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The New Look: Christian Dior e la creazione come sopravvivenza. Su Apple Tv+

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Se non fosse che The New Look, la serie su Christian Dior, in streaming su AppleTv+ dal 14 febbraio, e Cristóbal Balenciaga, disponibile da qualche settimana su Disney+, appartengono a piattaforme diverse, potremmo pensare che oggi ci sia un universo condiviso dedicato al mondo della moda. Sì, proprio come avviene per i supereroi, quelli della Marvel e della DC. La storia di Dior e quella di Balenciaga, infatti, si intrecciano e vivono nello stesso mondo e lo stesso tempo, la Parigi dell’occupazione nazista dei primi anni Quaranta, dove, tra l’altro, vive un’altra grande della moda come Coco Chanel. Le loro storie hanno un prima e un dopo, ovviamente. Ma è in quel momento, e in quelli immediatamente successivi, che si sono incrociate e hanno lasciato il segno. È in quegli anni che è nata l’idea di Haute Couture, la moda fatta su misura, a mano, con tessuti unici e tagli unici. Un’industria che, come spiega Coco Chanel a un attonito Heinrich Himmler che la vorrebbe spostare da Parigi a Berlino, è composta da circa 20mila artigiani. Il Christian Dior che ci viene raccontato da The New Look è stato una nuova speranza. È stato l’idea che la moda potesse portare una ventata di bellezza e di positività dopo gli orrori della guerra. Oggi, che di guerre ne stiamo vivendo molte, alcune anche vicine a noi, ci piace questa idea che la moda, e in generale la bellezza, possano sbocciare una volta che, come tutti speriamo, le guerre siano spazzate via. È anche con questo mood che dobbiamo vedere una serie come The New Look.

Ambientata durante l’occupazione nazista di Parigi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, The New Look si concentra su uno dei momenti più cruciali del XX secolo, quando la capitale francese ha riportato in vita il mondo grazie a un’icona della moda: Christian Dior (Ben Mendelsohn). Mentre Dior sale alla ribalta con la sua rivoluzionaria e iconica impronta di bellezza e influenza, il primato di Coco Chanel (Juliette Binoche) come stilista più famosa del mondo viene messo in discussione. La saga intreccia le storie sorprendenti di personaggi contemporanei e antagonisti di Dior: dalla Grand Dame Coco Chanel a Pierre Balmain, Cristóbal Balenciaga e altri ancora e offre una visione straordinaria dell’atelier, dei disegni e degli abiti creati da Christian Dior grazie alla collaborazione con la Maison Dior.

The New Look si muove quindi nello stesso universo di Cristóbal Balenciaga, ma in realtà è molto diversa. Questo dipende dalla durata delle due serie, 6 episodi quella sullo stilista spagnolo e 10 questa. Ma molto dipende soprattutto sull’impostazione delle due opere. Cristóbal Balenciaga aveva l’intenzione di celebrare lo stilista di Madrid e l’arte del disegno, della sartoria, della scelta dei tessuti, la creazione e il rapporto tra gli abiti e lo spazio. La guerra e il nazismo erano parte di quella storia: veniva raccontata, ma in un episodio solo. Era un capitolo, fondamentale, ma da lasciare poi per andare avanti. Qui il racconto della Parigi occupata dai nazisti, di quegli anni terribili è invece il punto di partenza e il cuore stesso della storia. I creatori della serie, prima che l’arte degli stilisti, vogliono raccontarci il dolore e la sofferenza che li ha animati. Per farci capire come tutta la bellezza che è venuta dopo sia frutto di questo. Di un fango che è diventato il terreno dal quale sono nati i fiori.

