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The Idol: Lily-Rose Depp, popstar sull’orlo di una crisi di nervi nella serie Sky e NOW

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Fai un’altra delle tue risate Joss. Un po’ più di innocenza ora. Guarda in camera. Uno sguardo da cerbiatta. Ora maliziosa. Gioca con la fotocamera. Ok, sesso puro ora. Ora vulnerabile. E ora sensibile”.  Jocelyn, o come la chiamano tutti, Joss, la protagonista di The Idol, sta facendo uno shooting fotografico. La vediamo in primo piano, solo il suo viso. La macchina da presa poi allarga l’inquadratura e la vediamo a figura intera, in intimo, il corpo in gran parte scoperto. Jocelyn è Lily- Rose Depp, la figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis, che vi avevamo presentato qualche anno fa su Daily Mood. Modella e finora protagonista di film d’autore, ora arriva in tutta la sua bellezza in The Idol, la nuova serie scandalo HBO, dal 5 giugno in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW. The Idol è creata da Sam Levinson (Euphoria), Abel “The Weeknd” Tesfaye e Reza Fahim. Abel “The Weeknd” Tesfaye è anche il protagonista, accanto Lily-Rose Depp.  La serie sarà disponibile on demand su Sky e in streaming su NOW già dalle 4.00 di mattina di ogni lunedì, e ciascun nuovo episodio andrà su Sky Atlantic tutti i lunedì in seconda serata, dalle 23.00, in versione originale con sottotitoli in italiano. Il primo episodio doppiato in italiano sarà disponibile dal 12 giugno alle 22.00.

Dopo che un esaurimento nervoso ha fatto deragliare il suo ultimo tour, Jocelyn (Lily-Rose Depp) è decisa a riconquistare lo status che le spetta, quello di più grande e sexy popstar d’America. Lavora duro, ha in uscita un nuovo singolo, e ha in previsione un tour. Ma non è convinta delle sue nuove canzoni, sembra mancarle qualcosa. A riaccendere le sue passioni è Tedros (Abel “The Weeknd” Tesfaye), impresario di nightclub, deejay e produttore, che incontra una sera nel suo locale. Mentre Joss sta facendo quel servizio fotografico, intanto, arriva una foto molto compromettente, un selfie che potrebbe rovinare la sua carriera. O forse no…

The Idol ci mostra quello che di solito non vediamo. Tutto quello che gira intorno alle immagini scintillanti e provocanti delle star che trovavamo (e a tratti troviamo ancora) sulle riviste patinate, e che oggi ci appaiono soprattutto sul web e sui social media. C’è una star, una stella luminosa, al centro. Tutto intorno ruotano pianeti e satelliti: manager, fotografi, coreografi, produttori, discografici, impresari, assistenti, giornalisti, coordinatori dell’intimità. Sì, in una delle prime scene appare anche un “intimacy coordinator”, una di quelle figure che sentiamo nominare perché, sui set, foto e riprese vengano fatte nel modo giusto, in modo che sia rispetto per il corpo e per la persona. Pianeti e satelliti girano intorno alla stella, dicevamo. Ma è davvero così o è il contrario?

La malattia mentale è sexy”, sentiamo dire all’inizio di The Idol da una scaltra manager, mentre osserva Joss sul set fotografico. Il perché sia da ritenere tale è tutto un programma, che qui non possiamo riportare, e che scoprirete guardando la serie. Ma quella frase, e la storia di Joss, è qui per ricordarci quante stelle cadenti abbiamo visto durare una notte d’estate. Crolli nervosi, dipendenze, comportamenti borderline li abbiamo già visti tante volte. Britney Spears (pare che la storia sia ispirata a lei), Lindsay Lohan, Demi Lovato e tante altre.  Sono storie che abbiamo visto tante volte, nelle notizie di gossip, su giornali e sul web, che abbiamo letto velocemente e siamo passati avanti. The Idol prova a portarci dentro a tutto questo, a mostrarci il prima, il dopo, il mondo in cui tutto questo avviene. E che cos’è che scatena certi comportamenti.

