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Bridgerton 3, seconda parte: Le donne non hanno sogni? Non è vero

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Niente sesso, siamo inglesi, recitava il titolo di una famosa farsa teatrale degli anni Settanta. È un titolo che viene citato spesso, anche a sproposito, ogni volta che se ne presenta l’occasione. Probabilmente lo citiamo a sproposito anche noi, ma Bridgerton, la serie ambientata nell’Inghilterra della Reggenza, sembra fatta apposta per smentire quel detto. Dopo che la prima stagione aveva colpito per la sua audacia e la seconda era sembrata tornare per un attimo sui suoi passi, la “sensualità a corte” (perdonateci un’altra citazione) ritorna, sfrontata e vitale, in questa terza stagione. Bridgerton torna con la seconda parte della terza stagione (episodi 5-8), disponibile dal 13 giugno su Netflix. Che ci ha fatto vedere in anteprima due degli ultimi quattro episodi, probabilmente per preservare al massimo sorprese e colpi di scena, che in questa stagione non mancano, e per evitare spoiler. Come finirà la storia di Bridgerton 3? Ancora non lo sappiamo. Quello che è certo è il successo della serie creata da Shonda Rhimes (e dalla nuova showrunner Jess Brownell). La prima parte, disponibile su Netflix dal 16 maggio 2024, ha segnato il più grande debutto nella storia della serie, generando oltre 41 milioni di visualizzazioni nei primi quattro giorni. La storia segue l’avvicinamento romantico di Penelope Featherington e Colin Bridgerton.

Ma dove eravamo rimasti? Penelope Featherington (Nicola Coughlan) che dopo aver sentito le parole denigratorie di Colin Bridgerton (Luke Newton) nei suoi confronti ha accantonato la cotta di lunga data per lui. Penelope però ha deciso che è arrivato il momento di trovare un marito che le garantisca sufficiente indipendenza per continuare la sua doppia vita come Lady Whistledown, lontano dalla madre e dalle sorelle. Ma la mancanza di autostima fa sì che i suoi tentativi di sposarsi falliscano clamorosamente. Colin è tornato dai suoi viaggi estivi con un nuovo look e un atteggiamento molto spavaldo, ma è avvilito nel constatare che Penelope, l’unica persona che lo ha sempre apprezzato così com’era, gli sta dando il benservito. Desideroso di riconquistare la sua amicizia, Colin si offre di farle da mentore per aiutarla a trovare fiducia in se stessa e quindi un marito. Ma quando le sue lezioni iniziano a sortire un effetto anche troppo positivo, Colin è costretto a chiedersi se i suoi sentimenti per la ragazza siano davvero solo amichevoli. I primi quattro episodi di Bridgerton 3 si chiudevano con un bacio appassionato tra Penelope e Colin. Ma…

Ma… Che cosa accade dopo quel “e vissero tutti felici e contenti?”. Non lo sono ancora, felici e contenti, Penelope e Colin. Perché non basta amarsi ed essere attratti nella Londra della Reggenza, nella Londra del “mercato matrimoniale”. Ci sono ancora i genitori che rischiano di essere insoddisfatti, soprattutto Lady Featherington, la madre di Penelope. Ci sono gli altri matrimoni, combinati o da combinare, d’amore o di interesse, voluti o respinti. E c’è, soprattutto, quel segreto: Penelope è Lady Whistledown, l’autrice del “foglio” che svela tutti i retroscena della vita sociale e sentimentale. E prima o poi dovrà dirlo all’amato Colin. Come la prenderà?

La decisione della Regina di offrire una ricompensa a chi svelerà l’identità di Lady Whistledown rende tutto il gioco ancora più complicato. La storia di Bridgerton, così, diventa anche un po’ una sorta di detection, di gioco di identità nascoste e svelate. La suspense aumenta: abbiamo una deadline, momento tipico dei giochi di suspense, che è l’ora entro cui l’identità va svelata: uno degli episodi, infatti, si chiama Tic Toc, e il riferimento non è al social media, ma al tempo che scorre. Il gioco accanto alla misteriosa scrittrice rende tutto più movimentato, ritmato, veloce. E fa di questa terza stagione di Bridgerton probabilmente la più godibile.

