lento e compassato, dove le sorprese sono dietro a ogni angolo. È una riflessione sull’essere umano e la possibilità di replicarlo, che va dritta alla fantascienza distopica di Philip K. Dick e del Blade Runner di Ridley Scott e continuata in decine di libri e film. Che cosa accrebbe se avessimo una replica di noi stessi (un link, così lo chiamano) che ci permetta di essere da un’altra parte, con chi conosciamo, con la nostra mente e un corpo simile al nostro? E se, a un certo punto, potessimo invece “indossare” il corpo di un’altra persona? Beyond The Sea è un vero e proprio film (80 minuti) con il ritmo di un lungometraggio. È fatto di sorprese, e di alcuni esiti prevedibili, e ha un cast di gran classe. Il protagonista è Josh Hartnett, che 25 anni fa era un divo in pectore di Hollywood, e che oggi, invecchiato benissimo, è ancora affascinante e sempre più espressivo. E poi ci sono la Kate Mara di House Of Cards e l’Aaron Paul di Breaking Bad e di Westworld.

Mazey Day: agire o scattare?
È un viaggio indietro nel tempo anche quello di Mazey Day, ma non così tanto. Torniamo a 17 anni fa, ai tempi della relazione tra Tom Cruise e Katie Holmes, e della nascita della figlia Suri. È la radio, in sottofondo, a raccontarcelo, e ci immerge immediatamente in un’epoca. Sono gli anni in cui l’iPod è l’oggetto di culto. Una fotografa (Zazie Beetz) scatta una foto compromettente a un attore che cambia la sua vita e anche quella della sua compagna. La cosa ha dei risvolti anche sulla fotografa che ha scattato la foto, e ora si vede assegnare l’incarico di “paparazzare” un’attrice, Mazey Day, che sta affrontando una fase di riabilitazione. Anche questo episodio è una riflessione sulle immagini – in questo caso le fotografie – e sulla loro capacità di rendere la realtà, e di influire sulla vita delle persone. In un episodio che, a sorpresa, svolta verso l’horror soprannaturale, la riflessione è comunque importante: nel momento del pericolo, che si tratti di aiutare qualcuno o di scappare, il dilemma è: agire o riprendere/scattare? La risposta, nella società dell’immagine, è scontata.

Demon 79: che horror l’Inghilterra degli anni Settanta
Demon 79, quinto e ultimo episodio di Black Mirror 6, è un altro viaggio nel passato: dai caratteri dei titoli di testa, alle immagini di quel colore tenue, tra il grigio e il marrone, con quelle imperfezioni tipiche della pellicola, veniamo trasportati in un horror degli anni Settanta. Al centro della storia c’è una ragazza di origine asiatica che lavora in un grande magazzino di abbigliamento. Siamo alla viglia delle elezioni che consacreranno Margaret Thatcher come nuova premier, e un nuovo leader conservatore sta per salire al potere. La comparsa di un demone offre a quella ragazza l’occasione di uccidere… L’horror classico è la forma di un racconto che diventa metafora politica, e che ci vuole dire come la salita al potere dei conservatori in Gran Bretagna sia stata un orrore. Forse ci vogliono dire che lo è anche oggi, con la Brexit e tutto il resto? Demon 79 è un classico horror anni Settanta, ma gioca sul genere con ironia, con un demone che ha l’aspetto di una disco star anni Settanta e la musica di Boney M, Abba, Madness e Boomtown Rats.

Cosa guarderemo in futuro?
Stiamo guardando Black Mirror comodamente in streaming, ma non siamo così tranquilli, perché ci interroghiamo su quale sarà il futuro delle nostre visioni. E ci immaginiamo contenuti unici e fatti su misura per ognuno degli iscritti alla piattaforma, opere visive che si generano automaticamente grazie ai computer quantistici e ai dati e i consensi che concediamo. Ci aspettano infiniti contenuti generati artificialmente, con buona pace della creatività, di sceneggiatori e attori. In quel primo episodio, Joan Is Awful, metanarrativo, Netflix riflette su se stessa, sullo stato dell’arte, su come la tecnologia possa cambiare la creatività.  Anche Loch Henry è una riflessione sul lavoro creativo di chi fa film e serie, e su quello che la gente vuole vedere, sul fare prodotti per una nicchia ristretta o per un pubblico sempre più ampio, i famosi 190 paesi. A proposito di metanarrazione, attenzione al riferimento a San Junipero.