È la nuova Brigitte Bardot”. “Ha un che di Sharon Tate”. Ogni volta che nasce una stella i paragoni si sprecano, ed è in questi termini che i manager parlano di Jocelyn. Parlando di Lily-Rose Depp viene immediato pensare ai suoi genitori, Johnny Depp e Vanessa Paradis, concentrarci su quel volto dove non possiamo fare a meno di vedere sua madre e suo padre. Lily-Rose Depp ha i capelli biondi e l’ovale perfetto della madre, i lineamenti, gli zigomi alti, e quegli occhi neri, infuocati del padre. Il volto di Lily-Rose Depp, come abbiamo capito da quelle prime immagini, è capace di regalarci le emozioni più sfaccettate. Ma in The Idol, lo avrete capito, Lily-Rose recita soprattutto con il corpo, con tutto il corpo. Il suo corpo minuto, slanciato, acerbo, quasi adolescenziale è quasi sempre scoperto, in vista. È bellissimo, ma anche uguale a tanti altri, i corpi delle popstar di oggi che, a un primo sguardo, sembrano davvero tutti uguali. È proprio così che, probabilmente, dev’essere in una serie come The Idol, perché la figura di Lily-Rose Depp è qui per evocarne tante altre. E, in questo, l’attrice è perfettamente credibile.

A un certo punto, in un club, sentiamo una versione remixata di Like A Prayer di Madonna, la prima popstar dell’era moderna. È lei, il modello della “Blonde Ambition”, che ha dato inizio a un certo tipo di star system che è ancora quello di oggi. Ma nella popstar di origini italiane ci sembrava di vedere tutta un’altra consapevolezza, un voler tenere saldamente in pugno le redini della propria carriera, una personalità e un carisma che abbiamo ritrovato in altre star, ma che a molte altre sembra mancare. A proposito di bionde, c’è anche Sharon Stone, quella di Basic Instinct, nel primo episodio di The Idol. Quasi che i creatori della serie volessero inserire la loro eroina in una galleria di bionde fatali. O che si voglia presagire una svolta più pericolosa nel prosieguo della storia.

La musica pop è superficiale”. “Credo che Prince non sarebbe d’accordo” recita un dialogo tra Joss e Tedros, che si avvia a diventare il suo mentore, e con il quale il feeling non sembra fermarsi al livello professionale. “Il pop è come un perfetto Cavallo di Troia”, dice lui. “Fai ballare la gente, la fai cantare con te le fai dire quello che vuoi”. The Idol è, o almeno prova ad essere, anche una riflessione sul pop, sulla musica di oggi.

Dietro a tutto questo gioco c’è Sam Levinson, il creatore di Euphoria, serie estrema per forma e contenuti, di cui vi abbiamo parlato spesso. Il gioco, in parte, è lo stesso: il voyeurismo, la scabrosità, il voler spingere gli attori oltre i loro limiti, oltre la loro comfort zone. Le immagini, come in Euphoria, sono allo stesso tempo brutali e patinate, esplicite e scintillanti. Lì c’era il fine di raccontare una generazione di ragazzi perduti, abbandonati a se stessi. Anche qui c’è una ragazza giovane, solo poco più adulta, già realizzata, già molto ricca. Una popstar internazionale dove c’erano studenti e spacciatori. Ma insicurezze, dolori, dipendenze potrebbero essere anche gli stessi. Il gioco funziona, ma funziona di meno. Se quei ragazzi abbandonati ci avevano preso il cuore, la giovane popstar è qualcuno che sentiamo meno vicino. Il gioco è intrigante, anche se molto più freddo e meno empatico. Arrivati alla fine del primo episodio, comunque funziona. Si sta al gioco, e si ha voglia di continuare a guardare per capire dove arriverà quella che si prospetta come una discesa agli inferi. E, dopo questo primo episodio, non ascolterete più Donna Summer e la sua Love To Love You Baby nello stesso modo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

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La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Fallout: Se la catastrofe nucleare è un (video)gioco… e una serie, su Prime Video

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L’inizio di Fallout, la nuova serie Prime Video, è – letteralmente – esplosivo.  Siamo in un mondo in cui sembra tutto tranquillo, idilliaco. Siamo negli anni Cinquanta, in America, in quell’atmosfera inconfondibile, patinata. È una festa di compleanno per bambini, dove l’attrazione è stata un cowboy con il suo cavallo. Ogni cosa sembra perfettamente tranquilla, ideale. Se non fosse che c’è una strana inquietudine che traspare da un programma tv. “Come posso fare le previsioni per la prossima settimana, se non so se ci sarà una prossima settimana?” esclama lo speaker delle previsioni del tempo. Fuori, quel cowboy e la sua bambina si chiedono se stia per accadere un’esplosione. “Dicono che devi guardare il pollice” dice il padre. “Se la nuvola è più piccola devi correre oltre le colline. Se è più grande, non occorre che ti preoccupi di correre”. “Il tuo pollice o il mio?” chiede la bambina. Ma il papà non ha tempo di rispondere. L’esplosione avviene prima negli occhi di chi sta guardando, e poi nei nostri, come in Oppeheimer. È un fungo atomico, che si alza altissimo nel cielo. È enorme. E inarrestabile. Ma è solo l’inizio.