È forse anche la più sfrenata, la più audace, o, almeno, lo è al pari della prima stagione. La scena della “prima volta” di Penelope è una scena molto sensuale, esplicita e insistita, con tanto di nudo. Ma è anche molto tenera e romantica. Dentro ci sono tutta l’eccitazione e al tempo stesso la paura e il turbamento di una ragazza giovane che scopre il sesso per la prima volta. Nicola Coughlan è coraggiosa, è in parte, è bravissima. Ma è interessante che una serie come Bridgerton metta in scena la passione attraverso una ragazza con quello che oggi si definirebbe un “corpo non conforme”, imperfetto (ovviamente secondo la società, per chi scrive nessun corpo dovrebbe essere definito “non conforme”). È un messaggio di positività in linea con tanti dei messaggi che si vogliono far passare oggi, ma che, se vengono lanciati da un lato, vengono anche contraddetti dall’altro.

Penelope si sposerà? “Sì, ma i miei sogni?” chiede lei. “Le donne non hanno sogni” le risponde l’arida madre, aggiungendo che l’unico sogno possibile è avere un buon matrimonio. Forse è colpa nostra che non lo avevamo capito, ma ora è chiaro. Penelope è Lady Whistledown non per cattiveria, non per mettere in cattiva luce il prossimo. Ma perché vuole scrivere, vuole creare, esprimersi, realizzarsi. E allora questa terza stagione di Bridgerton pone ancora una volta l’attenzione sul ruolo della donna nella società, allora come oggi. E allora a questo punto la chiave non è solo se Penelope coronerà il suo sogno d’amore. Ma anche se coronerà gli altri suoi sogni.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Hanno Ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883: Su Sky e NOW ecco Max e Mauro, eroi degli anni Novanta

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Sheena is a punk rocker, cantavano i Ramones. Ma anche Max Pezzali è stato un punk rocker. È nato tutto da lì. Dai Ramones, dai Sex Pistols, dai Clash e i Dead Kennedys. “Ma perché nessuno ascolta punk a Pavia?’” si chiede a un certo punto Max. Essere un punk a Pavia doveva essere molto duro nel 1989. Ma da lì, da quell’attitudine punk, è nata una storia che ha cambiato il modo di fare musica pop in Italia, e che dura ancora oggi: quella degli 883. Ce la racconta Hanno Ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883, la serie Sky Original di Sydney Sibilia, prodotta da Sky Studios e Groenlandia, in arrivo su Sky e NOW in esclusiva dall’11 ottobre. Una serie che ci riguarda tutti. Chi ama la musica degli 883, ma anche chi è stato adolescente in una città di provincia negli anni Ottanta e Novanta, chi è un adolescente adesso, e ha gli stessi problemi di quelli di allora. E ancora, chi ama le storie degli outsider, le storie di rivalsa. Come Rocky. Sì, perché nel primo film Rocky perde, ma poi riesce a vincere e ci fanno altri 5 film. E così anche Max Pezzali e Mauro Repetto sono passati più volte per la sconfitta. Ma, come sappiamo, l’importante non è cadere. È quanto in fretta ti rialzi.

Siamo nell’estate nel 1989. Max viene bocciato alla fine dell’anno scolastico. I genitori, così, non lo mandano in vacanza, ma lo fanno lavorare nel loro negozio di fiori: tutta l’estate a fare consegne, a fare anche i funerali. Ma è a uno di questi che incontra Silvia Panayiotopoulos, per tutti Silvia Atene, una ragazza che si è trasferita a Pavia e che quella sera non ha nessuno con cui uscire. Max le dice che si intende di musica, che scrive canzoni, e lei gli chiede di scriverne una per lei. Max non ha mai suonato nulla, ma prende una chitarra e inizia a comporre. Alla fine dell’estate, nella nuova scuola in cui lo hanno iscritto i suoi, incontra il suo nuovo compagno di banco. È Mauro Repetto. Quella cassetta con la prima canzone scritta, la tenacia di Mauro nel trovare il suo talento, e qualcuno con cui farlo esplodere, faranno nascere gli 883.

Hanno ucciso l’Uomo Ragno è questo, una serie di fili che si snodano e si riannodano, una serie di coincidenze che si legano l’una a all’altra per dare vita a qualcosa di speciale, un po’ come Il favoloso mondo di Amelie in chiave punk e ambientato a Pavia. In questo far partire le storie da un punto di vista insolito (ogni episodio è un capitolo a sé, con un tema e uno svolgimento, anche se concorre alla storia orizzontale) c’è la mano di Sydney Sibilia, uno per cui le storie fanno dei giri immensi e poi ritornano. Questo modo di raccontare, iniziando da angoli nascosti per arrivare al centro, è una qualità delle grandi serie (senza fare confronti, ma solo come schema narrativo degli episodi, ci vengono in mente Lost e The Crown).

