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È stata la mano di Dio: Quando il calcio e il cinema ti salvano la vita

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Ho fatto quello che ho potuto. Non credo di essere andato così male”. Le parole di Diego Armando Maradona aprono È stata la mano di Dio, il nuovo film di Paolo Sorrentino, nelle sale dal 24 novembre e su Netflix il 15 dicembre. È stata la mano di Dio ha vinto il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria e il Premio Marcello Mastroianni (a Filippo Scotti, come migliore attore emergente) alla 78a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed è il film scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar. Ma di cosa parliamo quando parliamo della “mano di Dio”? Il riferimento è a un famoso gol di Maradona ai Mondiali del Messico del 1986, durante Argentina – Inghilterra: Maradona, saltando alto quasi quanto Peter Shilton, il portiere inglese, riuscì a beffarlo con un tocco di mano di cui tutti ci accorgemmo solo vedendo l’azione al ralenti. Diego disse che quella era stata la mano di Dio, che era arrivata per fare giustizia, e vendicare l’invasione inglese alle isole Falkland, o Malvinas, di qualche anno prima. È stata la mano di Dio, nel senso di quella di Maradona, a salvare invece la vita a Paolo Sorrentino. In quel weekend in cui i suoi genitori persero la vita per una fuga di gas nella loro casa in montagna, a Roccaraso, il giovane Paolo, che nel film è diventato Fabietto, doveva essere lì con loro. È rimasto a Napoli per vedere il Napoli e Maradona. È stata la mano di Dio è la storia di come Diego, il calcio e il cinema gli abbiano salvato la vita. E forse come l’hanno salvata a tutti noi. È uno dei romanzi di formazione più belli mai scritti.

Una ripresa aerea sul Golfo di Napoli ci porta dentro alla storia di Fabietto (Filippo Scotti). Mentre Napoli sogna l’arrivo di Diego Armando Maradona, tra un rincorrersi parossistico di notizie, assistiamo alla vita di Fabietto e della sua famiglia. Il padre (Toni Servillo) è un bancario, un benestante, che sostiene di essere comunista e non ha ancora la tivù con il telecomando; è un papà complice e rassicurante. La madre (Teresa Saponangelo) è una donna che è rimasta un po’ bambina, e si diverte facendo ancora scherzi al telefono e a giocare con le arance. È una famiglia piena d’amore, in cui papà, mamma e figlio vanno in vespa in tre, ma in cui, a un certo punto, c’è l’ombra di un tradimento. Tra le giornate al liceo, quelle al mare, l’attesa della sua prima volta, e quella per l’arrivo di Maradona, Fabio vive la sua vita. Quella tragedia la cambierà per sempre. C’è la morte, a un certo punto di È stata la mando di Dio. Ma prima, e dopo, è una storia che trasuda di vita.

Vedere Fabietto è una continua madeleine proustiana per chi ha vissuto quegli anni. Le Converse, il walkman con le cassette e le cuffiette, i jeans a vita alta, il calcio come lo vivevamo allora. E le estati, quelle lunghe. Erano gli anni Ottanta, quelli di un’Italia che ancora viveva gli effetti del boom, o forse viveva un secondo boom, e un momento di serenità dopo gli Anni di Piombo. Era un’Italia spensierata, un po’ materialista, in cui c’era una piccola borghesia che è scomparsa. Ci si divertiva ancora con gli scherzi al telefono e si compravano le seconde case.

In questo mondo vivono i personaggi di Paolo Sorrentino, la sua famiglia, i suoi amici. Un gruppo di personaggi disegnati in modo mirabile, allo stesso tempo amorevole e spietato. La macchina da presa di Paolo Sorrentino accarezza i corpi, quelli perfetti e quelli che non lo sono, con amore, o con una bonaria derisione (all’epoca si faceva così) ma come sempre con la sua grande eleganza estetica. Sono tutti veri, o quasi. È inventata la magnifica Zia Patrizia di Luisa Ranieri, una donna che non ha potuto avere figli ed è lentamente scivolata verso la follia. Fabietto ne è in qualche modo infatuato, per la sua bellezza e la sua dolcezza. Il nudo integrale, che vediamo a un certo punto del film, ci spiega alla perfezione il suo ruolo nel film. È un ruolo simbolico, quello del turbamento sessuale tipico di quell’età, dell’infatuazione per l’altro sesso, per ogni cosa si avvicini a quella Grande Bellezza che è il mondo femminile, che a quell’età è un mondo ignoto e affascinante.