Così, almeno per i primi cinque episodi, The New Look è qualcosa di molto diverso da quello che avevamo visto in Cristóbal Balenciaga e di quello che ci aspettavamo. Quei primi episodi sono duri, senza sconti, molto vicini a quei film di guerra e sul nazismo, che sono sempre molto carichi di commozione e che apprezziamo sempre. Ma che, magari, non ci aspettiamo di trovare in una serie dedicata un grande della moda. A tratti la serie scivola anche nella spy story, con la missione di Coco Chanel a Madrid per conto dei nazisti. In questo senso, The New Look pone una questione molto controversa: i diversi livelli di collaborazione con il nemico. Si collabora per sopravvivere, lo si fa in modi diversi. Si può farlo restando il più distante possibile. O avvicinandosi pericolosamente. In questo senso, la storia di Coco Chanel è la più controversa.

The New Look è creata da Todd A. Kessler, sceneggiatore de I Soprano e creatore di serie come Damages e, soprattutto, Bloodline. Una serie fatta di relazioni pericolose e legami familiari. Anche qui i legami familiari (il rapporto tra Christian Dior e la sorella Catherine, interpretata da Maisie Williams) e le relazioni pericolose, come quella tra Coco Chanel e alcuni esponenti del partito nazista, sono il cuore del racconto. Ma da Bloodline, soprattutto, arriva un grande attore come Ben Mendelsohn, che qui ci regala una prestazione sontuosa e carica di sensibilità. La sua interpretazione è tutta giocata sui mezzi toni, su una mimica facciale fatta di tanti minimi tic e di movimenti impercettibili. I suoi occhi azzurri sono finestre attraverso le quali leggere la disperazione, lo spaesamento, la paura, ma anche l’ispirazione e l’orgoglio. La bocca, tremante e mobilissima, la voce tenue contribuiscono al ritratto di un uomo mite e sensibile. Accanto a lui, come una vera e propria coprotagonista della storia, c’è Juliette Binoche, capace di dare corpo a Coco Chanel in tutte le sue contraddizioni, nel suo sarcasmo come nelle sue fragilità. Ma è l’intero cast a brillare: ci sono John Malkovich, nel ruolo di Lucien Lelong, Emily Mortimer, nel ruolo di Elsa Lombardi e Glenn Close nel ruolo di Carmel Snow, la giornalista di Harper’s Bazaar che coniò il termine “new look” assistendo alla prima sfilata di Dior nel 1947.

La storia della moda parigina comincia ad entrare in scena alla fine del quarto episodio quando si racconta come, il 28 marzo del 1945, al Louvre venne aperto il Theatre de la mode, una mostra della moda francese che raccolse oltre 100mila visitatori. Senza modelli e modelle, con abiti creati per essere indossati da manichini in miniatura. Ci parteciparono tutti i grandi nomi della moda francese, che lavorarono insieme a portarono speranza alla Francia. C’erano tutti i grandi nomi che ancora oggi esistono. E salvarono la moda francese dal rischio di estinzione. Tra tutti, i due modelli più apprezzati furono proprio quelli di Christian Dior. Alla fine del primo episodio, durante una lezione alla Sorbona di Parigi, Dior parla della guerra per spiegare il desiderio di sopravvivenza. E per dire una cosa fondamentale. “Per me la creazione è sopravvivenza”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Tutto chiede salvezza 2: Si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano. Su Netflix

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“Un reparto di psichiatria è una linea di confine con la realtà. Non esiste, tra noi e loro, che una sola differenza: il caso”. È in questa frase il senso profondo di una serie speciale come Tutto chiede salvezza, la serie di Francesco Bruni – scritta insieme a Daniela Gambaro e Daniele Mencarelli, tratta dal suo romanzo – che ritorna finalmente con la stagione 2 dal 26 settembre su Netflix. Già dal romanzo di Mencarelli, già dalla stagione 1 era tutto chiaro: “si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano”. E così ritorna Daniele, ritorna la nave dei pazzi. Il nostro protagonista ritorna a Villa San Francesco, nel reparto psichiatrico dove aveva passato una settimana in seguito a un TSO. Ma stavolta è dall’altra parte: sta facendo un tirocinio come infermiere. L’idea permette di scatenare un mondo complicato che è ancora dentro di lui. Tutto chiede salvezza 2 è una serie scritta e diretta con una straordinaria sensibilità ed empatia verso il prossimo, che dagli autori si trasferisce a un cast in stato di grazia e fa che la serie sia un’esperienza immersiva. In quel reparto psichiatrico di Villa San Francesco ci siamo tutti noi. Ci siamo dentro fino al collo.