Le novelle e la loro epifania
Black Mirror è una serie affascinante non solo per i temi che affronta e per il tono, che è sempre inquietante come quello di un thriller ma tagliente e beffard come quello di una pagina satirica. È affascinante anche per la sua struttura narrativa, che è quella letteraria di una raccolta di novelle. Come tali vivono sempre di un’epifania, uno svelamento che dà il senso a tutto il racconto breve. Così si assiste a ogni episodio di Black Mirror in attesa di questa epifania. In questi anni abbiamo sempre visto Black Mirror come una serie che ha ridefinito gli standard della serialità, come punto di riferimento per la qualità della narrazione e anche per la maturità della riflessione sul futuro. “Sembra un episodio di Black Mirror” abbiamo sempre detto, come se fosse un complimento. Ecco, gli episodi di Black Mirror sono qui, finalmente. E sono da non perdere.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

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La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Fallout: Se la catastrofe nucleare è un (video)gioco… e una serie, su Prime Video

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L’inizio di Fallout, la nuova serie Prime Video, è – letteralmente – esplosivo.  Siamo in un mondo in cui sembra tutto tranquillo, idilliaco. Siamo negli anni Cinquanta, in America, in quell’atmosfera inconfondibile, patinata. È una festa di compleanno per bambini, dove l’attrazione è stata un cowboy con il suo cavallo. Ogni cosa sembra perfettamente tranquilla, ideale. Se non fosse che c’è una strana inquietudine che traspare da un programma tv. “Come posso fare le previsioni per la prossima settimana, se non so se ci sarà una prossima settimana?” esclama lo speaker delle previsioni del tempo. Fuori, quel cowboy e la sua bambina si chiedono se stia per accadere un’esplosione. “Dicono che devi guardare il pollice” dice il padre. “Se la nuvola è più piccola devi correre oltre le colline. Se è più grande, non occorre che ti preoccupi di correre”. “Il tuo pollice o il mio?” chiede la bambina. Ma il papà non ha tempo di rispondere. L’esplosione avviene prima negli occhi di chi sta guardando, e poi nei nostri, come in Oppeheimer. È un fungo atomico, che si alza altissimo nel cielo. È enorme. E inarrestabile. Ma è solo l’inizio.

La storia di Fallout inizia 219 anni dopo. L’umanità esiste ancora, non si è estinta. Vive nei “vault”, dei rifugi sotterranei, fatti di cunicoli, dove prova a condurre una vita normale. E a riprodurre quella vita tranquilla dell’America del 1950. Ma si fa presto a dire una vita normale. Si sente il suono di allarmi, sirene, rumori meccanici. E, lì sopra, c’è il mondo reale. Lucy, la protagonista, sta per sposarsi. Ha l’abito bianco, il padre la accompagna all’altare. Ma non conosce chi andrà a sposare….

Fallout è basata sul popolarissimo franchise di videogiochi retro-futuristici. Gli esperti in materia videoludica hanno accolto con grande entusiasmo la serie, che è stata definita uno dei migliori adattamenti da videogame mai realizzati. Il videogame è stato adattato per lo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy, i creatori della serie cult Westworld. In comune con Westworld Fallout ha molte cose. È una storia che guarda al futuro, ma anche al passato (retro-futuristica, appunto, come il gioco), con un contrasto che, nello spettatore, crea un cortocircuito, ma anche curiosità e interesse. È una storia di esseri che cercano la loro anima, la loro speranza, in un mondo arido e desertificato, nella forma come nei valori.

Quello che a prima vista colpisce in Fallout è lo scenario. Se ci pensate, i racconti post-apocalittici, post-atomici, distopici, sono tutti permeati di toni – di racconto e di colori – cupi, plumbei, desolati. In Fallout la desolazione prossima ventura c’è, e non potrebbe essere altrimenti. Ma accanto ci sono i colori accesi delle tute, la patina anni Cinquanta e Sessanta, un’ironia e un dark humour che rendono tutto molto particolare e inaspettato. La musica dei Fifties e dei Sixties contribuisce a creare l’atmosfera e a fare da contrasto. Sentire la musica di Johnny Cash, la sua voce baritonale, le chitarre country-blues in un’azione ambientata nel futuro, e in una scena molto violenta, quella di un pestaggio, spiazza lo spettatore. E, sì, funziona.

Al centro di questo mondo originale ci sono gli attori, corpi che devono essere in grado di trasformare le creature in pixel del videogioco in esseri in carne ed ossa. In questo senso, Ella Purnell, nei panni della protagonista Lucy, è perfetta. La ricordiamo nel ruolo di Jackie nella serie Yellowjackets, ma è una vera veterana (è stata nel cast di Non lasciarmi e Maleficent, interpretando la versione giovane dei personaggi di Keira Knightley e Angelina Jolie). La Lucy di Ella Purnell ha degli occhi enormi, sgranati, un viso regolare. Sembra davvero disegnata da un computer come se fosse davvero fatta di pixel. Accanto a lei, nel ruolo del padre, c’è Kyle MacLachlan, l’indimenticato agente Dale Cooper di Twin Peaks. Uno che di atmosfere misteriose (ma, in fondo, anche ironiche e surreali) se ne intende. Qui ci sembra in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e da tempo non lo vedevamo così a fuoco in un personaggio. Nel cast ci sono anche Walton Goggins (The Hateful Eight), Sarita Choudhury (Homeland) e Michael Emerson (Lost e Person of Interest). Di più non possiamo raccontarvi per non guastarvi la sorpresa. Fallout è una serie che va vista. Che siate amanti dei videogame o meno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Il giovane Berlusconi – dall’11 aprile su Netflix

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Un racconto vero, ironico, controverso, ricco di archivi e storie mai raccontate prima: le testimonianze di uomini e donne che, per motivi diversi, hanno conosciuto Silvio Berlusconi, dagli esordi degli anni ‘70, da Milano 2 all’invenzione della TV commerciale fino alla discesa in campo.