Quel corpo bellissimo è qui anche per dirci che È stata la mano di Dio è un film felliniano, anche se forse è il caso di usare per l’ultima volta questo aggettivo a proposito del cinema di Sorrentino. Perché il regista napoletano è giù diventato un aggettivo, e “sorrentiniano” è un’espressione che esiste già e ha la sua ragion d’essere. C’è anche Federico Fellini nel suo film, e non solo come influenza. Il fratello maggiore di Sorrentino aveva davvero fatto un provino per Fellini, e il film racconta anche questo. E, quando entriamo per un attimo nella stanza dove il regista sta facendo il casting, senza vedere mai lui ma le foto delle attrici che sta scegliendo, capiamo che tutto torna, che è un cerchio che si chiude. Appese al muro ci sono le foto delle donne che ama, quelle donne giunoniche che sono come Zia Patrizia, quel turbamento sessuale c’è nella realtà e c’è nel cinema. In quel cinema di Fellini di cui Paolo Sorrentino è diventato l’erede.

Il cinema non serve a niente, però serve a distrarsi” disse Fellini in un’intervista, che sentiamo nel film. “A distrarsi da cosa?”, chiese il giornalista. “Dalla realtà, perché la realtà è scadente”. Il segreto del cinema potrebbe essere in queste frasi. Che ci tornano in mente più tardi, nel film, in un momento più doloroso, più intimo. “Da quando ho perso i miei genitori, la realtà non mi piace più. Per questo voglio ricreare un’altra realtà” dice Fabietto. Ecco la motivazione, una delle motivazioni di Paolo Sorrentino nel diventare un regista.

La tieni una storia da raccontà?” chiede a Fabietto Antonio Capuano, un regista che ha influito molto nella nascita della passione per il cinema di Sorrentino, nel momento del loro incontro. Sì, Paolo Sorrentino una storia da raccontare ce l’aveva. È quella di un dolore. E la speranza è che, raccontandolo, riesca a sentirlo di meno. Questa storia l’aveva già raccontata, a pezzetti sparsi qua e là, ma stavolta è qui, senza filtri, per intero. Inutile dire che È stata la mano di Dio è il film più sincero, intimo, personale di Sorrentino, un artista troppo spesso accusato di essere solo eleganza, estetica, forma. Il suo nuovo film smentisce finalmente tutto questo: è amore, per il cinema, per il calcio, per Napoli. È Napule è di Pino Daniele, è la “zuppa di latte” di Eduardo. Come ne I 400 colpi di Truffaut e in Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, alla fine c’è un sollievo nel sapere che questo ragazzo ce l’ha fatta, che ha realizzato i suoi sogni, che è diventato un grande regista. “Non ti disunire” dice a Fabietto Antonio Capuano. Paolo Sorrentino non si è disunito. E questo è il risultato.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Le stelle di Venezia 81: Brad Pitt e George Clooney, Tilda Swinton e Julianne Moore, Joaquin Phoenix e Lady Gaga, Angelina Jolie e Jude Law

