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Black Mirror: quello che possiedi finisce per possederti. Anche la tecnologia

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Black Mirror, Cioè lo specchio nero. Nero perché è così che ci si presentano, prima che si accendano di relazioni, sogni o incubi, gli schermi di smartphone, tablet, computer, che sono il simbolo del nostro rapporto con la tecnologia. Nero perché Black Mirror, la serie antologica ideata da Charlie Brooker, è cupa, inquietante, e nel nostro rapporto con la tecnologia tende a mettere in risalto quasi sempre ciò che c’è di più oscuro e pericoloso. Black Mirror arriva in streaming su Netflix il 5 giugno con la quinta stagione, composta da tre episodi (com’era nelle prime due stagioni). Non sono tanti come nelle ultime due stagioni perché, subito dopo Natale, un’anticipazione era arrivata dal discusso episodio interattivo Bandersnatch, che non faceva parte della nuova stagione, ma indubbiamente ha richiesto tempo e dedizione.

La cosa che ormai tutti abbiamo imparato, in quella che è l’età dell’oro della serialità, è la dipendenza. Il fatto, cioè, che ogni volta che ci addentriamo in una storia ne rimaniamo invischiati (se ci piace, certo), entriamo in un mondo, e, a ogni nuova puntata, ci torniamo. La cosa originale di Black Mirror è questa. A ogni puntata occorre resettare tutto. A parte un mood generale, che solitamente è distopico, pessimista, inquietante, ogni volta dobbiamo fare uno sforzo, adattarci a un nuovo ambiente, provare a capirne le coordinate. Tutto questo è sì più difficile, ma anche estremamente stimolante. A ogni puntata, la curiosità è enorme. Tanto più che la scrittura di Charlie Brooker è eccezionale nel non farci capire tutto subito, nel lasciare, a ogni racconto, il modo che l’epifania sveli il finale, come accade nelle novelle, e come accadeva, ad esempio, nella storica serie Ai confini della realtà.

L’altro aspetto di Black Mirror che rende le nostre paure così vivide è che non siamo in uno di quei film distopici ambientati fra duecento o trecento anni. No, quello che accade in Black Mirror è in un futuro prossimo. Qualche anno, forse qualche mese. Forse domani, vista la velocità con cui la tecnologia si sta sviluppando, e visto come noi stiamo cambiando insieme ad essa. Quello che possiedi finisce per possederti, diceva una frase di Fight Club. Con la tecnologia, spesso, sembra essere così: dovrebbe essere al nostro servizio, una nostra dipendente. Invece siamo noi ad essere dipendenti da essa. Nella nuova stagione di Black Mirror si parla di videogame e realtà virtuale, di assistenti e intelligenze artificiali, e di social network, in maniera inaspettata.

Striking Vipers, il titolo di uno degli episodi, è anche il nome di un videogame a cui, tanti anni fa, giocavano due amici. Anche a notte fonda, anche dopo aver fatto l’amore con le proprie compagne. Parecchi anni dopo, uno di loro (Anthony Mackie) è sposato con la compagna del college, l’altro è single. Invitato al compleanno, regala all’amico una nuova versione di Striking Vipers, stavolta in modalità realtà virtuale. E allora i due continuano le partite da ragazzi, giocando anche da remoto, ma stavolta immergendosi completamente nel gioco, fino a tenere più ai propri avatar (che, attenzione, sono un uomo e una donna) che alla loro vita reale. Il tema è quello di un film come Ready Player One, o ancor di più quello di USS Callister, episodio della quarta stagione di Black Mirror, in cui una serie di persone entravano in un gioco ispirato a Star Trek. Il sistema di raffigurare la realtà virtuale è lo stesso, ed è molto potente: basta attaccare un chip ad una tempia, e si entra nel nuovo mondo. Ed è la stessa, e non lascia indifferenti, anche l’immagine del corpo che resta nella nostra realtà mentre la mente è nella realtà virtuale: una persona assente, senza sguardo, spenta, un corpo abbandonato che ha solo qualche sussulto. È nuovo, e interessante, il discorso sull’identità sessuale, il piacere, i rapporti personali: una realtà virtuale, vuole dirci Black Mirror, può anche cambiare tutto questo.