La storia di Fallout inizia 219 anni dopo. L’umanità esiste ancora, non si è estinta. Vive nei “vault”, dei rifugi sotterranei, fatti di cunicoli, dove prova a condurre una vita normale. E a riprodurre quella vita tranquilla dell’America del 1950. Ma si fa presto a dire una vita normale. Si sente il suono di allarmi, sirene, rumori meccanici. E, lì sopra, c’è il mondo reale. Lucy, la protagonista, sta per sposarsi. Ha l’abito bianco, il padre la accompagna all’altare. Ma non conosce chi andrà a sposare….

Fallout è basata sul popolarissimo franchise di videogiochi retro-futuristici. Gli esperti in materia videoludica hanno accolto con grande entusiasmo la serie, che è stata definita uno dei migliori adattamenti da videogame mai realizzati. Il videogame è stato adattato per lo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy, i creatori della serie cult Westworld. In comune con Westworld Fallout ha molte cose. È una storia che guarda al futuro, ma anche al passato (retro-futuristica, appunto, come il gioco), con un contrasto che, nello spettatore, crea un cortocircuito, ma anche curiosità e interesse. È una storia di esseri che cercano la loro anima, la loro speranza, in un mondo arido e desertificato, nella forma come nei valori.

Quello che a prima vista colpisce in Fallout è lo scenario. Se ci pensate, i racconti post-apocalittici, post-atomici, distopici, sono tutti permeati di toni – di racconto e di colori – cupi, plumbei, desolati. In Fallout la desolazione prossima ventura c’è, e non potrebbe essere altrimenti. Ma accanto ci sono i colori accesi delle tute, la patina anni Cinquanta e Sessanta, un’ironia e un dark humour che rendono tutto molto particolare e inaspettato. La musica dei Fifties e dei Sixties contribuisce a creare l’atmosfera e a fare da contrasto. Sentire la musica di Johnny Cash, la sua voce baritonale, le chitarre country-blues in un’azione ambientata nel futuro, e in una scena molto violenta, quella di un pestaggio, spiazza lo spettatore. E, sì, funziona.

Al centro di questo mondo originale ci sono gli attori, corpi che devono essere in grado di trasformare le creature in pixel del videogioco in esseri in carne ed ossa. In questo senso, Ella Purnell, nei panni della protagonista Lucy, è perfetta. La ricordiamo nel ruolo di Jackie nella serie Yellowjackets, ma è una vera veterana (è stata nel cast di Non lasciarmi e Maleficent, interpretando la versione giovane dei personaggi di Keira Knightley e Angelina Jolie). La Lucy di Ella Purnell ha degli occhi enormi, sgranati, un viso regolare. Sembra davvero disegnata da un computer come se fosse davvero fatta di pixel. Accanto a lei, nel ruolo del padre, c’è Kyle MacLachlan, l’indimenticato agente Dale Cooper di Twin Peaks. Uno che di atmosfere misteriose (ma, in fondo, anche ironiche e surreali) se ne intende. Qui ci sembra in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e da tempo non lo vedevamo così a fuoco in un personaggio. Nel cast ci sono anche Walton Goggins (The Hateful Eight), Sarita Choudhury (Homeland) e Michael Emerson (Lost e Person of Interest). Di più non possiamo raccontarvi per non guastarvi la sorpresa. Fallout è una serie che va vista. Che siate amanti dei videogame o meno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Il giovane Berlusconi – dall’11 aprile su Netflix

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Un racconto vero, ironico, controverso, ricco di archivi e storie mai raccontate prima: le testimonianze di uomini e donne che, per motivi diversi, hanno conosciuto Silvio Berlusconi, dagli esordi degli anni ‘70, da Milano 2 all’invenzione della TV commerciale fino alla discesa in campo.