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Il cinema è sogno, è arte, è viaggio, è cultura. Ed è anche fascino, seduzione, glamour e moda. Tutto questo si può racchiudere nei volti e nei corpi delle star, quelle che da che il cinema è nato ci prendono, ci guardano negli occhi e ci trascinano irresistibilmente dentro una storia. E allora chi comincia ad avvicinarsi all’81° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, che si svolgerà dal 28 agosto al 7 settembre 2024, non rimarrà deluso. I divi e le dive ci saranno, e ci faranno ancora una volta sognare. Al Lido arriveranno Brad Pitt e George Clooney per Wolfs – Lupi Solitari di Jon Watts, fuori concorso; Tilda Swinton e Julianne Moore per The Room Next Door di Pedro Almodóvar, Joaquin Phoenix e Lady Gaga per Joker: Folie à Deux di Todd Phillips, Angelina Jolie per Maria di Pablo Larraín, Jude Law per The Order di Justin Kurzel, Nicole Kidman e Antonio Banderas per Babygirl di Halina Reijn, Daneiel Craig per Queer di Luca Guadagnino, tutti in concorso. Il film d’apertura, fuori concorso, era già noto: è Beetlejuice Beetlejuice Tim Burton, che porterà al Lido altre star: Michael Keaton, Winona Ryder, Monica Bellucci e Jenna Ortega.

Autori internazionali in concorso: Pedro Almodóvar, Pablo Larrain, Walter Salles, Todd Phillips

Ma andiamo con ordine. Il programma di Venezia 81 è fatto di un concorso già di per sé molto ricco, variegato, sfaccettato. Iniziamo dai nomi internazionali. The Room Next Door, il primo film in lingua inglese di Pedro Almodóvar, con Tilda Swinton e Julianne Moore, è uno dei titoli più attesi. L’altro, annunciato da tempo, è Joker: Folie À Deux di Todd Phillips con Joaquin Phoenix e Lady Gaga. Maria di Pablo Larrain è dedicato a Maria Callas, con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher nel cast. Altro grande nome è I’m Still Here del brasiliano Walter Salles con Fernanda Torres e Selton Mello. Dall’argentina arriva Kill The Jockey di Luis Ortega, un film pieno di sorprese. Sono tre i film francesi in concorso: Leurs enfants après eux, di Ludovic e Zoran Boukherma, Jouer avec le feu (The Quiet Son) di Delphine e Muriel Coulin con Vincent Lindon, e Trois amies di Emmanuel Mouret. Il cinema americano porta al lido The Brutalist di Brady Corbet con Adrien Brody e Guy Pearce, e Babygirl di Halina Reijn, un thriller erotico con Nicole Kidman e Antonio Banderas. Dal Canada arriva The Order di Justin Kurzel, con Jude Law, Nichoas Hoult e Tye Sheridan. Sono nomi meno noti, ma saranno in grado di stupirci, film come Love, di Dag Johan Haugerud, che arriva dalla Norvegia, April di Dea Kulumbegashvili, in arrivo della Georgia, e Harvest, film inglese di Athina Rachel Tsangari con Caleb Landry Jones, il protagonista di Dogman di Luc Besson. Dall’Oriente arrivano Qing Chun Gui (Youth – Homecoming) di Wang Bing, film cinese, e Stranger Eyes di Yeo Siew Hua, da Singapore.

Gli italiani in concorso: Guadagnino, Amelio, Piazza e Grassadonia, Steigerwalt, Delpero

I film italiani in concorso sono 5. Il più atteso è una coproduzione Italia-USA, ed è Queer di Luca Guadagnino, tratto dal romanzo di Burroughs, con Daniel Craig che si mette in gioco in un ruolo inconsueto. In concorso ci sarà Campo di battaglia di Gianni Amelio con Alessandro Borghi, ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, nel periodo della prima grande pandemia, la Spagnola che fece più morti della guerra. È molto atteso anche Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, la storia di Matteo Messina Denaro, raccontata in maniera immaginifica e farsesca, con Elio Germano e Toni Servillo. Tra gli italiani in gara ci sono, finalmente, anche due donne. Vermiglio è diretto da Maura Delpero: è ambientato sulle Dolomiti, verso la fine della Seconda Guerra mondiale, girato con pochi attori professionisti e molti attori non professionisti. Diva futura è diretto da Giulia Louise Steigerwalt con Pietro Castellitto, Barbara Ronchi e Denise Capezza e racconta la storia di Riccardo Schicchi, che negli anni Ottanta e Novanta sconvolse l’Italia con la pornografia.