Così come i social media possono cambiarci la vita. Nel senso di togliere spazio alla vita reale, di darci assuefazione, di farci vivere in un altro mondo. Ma possono cambiare la nostra vita anche con un singolo gesto. Come mettere un like a un’immagine. L’epifania di Smithereens, un altro episodio della quinta stagione di Black Mirror, arriva a dieci minuti dalla fine, e tira le fila di un racconto lungo, sospeso, in cui un tassista tiene sequestrato il dipendente di un’azienda, la Smithereens (il cui numero uno è interpretato, in una fugace apparizione, da Topher Grace), con cui crede di avere un conto in sospeso. Non possiamo raccontarvi di più. Ma dentro questa storia, un action movie fatto di suspense apparentemente lontano dalla nostra quotidianità, ci siamo noi, i nostri telefonini, i nostri social media, e tutte le attenzioni che diamo a questi mezzi.

Ci siamo noi, in pieno, anche dentro Rachel, Jack and Ashley, Too, con tutte le nostre insicurezze. Ci sono gli assistenti a base di intelligenze artificiali di oggi, come Siri e Alexa. Solo che la protagonista del terzo episodio di Black Mirror si chiama Ashley Too, ed è un assistente modellata sulla personalità di Ashley, una cantante famosissima (la interpreta Miley Cyrus, una vera rivelazione): può parlarti dicendoti frasi motivazionali, farti ascoltare la sua musica, tenerti compagnia. Per la giovane Rachel, arrivata in una nuova scuola dove non ha amici, diventa un punto di riferimento. Ma la vita di Ashley, quella vera, non è come sembra. E, quando le cose si complicano, anche Ashley Too comincia a sviluppare un comportamento sorprendente. Rachel, Jack and Ashley, Too è sorprendente per svolte narrative e sorprese, ed è una riflessione sulle intelligenze artificiali, ma anche sulle nostre solitudini e il bisogno di qualcosa a cui attaccarsi. È un altro lato di quella superficie nera in cui specchiarci. Per perderci. Ma anche per ritrovarci, visto il finale in crescendo. Perché, anche in un’era tecnologica, può essere l’Io a vincere.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Bridgerton 3, seconda parte: Le donne non hanno sogni? Non è vero

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Niente sesso, siamo inglesi, recitava il titolo di una famosa farsa teatrale degli anni Settanta. È un titolo che viene citato spesso, anche a sproposito, ogni volta che se ne presenta l’occasione. Probabilmente lo citiamo a sproposito anche noi, ma Bridgerton, la serie ambientata nell’Inghilterra della Reggenza, sembra fatta apposta per smentire quel detto. Dopo che la prima stagione aveva colpito per la sua audacia e la seconda era sembrata tornare per un attimo sui suoi passi, la “sensualità a corte” (perdonateci un’altra citazione) ritorna, sfrontata e vitale, in questa terza stagione. Bridgerton torna con la seconda parte della terza stagione (episodi 5-8), disponibile dal 13 giugno su Netflix. Che ci ha fatto vedere in anteprima due degli ultimi quattro episodi, probabilmente per preservare al massimo sorprese e colpi di scena, che in questa stagione non mancano, e per evitare spoiler. Come finirà la storia di Bridgerton 3? Ancora non lo sappiamo. Quello che è certo è il successo della serie creata da Shonda Rhimes (e dalla nuova showrunner Jess Brownell). La prima parte, disponibile su Netflix dal 16 maggio 2024, ha segnato il più grande debutto nella storia della serie, generando oltre 41 milioni di visualizzazioni nei primi quattro giorni. La storia segue l’avvicinamento romantico di Penelope Featherington e Colin Bridgerton.