Dentro gli archivi iconici e inediti, e tra le testimonianze dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi – personaggi noti, ma anche tecnici, autori, pubblicitari, figure chiave che hanno contribuito al suo successo personale e a quello della sua televisione – e di coloro che lo hanno avversato e criticato.

Un racconto avvincente, dietro le quinte dell’impresa culturale che ha cambiato il costume e i consumi di intere generazioni, prima in Italia e poi in tutta Europa, la TV commerciale: “Il giovane Berlusconi” arriva in streaming dall’11 aprile, in Italia su Netflix e a seguire in molti altri paesi partendo da Francia, Germania e Austria dove verrà trasmesso da ZDF Arte e ORF.

La docuserie è una produzione B&B Film in coproduzione con la società di produzione tedesca Gebreuder Beetz Filmproduktion e con l’emittente franco tedesca ZDF Arte, co-finanziata dalla Regione Lazio (Lazio Cinema International), dal programma Media di Europa Creativa, realizzata anche grazie al Tax Credit del MiC.

La docuserie – composta da tre episodi – tratta del successo di Silvio Berlusconi dai suoi esordi come imprenditore all’invenzione della televisione commerciale alla metà degli anni ’70 fino alle elezioni politiche del ’94.

Figlio del boom economico dei primi anni ’60, Silvio Berlusconi si lancia, come molti in quegli anni, nel business dell’edilizia. Realizza Milano 2, una new town avveniristica immersa nel verde, dove per evitare la selva delle antenne sui tetti, si progetta, per la prima volta in Italia, la cablatura di tutta la cittadina con il cavo coassiale. Ed è così che, nel 1974, in un sottoscala nasce una televisione al servizio dei residenti che possono seguire la messa, le riunioni di condominio, le attività sportive dei propri figli e la pubblicità del negoziante sotto casa. Nessuno avrebbe immaginato che da lì a poco la televisione condominiale di TeleMilanoCavo si sarebbe trasformata in uno dei più grandi gruppi televisivi privati europei.

La situazione delle emittenti private a metà degli anni ’70 è paragonabile a un “mucchio selvaggio” e Berlusconi fiuta l’affare: la televisione privata è il business del futuro. Vuole dei programmi vivaci, colorati, ma al tempo stesso rassicuranti, e la pubblicità deve esserne l’anima. Il monopolio della Rai viene aggirato dal cosiddetto “pizzone” di Berlusconi, un nastro registrato con programmi e pubblicità che viene consegnato a tutte le emittenti, sparse lungo il territorio nazionale, affiliate con Canale5, che ha ormai sostituito TeleMilano. Con questo escamotage rudimentale quanto geniale, una piccola televisione locale di Milano riesce a far sentire la sua voce in tutta Italia e a vendere tanta, tantissima, pubblicità.

E così, durante la coda sanguinosa degli anni di piombo Berlusconi fa sognare i telespettatori, raccontando un’Italia che ancora non esiste, ma che si paleserà da lì a poco. Intere generazioni crescono davanti ai teleschermi del gruppo Fininvest, che mandano in onda telequiz, soap opera, telefilm americani, cartoni animati giapponesi, calcio, programmi comici.

Berlusconi parla al consumatore e agli inserzionisti, mentre la TV di Stato si rivolge al cittadino: da questo momento i confini tra i due mondi si faranno più labili, la comunicazione berlusconiana plasma un pubblico nuovo, che presto diventerà elettorato. E non si ferma: per tutti gli anni ’80 l’impero di Berlusconi cresce così a dismisura, inglobando, oltre alle televisioni e alla pubblicità, anche l’editoria, giornali, riviste, assicurazioni, banche, catene di negozi e una squadra di calcio, l’AC Milan, rendendo ancora più popolare la sua immagine di imprenditore di successo.

La docuserie racconta la straordinaria storia di una delle più famose e controverse personalità europee. Tre puntate della durata di 50’ ciascuna, nessun narratore, ma un cast selezionato di testimoni, capaci di confidenze e aneddoti inediti. Un racconto vero, sincero, emotivamente coinvolgente, ricco di storie mai raccontate prima. Oltre alle interviste, la serie è costituita da materiale di repertorio, in parte inedito o raro.

Divertente, sorprendente, ironica: la serie usa la musica, gli archivi e i racconti personali come elementi chiave di una storia di grande impatto visivo, con una forte costruzione drammaturgica, una scrittura capace di raccontare cos’è stato Berlusconi non solo al pubblico italiano, ma anche agli spettatori internazionali.

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