Fuori Concorso: Tim Burton, Pupi Avati, Takeshi Kitano, Harmony Korine

Come dicevamo sopra il film d’apertura, fuori concorso, è Beetlejuice Beetlejuice Tim Burton con Michael Keaton, Winona Ryder. Il film di chiusura sarà L’orto americano di Pupi Avati. Il film più atteso è Wolfs – Lupi solitari di Jon Watts, con due divi come Brad Pitt e George Clooney. Tra i film fuori concorso vedremo Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, con Francesco Gifuni e Romana Maggiora Vergano. Ci saranno Phantosmia di Lav Diaz, Broken Rage di Takeshi Kitano, Baby Invasion di Harmony Korine, Finalement di Claude Lelouche, e Se posso permettermi Capitolo II, corto di Marco Bellocchio. Nella sezione proiezioni speciali vedremo Leopardi: Il poeta dell’infinito, di Sergio Rubini, miniserie che andrà in onda su Rai 1, con Alessio Boni e Valentina Cervi, Master And Commander di Peter Weir con Russell Crowe e Paul Bettany, film del 2003, e Beauty Is Not A Sin, di Nicolas Winding Refn, corto che verrà proiettato prima della versione restaurata del suo The Pusher.

Le serie fuori concorso: Cuaron, Sorogoyen, Vinterberg e Joe Wright

Il programma dei fuori concorso propone anche quattro serie tv. Sono Disclaimer di Alfonso Cuaron con Cate Blanchett, Los Anos Nuevos di Rodrigo Sorogoyen, Familier Som Vores (Families Like Ours) di Tomas Vinterberg e M: Il figlio del secolo, tratto dal romanzo di Antonio Scurati, diretta da Joe Wright, con Luca Marinelli, una storia d’Italia dall’ascesa di Mussolini al delitto Matteotti.

Orizzonti: apre Valerio Mastandrea

Il concorso di Orizzonti sarà aperto da Nonostante di Valerio Mastandrea, storia di un uomo che trascorre serenamente le sue giornate in ospedale senza troppe preoccupazioni, ma sarà scosso da un nuovo arrivo. In concorso ci sono Familia di Francesco Constabile, sulla vicenda autentica di una famiglia vittima di un padre violento, con Barbara Ronchi e Francesco Di Leva, e Diciannove di Giovanni Tortorici, storia di un ragazzo che fa fatica a trovare il suo posto nel mondo di oggi e trova conforto nella letteratura medievale e nella musica antica. In Orizzonti Extra saranno presentati Vittoria, di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, prodotto da Nanni Moretti, storia di una coppia che vuole adottare una bambina avendo già tre figli maschi, e la La storia del Frank e della Nina di Paola Randi, un racconto pop su dei ragazzi diversi dagli altri. In Orizzonti Corti, fuori concorso, ecco F II – Lo stupore del mondo, l’ultimo lavoro di Alessandro Rak dedicato a Ferdinando II di Borbone. Attenzione al film d’apertura di Orizzonti Extra, September 5, di Tim Fehlbaum, con Peter Saarsgard, Ben Chaplin e Leonie Benesch, storia di come l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del 1972 venne ripreso da una tv americana.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Fly Me to the Moon – Le due facce della Luna: Scarlett Johansson è la donna che vendette la Luna

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“Voglio la Luna”, è una di quelle espressioni che si usano per dire “voglio l’impossibile”. Eppure, nella storia di Fly Me to the Moon – Le due facce della Luna, deliziosa commedia con Scarlett Johansson e Channing Tatum, al cinema dal 11 luglio distribuita da Eagle Pictures, ,la Luna è da intendere in senso letterale. È la storia, immaginaria ma con qualche fondo di verità di Kelly Jones, la donna che fu chiamata dalla NASA per “vendere la Luna”. Era la fine degli anni Sessanta, era passato qualche anno dal discorso di Kennedy che prometteva che l’uomo – cioè l’America – sarebbe arrivato sulla Luna, e nel frattempo erano successe molte cose. Una su tutte, la sanguinosa guerra in Vietnam. Così gli americani si erano disamorati della corsa allo spazio. E ci voleva lei, Kelly Jones, una pubblicitaria di New York, per farli innamorare di nuovo della Luna. Fly Me To The Moon racconta tutto questo con la forma di un film che è allo stesso tempo commedia romantica e satira, commedia di costume e (immaginaria) ricostruzione storica.