Ma dove eravamo rimasti? Penelope Featherington (Nicola Coughlan) che dopo aver sentito le parole denigratorie di Colin Bridgerton (Luke Newton) nei suoi confronti ha accantonato la cotta di lunga data per lui. Penelope però ha deciso che è arrivato il momento di trovare un marito che le garantisca sufficiente indipendenza per continuare la sua doppia vita come Lady Whistledown, lontano dalla madre e dalle sorelle. Ma la mancanza di autostima fa sì che i suoi tentativi di sposarsi falliscano clamorosamente. Colin è tornato dai suoi viaggi estivi con un nuovo look e un atteggiamento molto spavaldo, ma è avvilito nel constatare che Penelope, l’unica persona che lo ha sempre apprezzato così com’era, gli sta dando il benservito. Desideroso di riconquistare la sua amicizia, Colin si offre di farle da mentore per aiutarla a trovare fiducia in se stessa e quindi un marito. Ma quando le sue lezioni iniziano a sortire un effetto anche troppo positivo, Colin è costretto a chiedersi se i suoi sentimenti per la ragazza siano davvero solo amichevoli. I primi quattro episodi di Bridgerton 3 si chiudevano con un bacio appassionato tra Penelope e Colin. Ma…

Ma… Che cosa accade dopo quel “e vissero tutti felici e contenti?”. Non lo sono ancora, felici e contenti, Penelope e Colin. Perché non basta amarsi ed essere attratti nella Londra della Reggenza, nella Londra del “mercato matrimoniale”. Ci sono ancora i genitori che rischiano di essere insoddisfatti, soprattutto Lady Featherington, la madre di Penelope. Ci sono gli altri matrimoni, combinati o da combinare, d’amore o di interesse, voluti o respinti. E c’è, soprattutto, quel segreto: Penelope è Lady Whistledown, l’autrice del “foglio” che svela tutti i retroscena della vita sociale e sentimentale. E prima o poi dovrà dirlo all’amato Colin. Come la prenderà?

La decisione della Regina di offrire una ricompensa a chi svelerà l’identità di Lady Whistledown rende tutto il gioco ancora più complicato. La storia di Bridgerton, così, diventa anche un po’ una sorta di detection, di gioco di identità nascoste e svelate. La suspense aumenta: abbiamo una deadline, momento tipico dei giochi di suspense, che è l’ora entro cui l’identità va svelata: uno degli episodi, infatti, si chiama Tic Toc, e il riferimento non è al social media, ma al tempo che scorre. Il gioco accanto alla misteriosa scrittrice rende tutto più movimentato, ritmato, veloce. E fa di questa terza stagione di Bridgerton probabilmente la più godibile.

È forse anche la più sfrenata, la più audace, o, almeno, lo è al pari della prima stagione. La scena della “prima volta” di Penelope è una scena molto sensuale, esplicita e insistita, con tanto di nudo. Ma è anche molto tenera e romantica. Dentro ci sono tutta l’eccitazione e al tempo stesso la paura e il turbamento di una ragazza giovane che scopre il sesso per la prima volta. Nicola Coughlan è coraggiosa, è in parte, è bravissima. Ma è interessante che una serie come Bridgerton metta in scena la passione attraverso una ragazza con quello che oggi si definirebbe un “corpo non conforme”, imperfetto (ovviamente secondo la società, per chi scrive nessun corpo dovrebbe essere definito “non conforme”). È un messaggio di positività in linea con tanti dei messaggi che si vogliono far passare oggi, ma che, se vengono lanciati da un lato, vengono anche contraddetti dall’altro.

Penelope si sposerà? “Sì, ma i miei sogni?” chiede lei. “Le donne non hanno sogni” le risponde l’arida madre, aggiungendo che l’unico sogno possibile è avere un buon matrimonio. Forse è colpa nostra che non lo avevamo capito, ma ora è chiaro. Penelope è Lady Whistledown non per cattiveria, non per mettere in cattiva luce il prossimo. Ma perché vuole scrivere, vuole creare, esprimersi, realizzarsi. E allora questa terza stagione di Bridgerton pone ancora una volta l’attenzione sul ruolo della donna nella società, allora come oggi. E allora a questo punto la chiave non è solo se Penelope coronerà il suo sogno d’amore. Ma anche se coronerà gli altri suoi sogni.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Becoming Karl Lagerfeld: Karl prima di Lagerfeld