Non sono mai stati punk, gli 883, ma avevano una punk attitude. Che cosa vuol dire? Vuol dire buttarsi. Dire di essere un deejay senza esserlo ancora, dire di essere un cantante senza saper ancora suonare e cantare. Dire di avere un intero album pronto quando ancora non ce l’hai. Vuol dire avere dei piani arditi, temerari. Ma che a volte riescono. Chi ce l’ha fatta è stato sempre qualcuno che ha avuto idee più grandi di lui. E, in quegli anni, Max e Mauro hanno avuto una grande idea. Hanno avuto un grande sogno.

Anche Sydney Sibilia, a suo modo, è punk. Lo è per come racconta gli underdog, gli anarchici, degli ultimi, degli outsider. Per come ama i pirati. I pirati che, da ricercatori precari, creano il loro business fuori dalla legge (Smetto quando voglio). I pirati che creano il loro Stato libero in mare aperto (L’incredibile storia dell’Isola delle Rose). I pirati che creano il loro mondo discografico (Mixed By Erry). E quelli che vogliono entrare nello show business a Pavia. Hanno ucciso l’Uomo Ragno sembra essere il controcampo di Mixed By Erry, o il suo sequel, per come si muove in un universo fatto di cassettine analogiche, negozi di strumenti musicali, stereo e mixer. “A Mauro Repetto mancava sempre quel tanto così” in ogni cosa che faceva. Gli eroi di Sydney Sibilia sono tutti così. Ma ce la fanno lo stesso. Sono personaggi in cui, in una situazione in cui ci sono due scenari possibili, si creano da soli il terzo scenario. Hanno in sé un talento: l’arte di arrangiarsi, di farcela contro ogni pronostico.

Max e Mauro (Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli, bravissimi e perfetti nei loro ruoli), come li vediamo nella serie, sono proprio così. Sono due personaggi dei fumetti, proprio come L’Uomo Ragno che cantano nella loro canzone più famosa. Come due Willy il coyote, sono quei cartoon che cadono mille volte senza farsi mai male, senza morire mai. Non li butti giù, Max e Mauro. Non ci è riuscita l’indifferenza generale dopo la prima apparizione in tv (a 1 2 3 Jovanotti, quando ancora si chiamavano i Pop e facevano musica rap in inglese). Non ci è riuscito il primo rifiuto di Claudio Cecchetto a pubblicare il loro album, nella sua prima versione, quando ancora mancava qualcosa.

Già, Jovanotti e Claudio Cecchetto. Nella serie sugli 883 ci sono loro, ma appaiono anche altri nomi di quel mondo, come Fiorello e Sandy Marton. O nomi grandi come i Public Enemy e i Metallica. Tutta la storia è vista con lo sguardo stupefatto di un ragazzo di Pavia che incontra il mondo che aveva sempre sognato. Max Pezzali, probabilmente, è così ancora oggi: un ragazzo in grado ancora di stupirsi, un uomo ignaro di essere una popstar e uno dei grandi autori di canzoni della storia recente.

Ma scorrendo questi nomi avrete capito anche che Hanno ucciso l’Uomo Ragno è anche un grosso amarcord, un come eravamo, un viaggio a ritroso negli anni Novanta. Sibilia e il suo staff hanno fatto di tutto per corredare il viaggio con momenti e oggetti iconici. Il walkman, il telefono a gettoni, le macchine fotografiche con la pellicola. E ancora il Festivalbar e il Karaoke, e chi più ne ha più ne metta. È un viaggio dove tutto torna. Guardate la serie (8 episodi) fino in fondo, e seguite quella cassettina con la canzone per Silvia. E sentite cosa ci sarà lì dentro.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Tutto chiede salvezza 2: Si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano. Su Netflix

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“Un reparto di psichiatria è una linea di confine con la realtà. Non esiste, tra noi e loro, che una sola differenza: il caso”. È in questa frase il senso profondo di una serie speciale come Tutto chiede salvezza, la serie di Francesco Bruni – scritta insieme a Daniela Gambaro e Daniele Mencarelli, tratta dal suo romanzo – che ritorna finalmente con la stagione 2 dal 26 settembre su Netflix. Già dal romanzo di Mencarelli, già dalla stagione 1 era tutto chiaro: “si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano”. E così ritorna Daniele, ritorna la nave dei pazzi. Il nostro protagonista ritorna a Villa San Francesco, nel reparto psichiatrico dove aveva passato una settimana in seguito a un TSO. Ma stavolta è dall’altra parte: sta facendo un tirocinio come infermiere. L’idea permette di scatenare un mondo complicato che è ancora dentro di lui. Tutto chiede salvezza 2 è una serie scritta e diretta con una straordinaria sensibilità ed empatia verso il prossimo, che dagli autori si trasferisce a un cast in stato di grazia e fa che la serie sia un’esperienza immersiva. In quel reparto psichiatrico di Villa San Francesco ci siamo tutti noi. Ci siamo dentro fino al collo.