Fly Me To The Moon immagina che per rilanciare l’immagine pubblica della NASA, venga assunta Kelly Jones (Scarlett Johansson), ragazza prodigio del marketing. La NASA e la corsa alla Luna sono in calo di popolarità, i finanziamenti rischiano di essere ridotti e così Kelly si troverà proprio a dover vendere la Luna agli americani. Si scontrerà con Cole Davis (Channing Tatum), direttore del programma di lancio. E, quando la Casa Bianca ritiene che la missione sia troppo importante per fallire, si troverà a girare un film, un finto sbarco sulla Luna come piano di riserva. A girarlo, con lei, ci sarà “il Kubrick dei pubblicitari”, un eccentrico regista.

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Fly Me To The Moon è un viaggio a ritroso nell’America degli anni Sessanta, con quegli inconfondibili diner e le loro luci al neon, con le spiagge e la musica soul. Un’America che stava perdendo la sua innocenza, ma non l’aveva ancora persa del tutto, comunque molto diversa da quella di oggi. Un luogo dove girare un finto allunaggio – una leggenda metropolitana che dura da allora ed è arrivata fino ad oggi – poteva anche sembrare in fondo un peccato veniale. Un’America, ci suggerisce il film, che era una nazione fondata sulla pubblicità, cioè sulla vendita di sogni. E, in fondo, non è sempre stata una nazione basta su questo, sulla vendita del sogno di una terra promessa, di un luogo dove iniziare una nuova vita da zero, di una seconda possibilità? Horizon – An American Saga, il nuovo film di Kevin Costner, parla proprio di questo.

Per questo Fly Me To The Moon è una satira, una commedia di costume e una commedia sentimentale. Tra Kelly e Cole c’è il classico gioco dei film della Guerra dei Sessi anni Quaranta, quello tra due persone che si detestano ma si attraggono. Un gioco al quale i corpi e i volti dei due attori si adattano benissimo.  I due sono dei personaggi esemplari: il Cole di Channing Tatum, è un astronauta che non potrà mai volare. È un uomo con problemi di cuore, letteralmente, visto che soffre di una fibrillazione atriale. Tatum porta nel film quel suo mix di forza e tenerezza, il fisico imponente e l’espressione da cucciolo che piace tanto alle donne.

Kelly è una venditrice, una pubblicitaria, un’attrice. E forse tutte e tre le cose, in fondo, sono la stessa. Kelly è bravissima nell’interagire con il suo interlocutore e vendergli la persona che ognuno vuole incontrare, dire quello che vogliono sentirsi dire. E così Scarlett Johansson è bravissima. Il suo ruolo in Fly Me To The Moo, è quello dell’attrice nell’attrice: interpreta un personaggio che a sua volta ogni volta recita una parte e quindi entra in altri personaggi.

Le labbra carnose e rosse, lo sguardo sognante rivolto all’insù, verso il cielo, verso la Luna: Scarlett Johansson è perfetta. Era un po’ che non la vedevamo, ed è tornata. È ancora bellissima, ma è anche diversa dall’attrice che avevamo visto in Lost In Translation o Una canzone per Bobby Long. La sua oggi è una sensualità più matura, è un fascino più intellettuale che fisico, più di testa che nel corpo. Pur in un corpo ancora bellissimo e in un viso altamente espressivo.