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“Un mercenario del prêt-à-porter: Karl Lagerfeld”.  Un ragazzo, che abbiamo appena visto annoiarsi alla messa della domenica, cerca avidamente in edicola qualche rivista di moda che parli di Lagerfeld. E, una volta trovata, legge questo titolo. Siamo nel 1972, in piena epoca glam rock, e nell’aria risuona Moonage Daydream di David Bowie. È da qui che inizia Becoming Karl Lagerfeld, la nuova serie originale francese Disney+ con Daniel Brühl, disponibile da venerdì 7 giugno. La serie racconta Karl prima di Lagerfeld: uno stilista rock e creativo che si sta facendo strada nel mondo della moda, un tedesco a Parigi, uno stilista d’alta moda imprigionato nel prêt-à-porter, e in una casa di moda che non lo nomina socio e non gli fa fare il salto di qualità. Ma anche un uomo imprigionato in una storia d’amore malata, in un amore impossibile con il dandy Jacques de Bascher. È lui quel ragazzo che aveva comprato quella rivista. È lui che gli scrive una lettera per contattarlo. Ed è lui che lo fa impazzire, iniziando una relazione proprio con il suo amico e rivale, un certo Yves Saint Laurent. La novità di Becoming Karl Lagerfeld è che, a differenza delle serie su Balenciaga e Dior, che vi abbiamo raccontato qualche mese fa, questa serie è raccontata da due punti di vista, quello di Karl e quello di Jacques, che assurge a vero e proprio coprotagonista del film. E questa novità è anche il limite di questa storia.

La storia inizia nel 1972, quando Karl Lagerfeld (Daniel Brühl) ha 38 anni e non porta ancora il suo iconico taglio di capelli. È uno stilista di prêt-à-porter, sconosciuto al grande pubblico. Quando incontra e si innamora di Jacques de Bascher (Théodore Pellerin), un giovane dandy ambizioso e problematico, il più misterioso degli stilisti osa sfidare il suo amico (e rivale) Yves Saint Laurent (Arnaud Valois), genio dell’haute couture sostenuto dal discusso uomo d’affari Pierre Bergé (Alex Lutz). Viaggiamo così nel cuore degli anni Settanta, a Parigi, Monaco e Roma, per seguire la crescita formidabile di questa personalità complessa e iconica della couture parigina, già spinta dall’ambizione di diventare l’imperatore della moda.

Quella di Karl Lagerfeld che vediamo nella serie è la storia di una serie di sfide. La prima è quella con un rivale in affari. Lagerfeld è un designer di moda sconosciuto di 38 anni ma non è ancora riuscito a distinguersi dalla massa, a differenza del suo amico di lunga data, Yves Saint Laurent, il capo della più prestigiosa casa di alta moda del momento. La sfida è raggiungerlo e superarlo in affari e creatività. L’altra sfida è, apparentemente, sempre con Saint Laurent per il cuore e il corpo del giovane Jacques de Bascher. La sfida, lo capiremo, non sarà però tanto con Saint Laurent, quanto con Jacques, o addirittura con se stesso, per prendere le redini di una relazione complicata che sfugge in continuazione di mano a Karl, un uomo tanto padrone del suo lavoro quanto complicato nella vita sentimentale. La sfida più grande, che non è slegata dalle altre due, è quella contro l’ambiente stesso della moda – i suoi datori di lavoro, i competitor, il sistema – per riuscire ad emergere. Per cambiare quelle due parole magiche, rigorosamente francesi, che segnano la vita di uno stilista: andare oltre il prêt-à-porter, verso l’haute couture. Quelle due parole, accanto a un’altra parola, un nome inconfondibile, appariranno in un foglio inviato via fax, alla fine della storia.