Sono trascorsi due anni da quando abbiamo lasciato Daniele e la nave dei pazzi. Molte cose sono cambiate: Daniele (Federico Cesari) e Nina (Fotinì Peluso) sono diventati i genitori della piccola Maria e poco dopo la sua nascita si sono allontanati. Li ritroviamo che si contendono l’affidamento della bambina con il supporto delle rispettive e diversissime famiglie. Daniele, dopo l’intensa esperienza vissuta durante la settimana di TSO, ha scelto di diventare infermiere e, grazie all’intervento della dottoressa Cimaroli (Raffaella Lebboroni), sta per entrare come tirocinante nell’ospedale in cui era stato ricoverato. Ha cinque settimane per dimostrare al giudice che quello può diventare un impiego stabile, accreditandosi come un genitore affidabile. In questa nuova veste, Daniele conosce i nuovi pazienti della camerata, che lo costringono a riflettere sul suo eccesso di empatia verso il dolore degli altri e che rischiano di farlo deragliare di nuovo.

Too much love will kill you, troppo amore ti ucciderà, cantavano i Queen. Ed è questo il problema di Daniele: troppo amore per il prossimo, troppa sensibilità, troppa empatia. La nuova esperienza rischia di travolgerlo. Per Daniele tornare nella camerata vuol dire mettersi allo specchio: guardare i nuovi ospiti del reparto riflettersi in loro e rivedere se stesso. Quel “siamo uguali” che gli dice Rachid, detto Tormento, ex grande promessa del calcio, gli fa male. Se il confine tra sanità e malattia è questione di attimi, del caso, Daniele non è pià sicuro di avercela fatta. “Non sono un padre, non sono un figlio, non sono malato, non sono un infermiere, non sono niente”. Daniele è alla ricerca di se stesso. Ma in fondo non lo siamo tutti?

Come un’altra grande serie, molto diversa, The Handmaid’s Tale, il romanzo d’origine copriva la prima stagione. Scrivere un’altra stagione di Tutto chiede salvezza non era facile. Francesco Bruni, Daniele Mencarelli e Daniela Gambaro ci sono riusciti, trovando nell’anima dei personaggi quello che ancora potevano dare. E prendendo dalla vita: Francesco Bruni ha raccontato la storia, dolorosa, della separazione tra Daniele e Nina trovandola probabilmente tra le persone a lui vicine; Daniele Mencarelli nella sua storia, quel passaggio a diventare un autore di poesia, una poesia salvifica, da semplice appassionato. Chissà se anche nella sua vita c’è stato qualcuno come Angelica (Valentina Romani), una sorta di Beatrice che lo ha condotto verso il Paradiso. Rispetto alla stagione 1 si nota che nella trama c’è più costruzione, che si sia scelto di raccontare la vita di Daniele secondo il percorso dell’eroe, con molti ostacoli da superare, con in supporto di tanti, importanti, aiutanti.

Ma quello che conta è che questi personaggi non vorresti mai lasciarli. Non vorresti passare con loro solo cinque episodi (una durata perfetta) ma tutta la vita, andare avanti all’infinito, perché fanno parte di te, come se fossero la tua famiglia. Dovremmo tutti tornare da loro, ogni tanto, per sapere come stanno. Perché a loro ci teniamo.

In questa seconda stagione Francesco Bruni scopre sempre di più il piacere della regia, il gusto per l’inquadratura. Le sequenze non sono mai banali. A partire da certe inquadrature dall’alto, ariose e liberatorie, che sembrano quasi sottintendere che ci sia qualcuno lassù, un deus ex machina, ad assistere all’umana commedia di questi personaggi, e magari indirizzarla. Ci piace come le immagini sono legate alla musica, da Nel blu, dipinto di blu (Volare) di Domenico Modugno che apre la storia a Sul bel Danubio blu di Johan Strauss II.