Dentro gli archivi iconici e inediti, e tra le testimonianze dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi – personaggi noti, ma anche tecnici, autori, pubblicitari, figure chiave che hanno contribuito al suo successo personale e a quello della sua televisione – e di coloro che lo hanno avversato e criticato.

Un racconto avvincente, dietro le quinte dell’impresa culturale che ha cambiato il costume e i consumi di intere generazioni, prima in Italia e poi in tutta Europa, la TV commerciale: “Il giovane Berlusconi” arriva in streaming dall’11 aprile, in Italia su Netflix e a seguire in molti altri paesi partendo da Francia, Germania e Austria dove verrà trasmesso da ZDF Arte e ORF.

La docuserie è una produzione B&B Film in coproduzione con la società di produzione tedesca Gebreuder Beetz Filmproduktion e con l’emittente franco tedesca ZDF Arte, co-finanziata dalla Regione Lazio (Lazio Cinema International), dal programma Media di Europa Creativa, realizzata anche grazie al Tax Credit del MiC.

La docuserie – composta da tre episodi – tratta del successo di Silvio Berlusconi dai suoi esordi come imprenditore all’invenzione della televisione commerciale alla metà degli anni ’70 fino alle elezioni politiche del ’94.

Figlio del boom economico dei primi anni ’60, Silvio Berlusconi si lancia, come molti in quegli anni, nel business dell’edilizia. Realizza Milano 2, una new town avveniristica immersa nel verde, dove per evitare la selva delle antenne sui tetti, si progetta, per la prima volta in Italia, la cablatura di tutta la cittadina con il cavo coassiale. Ed è così che, nel 1974, in un sottoscala nasce una televisione al servizio dei residenti che possono seguire la messa, le riunioni di condominio, le attività sportive dei propri figli e la pubblicità del negoziante sotto casa. Nessuno avrebbe immaginato che da lì a poco la televisione condominiale di TeleMilanoCavo si sarebbe trasformata in uno dei più grandi gruppi televisivi privati europei.

La situazione delle emittenti private a metà degli anni ’70 è paragonabile a un “mucchio selvaggio” e Berlusconi fiuta l’affare: la televisione privata è il business del futuro. Vuole dei programmi vivaci, colorati, ma al tempo stesso rassicuranti, e la pubblicità deve esserne l’anima. Il monopolio della Rai viene aggirato dal cosiddetto “pizzone” di Berlusconi, un nastro registrato con programmi e pubblicità che viene consegnato a tutte le emittenti, sparse lungo il territorio nazionale, affiliate con Canale5, che ha ormai sostituito TeleMilano. Con questo escamotage rudimentale quanto geniale, una piccola televisione locale di Milano riesce a far sentire la sua voce in tutta Italia e a vendere tanta, tantissima, pubblicità.

E così, durante la coda sanguinosa degli anni di piombo Berlusconi fa sognare i telespettatori, raccontando un’Italia che ancora non esiste, ma che si paleserà da lì a poco. Intere generazioni crescono davanti ai teleschermi del gruppo Fininvest, che mandano in onda telequiz, soap opera, telefilm americani, cartoni animati giapponesi, calcio, programmi comici.

Berlusconi parla al consumatore e agli inserzionisti, mentre la TV di Stato si rivolge al cittadino: da questo momento i confini tra i due mondi si faranno più labili, la comunicazione berlusconiana plasma un pubblico nuovo, che presto diventerà elettorato. E non si ferma: per tutti gli anni ’80 l’impero di Berlusconi cresce così a dismisura, inglobando, oltre alle televisioni e alla pubblicità, anche l’editoria, giornali, riviste, assicurazioni, banche, catene di negozi e una squadra di calcio, l’AC Milan, rendendo ancora più popolare la sua immagine di imprenditore di successo.

La docuserie racconta la straordinaria storia di una delle più famose e controverse personalità europee. Tre puntate della durata di 50’ ciascuna, nessun narratore, ma un cast selezionato di testimoni, capaci di confidenze e aneddoti inediti. Un racconto vero, sincero, emotivamente coinvolgente, ricco di storie mai raccontate prima. Oltre alle interviste, la serie è costituita da materiale di repertorio, in parte inedito o raro.

Divertente, sorprendente, ironica: la serie usa la musica, gli archivi e i racconti personali come elementi chiave di una storia di grande impatto visivo, con una forte costruzione drammaturgica, una scrittura capace di raccontare cos’è stato Berlusconi non solo al pubblico italiano, ma anche agli spettatori internazionali.

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