L’idea di mettere al centro Jacques e la strana storia d’amore tra lui e Karl è al tempo stesso la novità, che distingue Becoming Karl Lagerfeld dalle recenti serie sugli stilisti che abbiamo visto, e anche il limite del film. Perché Jacques non è cattivo, è che lo disegnano così. Ma, tra la scarsa bravura dell’attore che lo interpreta e come lo disegna la sceneggiatura, il risultato è che ci sia continuamente al centro della scena un personaggio respingente che, non si sa perché, tutti vogliono e desiderano. La scelta di puntare tanto sull’aspetto sentimentale della storia e di raccontarlo in questo modo fa sì che Becoming Karl Lagerfeld sia la meno riuscita tra le recenti serie dedicate alla moda. Cristóbal Balenciaga (Disney+), raccontando alcuni anni della storia dello stilista spagnolo, riusciva a raccontare il mistero, il segreto della sua arte e dei suoi disegni. In questo senso, quella che parlava più di moda e di creazione artistica era proprio la serie su Balenciaga. The New Look, su Christian Dior, era più una serie storica, e raccontava la vita dello stilista negli anni del Nazismo a Parigi. Becoming Karl Lagerfeld a tratti sembra più una soap opera. Di moda vera e propria, in fondo, si parla poco.

Anche se, per chi segue la moda, è comunque interessante vedere Karl Lagerfeld (Daniel Brühl è bravissimo), ancora con un look anni Settanta, barba e capelli lunghi sciolti, e poi assumere le sembianze che tutti abbiamo conosciuto, con i capelli raccolti in una coda e i vistosi occhiali scuri. In scena, Daniel Brühl indossa abiti curati e appariscenti, completi tre pezzi dalle fogge ricercate, camicie sgargianti e spille ad adornare giacche o cravatte.

Come spesso accade nelle storie di questo tipo, il fascino sta anche nel fatto che gli stilisti si muovano al centro della loro epoca. E allora vediamo Lagerfeld incontrare Andy Warhol e Marlene Dietrich (con cui litiga perché non le fa esattamente l’abito che vuole, ma lo interpreta a modo suo), una delle sorelle Fendi, in un’incantata Roma del Quartiere Coppedé. Ascoltiamo la musica di quegli anni, dal citato Bowie a Don’t Let Me Be Misunderstood, cantata da Nina Simone, fino a Blondie e i Visage che annunciano l’arrivo degli anni Ottanta e una nuova generazione di stilisti come Thierry Mugler.

Quello che affascina è che in questi mesi, con l’arrivo in contemporanea di più produzioni, abbiamo assistito alla nascita di una sorta di universo espanso, una sorta di Stylist Cinematic Universe, dove una serie di grandi nomi della moda hanno visto le loro vite e le loro gesta intrecciarsi fra loro. Tutto questo non pianificato e organizzato come nei film di supereroi, non con gli stessi attori. Ma è stato interessante, e lo sarà ancora, vedere costruita questa piccola enciclopedia della moda per immagini.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Prisma 2: L’adolescenza come non l’avevamo mai vista. Su Prime Video

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Non so perché l’allegria degli amici di sempre non mi diverte più. Uno mi ha detto che lontano dagli occhi lontano dal cuore e tu sei lontana lontana da me”. Lontano dagli occhi, il capolavoro di Sergio Endrigo risuona in una delle scene più intense di Prisma, la serie drama young adult scritta e diretta da Ludovico Bessegato. L’attesissima seconda stagione è finalmente disponibile dal 6 giugno su Prime Video. Ed è una serie strepitosa, la migliore serie italiana vista quest’anno, e, insieme a Tutto chiede salvezza, la migliore italiana degli ultimi anni. Prisma è un romanzo di formazione, la storia di alcuni adolescenti in divenire, in cerca della propria identità, dei propri gusti e dei propri desideri, in cerca di affinità elettive prima ancora del proprio posto nel mondo. Prisma ci dice che la generazione dei giovani di oggi è diversa da quella immediatamente precedente. I giovani hanno meno paura di essere se stessi. E hanno anche meno voglia di essere definiti o incasellati in generi ed etichette. La stessa serie Prisma è stata definita forse troppo frettolosamente una serie sulla fluidità di genere. Che è uno dei temi, ma non è l’unico. Prisma è una serie sull’adolescenza, sulla scoperta di sé, sull’apertura agli altri. Non è scontato che ci si trovi a palpitare per una coppia di persone, a gioire per lo stato nascente di un amore, indipendentemente dal genere o dalle inclinazioni dei personaggi, perché si tende a identificarsi con chi è più simile a noi. In Prisma invece questo accade: si trova a parteggiare per i personaggi, indipendentemente da genere e inclinazioni. Perché quello di cui si parla è semplicemente amore. E l’amore non ha etichette.