Il futuro di Daniele Mencarelli, dalla cui esperienza è tratto questo racconto, è stato nella scrittura, nella poesia. “Quando ridi e sei tutt’uno con la gioia niente che sia male esiste, fremono nell’aria le tue braccia afferrando invisibili cose, luci e ombre amiche giocano con te in segreto in una lingua vietata a ogni altro, poi nuvole a coprire il sole il buio che penetra la stanza nere le pareti dove le tue mani carezzavano il pulviscolo, quello che non vedono i tuoi occhi è il dolore, si chiama perdita”.

di Maurizio Ermisino

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The Penguin: Colin Farrell è un Pinguino gangster nello spin-off di The Batman

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Il suo nome è Cobblepot, Oswald Cobblepot. Qui lo chiamano Oz Cobb. Ma, per tutti quelli che conoscono il mondo di Batman, è il Pinguino, lo storico arcinemico dell’uomo pipistrello. È il villain più famoso e presente dopo il Joker. Oz Cobb ora è il protagonista di una serie tv. È il primo spin-off del blockbuster The Batman, basato sui personaggi della DC Comics, il film che, con Robert Pattinson nei panni del vigilante di Gotham City, ha inaugurato un nuovo corso per il personaggio. La serie di cui parliamo è The Penguin, dal 20 settembre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW in contemporanea assoluta con gli Stati Uniti. Il secondo episodio andrà in onda lunedì 30 settembre e, a seguire, ogni lunedì una nuova puntata su Sky Atlantic, sempre disponibile on demand e in streaming.

Il Pinguino della nuova serie drammatica in otto episodi targata DC Studios, di cui Lauren LeFranc è showrunner, continua l’epica saga criminale avviata dal regista Matt Reeves con il blockbuster The Batman, del 2022. Come ricorderete, Reeves ha dato un nuovo taglio al mondo di Batman. Lontano dalle atmosfere dei classici cinecomic, l’uomo pipistrello si muoveva nel mondo di un noir, investigatore tra gangster e serial killer, in un universo filmico che era quello dei thriller anni Novanta, alla Seven.

È qui dentro che si muove anche il nuovo Pinguino. Oz Cobb ci era stato presentato già in The Batman. Era un gangster che si muoveva nella notte di Gotham City, tra traffico di droga e locali notturni, legato a Carmine Falcone, il boss criminale dominante. La nuova storia inizia da qui, una settimana dopo la fine di The Batman, dopo la caduta del boss che improvvisamente lascia un vuoto nel mondo criminale che traffica nella droga. E il nostro Pinguino è pronto ad approfittarne. Dovrà vedersela però con i figli di Falcone.

The Penguin, allora, è proprio questo: una serie crime, un gangster movie in otto episodi che, alla fine, si ricollegheranno al secondo film di The Batman. Le dinamiche, più che quelle di un film di supereroi, sono quelle dei film di mafia, da classici come Il Padrino a serie cult come I Soprano. Una scelta interessante, e in teoria coerente con quello che è il nuovo mondo ideato da Matt Reeves per The Batman. Ma che, allo stesso tempo, rischia di far perdere questa serie tra le tante serie crime che oggi compongono l’offerta della tv in streaming.

Siamo nella Gotham City nera e dai bagliori rosso fuoco dipinta in The Batman, certo, c’è il famoso manicomio di Arkham, ma per il resto il collegamento con l’uomo pipistrello è molto flebile. Una serie ambientata nel mondo di Batman senza Batman è un po’ un ossimoro. O, se volete, un’occasione perduta. The Penguin, insomma, non riesce a cogliere nel segno e a emozionare come potrebbe.

Al centro di tutto c’è un Colin Farrell irriconoscibile, coperto da pesanti strati di trucco prostetico. Il nuovo Pinguino, non si può negarlo, è originale, anche se sconfessa (ma l’intento è proprio quello) il personaggio originale. Tim Burton nel suo Batman: Il ritorno aveva scelto Danny De Vito per disegnare un personaggio memorabile: basso di statura, il naso adunco, quasi a diventare un becco, le mani deformi. Quel Pinguino era un freak, un mostro, un bambino rifiutato dai genitori e cresciuto da solo. Abbandonato, solo, reietto: era normale che diventasse un cattivo. E in questo modo, conoscendolo, vedendo il suo passato, lo spettatore entrava in empatia con lui, secondo la classica poetica di Burton.