Sono trascorsi due anni da quando abbiamo lasciato Daniele e la nave dei pazzi. Molte cose sono cambiate: Daniele (Federico Cesari) e Nina (Fotinì Peluso) sono diventati i genitori della piccola Maria e poco dopo la sua nascita si sono allontanati. Li ritroviamo che si contendono l’affidamento della bambina con il supporto delle rispettive e diversissime famiglie. Daniele, dopo l’intensa esperienza vissuta durante la settimana di TSO, ha scelto di diventare infermiere e, grazie all’intervento della dottoressa Cimaroli (Raffaella Lebboroni), sta per entrare come tirocinante nell’ospedale in cui era stato ricoverato. Ha cinque settimane per dimostrare al giudice che quello può diventare un impiego stabile, accreditandosi come un genitore affidabile. In questa nuova veste, Daniele conosce i nuovi pazienti della camerata, che lo costringono a riflettere sul suo eccesso di empatia verso il dolore degli altri e che rischiano di farlo deragliare di nuovo.

Too much love will kill you, troppo amore ti ucciderà, cantavano i Queen. Ed è questo il problema di Daniele: troppo amore per il prossimo, troppa sensibilità, troppa empatia. La nuova esperienza rischia di travolgerlo. Per Daniele tornare nella camerata vuol dire mettersi allo specchio: guardare i nuovi ospiti del reparto riflettersi in loro e rivedere se stesso. Quel “siamo uguali” che gli dice Rachid, detto Tormento, ex grande promessa del calcio, gli fa male. Se il confine tra sanità e malattia è questione di attimi, del caso, Daniele non è pià sicuro di avercela fatta. “Non sono un padre, non sono un figlio, non sono malato, non sono un infermiere, non sono niente”. Daniele è alla ricerca di se stesso. Ma in fondo non lo siamo tutti?

Come un’altra grande serie, molto diversa, The Handmaid’s Tale, il romanzo d’origine copriva la prima stagione. Scrivere un’altra stagione di Tutto chiede salvezza non era facile. Francesco Bruni, Daniele Mencarelli e Daniela Gambaro ci sono riusciti, trovando nell’anima dei personaggi quello che ancora potevano dare. E prendendo dalla vita: Francesco Bruni ha raccontato la storia, dolorosa, della separazione tra Daniele e Nina trovandola probabilmente tra le persone a lui vicine; Daniele Mencarelli nella sua storia, quel passaggio a diventare un autore di poesia, una poesia salvifica, da semplice appassionato. Chissà se anche nella sua vita c’è stato qualcuno come Angelica (Valentina Romani), una sorta di Beatrice che lo ha condotto verso il Paradiso. Rispetto alla stagione 1 si nota che nella trama c’è più costruzione, che si sia scelto di raccontare la vita di Daniele secondo il percorso dell’eroe, con molti ostacoli da superare, con in supporto di tanti, importanti, aiutanti.

Ma quello che conta è che questi personaggi non vorresti mai lasciarli. Non vorresti passare con loro solo cinque episodi (una durata perfetta) ma tutta la vita, andare avanti all’infinito, perché fanno parte di te, come se fossero la tua famiglia. Dovremmo tutti tornare da loro, ogni tanto, per sapere come stanno. Perché a loro ci teniamo.

In questa seconda stagione Francesco Bruni scopre sempre di più il piacere della regia, il gusto per l’inquadratura. Le sequenze non sono mai banali. A partire da certe inquadrature dall’alto, ariose e liberatorie, che sembrano quasi sottintendere che ci sia qualcuno lassù, un deus ex machina, ad assistere all’umana commedia di questi personaggi, e magari indirizzarla. Ci piace come le immagini sono legate alla musica, da Nel blu, dipinto di blu (Volare) di Domenico Modugno che apre la storia a Sul bel Danubio blu di Johan Strauss II.