“Non dobbiamo mandare queste cose nello spazio, ma solo dirlo”. “Dobbiamo mentire?” “No, dobbiamo vendere”. Fly Me To The Moon è anche una riflessione sul mondo della pubblicità e, più in generale, sul mondo della comunicazione e delle immagini. Sul cinema, mondo che, come nessun altro, è in grado di creare i sogni, o, se volete, di ricreare la realtà. E anche sulla tv. Nella storia immaginata dal film, è di Kelly l’idea di portare una telecamera per la trasmissione in diretta dello sbarco, facendo diventare quel momento memorabile. Si dice che una cosa non esiste se non va in tv. E spesso è vero. Con quella diretta lo sbarco sulla Luna è diventato tangibile, reale. Se fosse stato girato da Kubrick forse sarebbe stato più bello. Ma è giusto che, ad andare in onda, sia stato quello vero.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Nelle sale cinematografiche torna il primo film rimasterizzato di Lupin III

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Si apre la nuova Stagione Anime al Cinema grazie ad un progetto esclusivo di Nexo Digital. Da oltre 45 anni infatti, c’è la figura del manga di Lupin III che insegna a chi legge il fumetto o vede la trasposizione cinematografica , cosa significhi vivere la propria vita contando sugli amici e inseguendo il vero amore anche se è nipoti di un celebre ladro internazionale da cui si è ereditato l’amore per il furto ed alle prese con la giustizia. Quale occasione migliore che rivederlo al cinema dopo 45 anni? Al cinema quindi, per le sole giornate del 24,25 e 26 Giugno torna il primo lungometraggio dedicato all’incorreggibile ladro che soffre il solletico Lupin III, ne “Lupin III e la pietra della saggezza” di Soji Yoshikawa, con il doppiaggio originale del 1979.
45 anni che separano questa dalla prima proiezione cinematografica ma che grazie a Nexodigital e Yamato Video,  offre al pubblico dei fan , una versione restaurata in 4K, rendendo il mondo di Lupin III è più vivo che mai. Lo dimostra anche l’allestimento di una piccola mostra di una collezione privata proposta in esclusiva “pop up memorabilia exhibition”, visitabile gratuitamente dal 18 al 29 Giugno, presso gli spazi della Yamato Video a Milano che oltre a significare la tecnica “animevision” in un formato , il widescreen che segnò l’inizio della nuova era della animazione (nelle teche della mostra 3 negativi della pellicola),  ospita nelle teche anche Props originali legati al film. Come recita il comunicato stampa: “uscito in Giappone nel 1978 e sceneggiato da Monkey Punch, Atsushi Yamatoya E Sôji Yoshikawa, il film torna al cinema con lo storico doppiaggio con cui fu presentato nelle sale italiane nel 1979 e con la mitica sigla originale Planet O scritta da Norbert Cohen e composta da Farouk Safi e Sharon Woods, cantata in inglese da Daisy Daze and the Bumble Bees. Usata come sigla d’apertura e chiusura prima del 1987, Planet O presenta un testo fantascientifico non inerente alla serie, ma presumibilmente ispirato al romanzo erotico Histoire d’O. Dal 2004 è stata usata come sigla di chiusura nell’ambito della messa in onda della serie col primo doppiaggio.
La trama di LUPIN III – LA PIETRA DELLA SAGGEZZA prende il via con l’ispettore Zenigata che viene informato del fatto che il suo acerrimo nemico Lupin III è stato giustiziato. Nel frattempo, anche Lupin apprende la notizia. Così, quando entrambi si recano in Transilvania per indagare, si accorgono che il defunto è un sosia perfetto del famoso ladro. La vicenda si sposta quindi in Egitto dove Lupin III ruba dalla piramide di un faraone una misteriosa pietra, detta la Pietra del Saggio, portandola con sé a Parigi[…]”. Un modo insomma per rivedere da adulti un cartone animato che ha segnato un’epoca, comprenderne meglio i valori di fondo e condividerlo con i più giovani facendone comprendere anche la portata sociale di quegli anni. Basti pensare alla sigla finale del cartone animato andato in onda per una visione per bambini quando in realtà era un manga da adulti nella versione originale e  forse per questo per la sigla finale andata in onda in televisione in quegli anni, la canzone scelta fu la celebre “planet o”.
Distribuito in collaborazione coi media partner Radio Deejay, MYmovies.it, Lucca Comics&Games e ANIME GENERATION sarà presente nelle sale di tutta Italia.
di Cristina T. Chiochia per DailyMood.it

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