Il Pinguino di Colin Farrell è invece molto diverso. Più imponente fisicamente, sovrappeso, corpulento, non ha gli abiti classici del villain, ma è vestito di nero e bianco, come i classici gangster. A legarlo al Pinguino sono la sua zoppia, l’andatura caracollante, e il naso. Non così mostruoso come quello del Pinguino classico, ma comunque pronunciato. Il trucco prostetico gli rende gonfi anche il mento e le gote, che sono solcate da cicatrici, segni di battaglie e di violenze. Farrell lavora molto sulla voce, anche questa impostata secondo la tradizione dei classici gangster. Accanto a lui, l’interprete più interessante è Cristin Milioti, che veste i panni di Sofia Falcone, figlia del boss, un passato da detenuta nel manicomio di Arkham. Quando è inquadrata accende la scena, ipnotizza, e non ci lascia più andare.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Emily In Paris arriva a Roma, nel nome di Audrey Hepburn

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Emily, il personaggio cult di Lily Collins, protagonista della fortunata serie Netflix Emily in Paris, arriva a Roma. Ad aspettarla c’è un ragazzo italiano, che si chiama Marcello, ed è in sella ad una vespa con cui la porterà in giro per la Capitale, tra rovine, trattorie e i monumenti più importanti. Cominciano così gli episodi di Emily In Paris girati a Roma, gli ultimi due della seconda parte della stagione 4, disponibile su Netflix dal 12 settembre. Emily si trova a Roma attratta dall’amore, ma la vicenda potrebbe diventare anche professionale. Sylvie, il capo dell’agenzia di PR dove lavora, infatti mira a conquistare un importante cliente italiano. E le sue mire in qualche modo si incroceranno con l’interessa sentimentale di Emily. Sono solo due episodi, ma è molto probabile che la stagione 5 – se sarà confermata – potrebbe iniziare proprio da Roma, se non svolgersi completamente nella Capitale.

Vedere una serie che da sempre vive a Parigi ambientata a Roma, da italiani, dà un’altra sensazione. Si può sorridere o magari storcere il naso. Il racconto, e non può essere altrimenti, è pieno di cliché e di luoghi comuni. Aspettatevi allora lunghe carrellate sul cibo, il limoncello, le rovine, la moda, la vespa, i borghi di campagna (che sembrano in Toscana, dove però si ascolta una sorta di pizzica salentina). In Francia non hanno apprezzato come gli americani hanno raffigurato Parigi, in Italia ci sarà chi avrà sicuramente da ridire.

C’è poi un altro gioco, anche questo forse scontato, ma molto piacevole, quello legato al cinema e alle citazioni. Marcello (Eugenio Franceschini), il corteggiatore di Emily, si chiama così in onore di Mastroianni, e ovviamente la porterà davanti alla Fontana di Trevi, come ne La Dolce Vita di Fellini, anche se i due non si tufferanno nelle acque. Più tardi vedremo anche Via Veneto, in bianco e nero, per un altro omaggio a quel film. Quando Marcello porta Emily in giro in vespa per tutta Roma il pensiero corre immediatamente a Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vacanze romane. In quelle scene Emily sfoggia un look anni Cinquanta ispirato proprio a quel film.

Emily In Paris è sempre stata una serie ricca di moda e di grandi abiti. I costumi, in qualche modo, hanno sempre voluto sottolineare uno stato d’animo, una situazione, delle svolte narrative. I costumi di Emily in questa stagione sono stati pensati per riflettere la sua crescita e maturità. C’è un tema floreale che è ricorrente nei capi che indossa, e vuole rappresentare il fatto che sia sbocciata rispetto alle stagioni precedenti. Ora si sta facendo strada, sta affermando se stessa e sta diventando molto più forte, con uno stile che reinterpreta i codici della moda parigina.