Il futuro di Daniele Mencarelli, dalla cui esperienza è tratto questo racconto, è stato nella scrittura, nella poesia. “Quando ridi e sei tutt’uno con la gioia niente che sia male esiste, fremono nell’aria le tue braccia afferrando invisibili cose, luci e ombre amiche giocano con te in segreto in una lingua vietata a ogni altro, poi nuvole a coprire il sole il buio che penetra la stanza nere le pareti dove le tue mani carezzavano il pulviscolo, quello che non vedono i tuoi occhi è il dolore, si chiama perdita”.

di Maurizio Ermisino

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The Penguin: Colin Farrell è un Pinguino gangster nello spin-off di The Batman

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Il suo nome è Cobblepot, Oswald Cobblepot. Qui lo chiamano Oz Cobb. Ma, per tutti quelli che conoscono il mondo di Batman, è il Pinguino, lo storico arcinemico dell’uomo pipistrello. È il villain più famoso e presente dopo il Joker. Oz Cobb ora è il protagonista di una serie tv. È il primo spin-off del blockbuster The Batman, basato sui personaggi della DC Comics, il film che, con Robert Pattinson nei panni del vigilante di Gotham City, ha inaugurato un nuovo corso per il personaggio. La serie di cui parliamo è The Penguin, dal 20 settembre in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW in contemporanea assoluta con gli Stati Uniti. Il secondo episodio andrà in onda lunedì 30 settembre e, a seguire, ogni lunedì una nuova puntata su Sky Atlantic, sempre disponibile on demand e in streaming.

Il Pinguino della nuova serie drammatica in otto episodi targata DC Studios, di cui Lauren LeFranc è showrunner, continua l’epica saga criminale avviata dal regista Matt Reeves con il blockbuster The Batman, del 2022. Come ricorderete, Reeves ha dato un nuovo taglio al mondo di Batman. Lontano dalle atmosfere dei classici cinecomic, l’uomo pipistrello si muoveva nel mondo di un noir, investigatore tra gangster e serial killer, in un universo filmico che era quello dei thriller anni Novanta, alla Seven.

È qui dentro che si muove anche il nuovo Pinguino. Oz Cobb ci era stato presentato già in The Batman. Era un gangster che si muoveva nella notte di Gotham City, tra traffico di droga e locali notturni, legato a Carmine Falcone, il boss criminale dominante. La nuova storia inizia da qui, una settimana dopo la fine di The Batman, dopo la caduta del boss che improvvisamente lascia un vuoto nel mondo criminale che traffica nella droga. E il nostro Pinguino è pronto ad approfittarne. Dovrà vedersela però con i figli di Falcone.

The Penguin, allora, è proprio questo: una serie crime, un gangster movie in otto episodi che, alla fine, si ricollegheranno al secondo film di The Batman. Le dinamiche, più che quelle di un film di supereroi, sono quelle dei film di mafia, da classici come Il Padrino a serie cult come I Soprano. Una scelta interessante, e in teoria coerente con quello che è il nuovo mondo ideato da Matt Reeves per The Batman. Ma che, allo stesso tempo, rischia di far perdere questa serie tra le tante serie crime che oggi compongono l’offerta della tv in streaming.

Siamo nella Gotham City nera e dai bagliori rosso fuoco dipinta in The Batman, certo, c’è il famoso manicomio di Arkham, ma per il resto il collegamento con l’uomo pipistrello è molto flebile. Una serie ambientata nel mondo di Batman senza Batman è un po’ un ossimoro. O, se volete, un’occasione perduta. The Penguin, insomma, non riesce a cogliere nel segno e a emozionare come potrebbe.

Al centro di tutto c’è un Colin Farrell irriconoscibile, coperto da pesanti strati di trucco prostetico. Il nuovo Pinguino, non si può negarlo, è originale, anche se sconfessa (ma l’intento è proprio quello) il personaggio originale. Tim Burton nel suo Batman: Il ritorno aveva scelto Danny De Vito per disegnare un personaggio memorabile: basso di statura, il naso adunco, quasi a diventare un becco, le mani deformi. Quel Pinguino era un freak, un mostro, un bambino rifiutato dai genitori e cresciuto da solo. Abbandonato, solo, reietto: era normale che diventasse un cattivo. E in questo modo, conoscendolo, vedendo il suo passato, lo spettatore entrava in empatia con lui, secondo la classica poetica di Burton.

Il Pinguino di Colin Farrell è invece molto diverso. Più imponente fisicamente, sovrappeso, corpulento, non ha gli abiti classici del villain, ma è vestito di nero e bianco, come i classici gangster. A legarlo al Pinguino sono la sua zoppia, l’andatura caracollante, e il naso. Non così mostruoso come quello del Pinguino classico, ma comunque pronunciato. Il trucco prostetico gli rende gonfi anche il mento e le gote, che sono solcate da cicatrici, segni di battaglie e di violenze. Farrell lavora molto sulla voce, anche questa impostata secondo la tradizione dei classici gangster. Accanto a lui, l’interprete più interessante è Cristin Milioti, che veste i panni di Sofia Falcone, figlia del boss, un passato da detenuta nel manicomio di Arkham. Quando è inquadrata accende la scena, ipnotizza, e non ci lascia più andare.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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