In Emily In Paris ogni stagione introduce una nuova componente che orienta i costumi del guardaroba di Emily. In questa stagione, si tratta dell’abito a tre pezzi ispirato a Twiggy con scarpe basse e gioielli raffinati. Questo look dimostra la maturità crescente di Emily e il suo sentirsi a proprio agio con l’autorevolezza acquisita sul lavoro. Anche il trucco e le acconciature di Emily subiscono un’evoluzione: in questa stagione si è scelto mostrarla al naturale. Non è sempre truccata alla perfezione, una scelta che riflette il percorso emotivo non sempre facile che Emily sta vivendo.

In questa stagione Emily sfoggia 22 acconciature diverse con tre principali texture, tutte pensate per dimostrare che le sue pettinature stanno diventando più rilassate e meno strutturate nel tempo. Sono presenti anche più cappelli e accessori per capelli rispetto alle stagioni passate. In questa stagione compaiono 2.500 paia di scarpe (ben 150 sono di Louboutin), circa 350 borse e 3.000 gioielli. I capi di abbigliamento totali sono più di mille. In questo senso, e anche per molti aspetti della storia, possiamo dire che Emily In Paris è Il Diavolo veste Prada delle serie tv.

I costumi di questa stagione includono più look vintage e d’archivio, soprattutto per Mindy: indossa infatti un abito Balmain rosa vintage agli Open di Francia e un look Mugler vintage d’archivio viola quando Nico la accompagna nel “Brand Closet” di JVMA. In un episodio, al lancio di un prodotto al Samaritaine, Emily indossa una borsa disegnata da INCXNNUE e realizzata con gli scarti riciclati dell’uva solitamente usata per il vino. Ogni stagione il team di costumisti seleziona capi di marchi famosi accanto a quelli di designer emergenti. Nel corso di questa stagione, il team ha collaborato con lo stilista vietnamita Đỗ Mạnh Cường a cinque look diversi.

E si è parlato anche di moda nella conferenza stampa organizzata a Roma in occasione del lancio della seconda parte della stagione 4. Philippine Leroy-Beaulieu, che nella serie è Sylvie, il capo di Emily, quando si parla di abiti, ricorda una scena particolare della stagione 3, girata sulla Torre Eiffel. “Emily è vestita in piume di struzzo rosa, e Sylvie di di nero. Sembro un uccellaccio malefico”. “Ogni abito ha delle intenzioni dietro, è come un oggetto d’arte” interviene Ashley Park, che interpreta Mindy. “L’abito rosso di Roma è molto particolare, ho detto: lo voglio”. “Il mio abito preferito è sicuramente quello che indosso nel club quando parlo con Emily” aggiunge Camille Razat. “Non è solo l’abito ma tutto il look, il trucco, il rossetto rosso, le atmosfere anni Novanta e le acconciature incredibili”.

Ma è proprio Lily Collins, cioè Emily, a spiegare benissimo come vengono pensati gli abiti nella serie. Sono una sorta di paesaggi-stati d’animo. “Alle fine della seconda stagione, mi Emily si trova su un ponte e deve decidere se tornare in America o restare con Sylvie a Parigi” ricorda l’attrice. “Nei costumi ci sono sempre piccoli particolari. Volevo che il mio avesse diversi strati, che diventasse delle cose diverse a seconda delle situazioni. C’erano dei cavallucci marini: è come se Emily fosse sott’acqua, forse si potrebbe salvare, forse affondare. Questo abito aveva questo significato. E poi cammino sul ponte, ricevo una telefonata, e lo strato esterno, che ricorda una medusa, comincia ad avvolgermi. Ma il cavalluccio marino è un essere che si accoppia per la vita. E quell’abito voleva anche dire: resterò a Parigi per tutta la vita?”. Intanto, in attesa di capire se ci sarà la stagione 5, Emily potrebbe restare a Roma, se non per tutta la vita, almeno un po’ più a lungo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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