Tutto era partito da Marco e Andrea, due gemelli (entrambi interpretati dal bravissimo Mattia Carrano). Marco aveva iniziato a frequentare una ragazza, Carola (Chiara Bordi), che prima di incontrare Marco aveva avuto una relazione con Daniele (Lorenzo Zurzolo). Alla fine della prima stagione Carola si era avvicinata a Daniele e la cosa aveva provocato la rabbia di Marco. Andrea, l’altro gemello, con un profilo falso, e fingendosi una ragazza, aveva iniziato a chattare con Daniele. La prima stagione si era chiusa con i due che si erano finalmente incontrati, per la sorpresa di Daniele. Ma, tra di loro, tutto è ancora da capire. Andrea, che ama truccarsi e vestirsi con abiti femminili, sta scoprendo se stesso. E ad aiutarlo c’è Nina (Caterina Forza), una sua compagna di classe. Che a sua volta sta scoprendo la sua sessualità e sta ridefinendo i suoi affetti.

Prisma è una serie ipnotica e avvolgente per come racconta i giovani portandoci nel loro mondo e scorrendo naturale, senza la ricerca di continui colpi di scena ad effetto, ma solo di quelli naturalmente creati dalla trama e necessari. Si starebbe ore a guardare la serie, ad osservare la vita di questi ragazzi che ormai sentiamo come nostri amici. Il merito è della grande empatia che Ludovico Bessegato riesce a creare tra spettatore e personaggi, e prima ancora tra i personaggi stessi. Il segreto è l’amore che Bessegato (e le co-sceneggiatrici Alice Urciuolo prima e Francesca Scialanca in questa seconda stagione) provano per i propri personaggi, dopo anni passati con loro, tra una certosina osservazione dei loro modelli e la scrittura dei caratteri veri e propri. Amare un personaggio significa non tradirlo, non imporgli comportamenti che non sono suoi in nome di una svolta narrativa, ma rispettare il suo carattere e la sua crescita.

Per questo in Prisma tutto appare perfettamente reale, credibile, concreto. Allo stesso tempo l’immagine è curata, illuminata nel modo giusto. Se Euphoria, serie tv che ha ridefinito il mondo dei teen drama e alzato l’asticella del genere, e a cui Prisma non è affatto inferiore, inonda la scena di irreali luci al neon, Prisma lo fa ammantando i suoi ragazzi di luci naturali, o almeno che lo sembrano (senza rinunciare al neon quando la situazione lo richiede). Ma la delicatezza in Prisma non è solo un fatto di luce. È anche nel tono del racconto. Se la serie di Sam Levinson cerca sempre la scena forte, il pugno nello stomaco, quella di Bessegato cerca sempre la verità e la naturalezza, la delicatezza. Lo sguardo sui corpi è attento a trasmettere la bellezza e la sensualità, ma è anche molto pudico, rispettoso. È sempre quell’amore per i personaggi di cui parlavamo prima. A proposito di teen drama, anche questa etichetta sta stretta a Prisma: non è una serie per ragazzi, ma una serie che parla di ragazzi.

Rispetto alla prima stagione, Ludovico Bessegato con Prisma 2 riesce a fare ancora meglio. Questa seconda stagione ha una struttura narrativa più ricca e avvincente che, sul finale, accenna anche a qualche momento da thriller, o almeno alza la tensione. Questa seconda parte di Prisma allarga il suo sguardo. Lo fa geograficamente, perché da Latina a tratti ci si sposta a Roma o Milano. Ma soprattutto lo fa a livello di personaggi, introducendo, accanto ai protagonisti principali, Andrea, Marco (entrambi interpretati da Mattia Carrano), Daniele (Lorenzo Zurzolo), Carola (Chiara Bordi) e Nina (Caterina Forza), una serie di caratteri che sono molto più che di contorno, ma veri e propri coprotagonisti: i trapper Ilo e Vitto (Matteo Scattaretico e LXX Blood); le sorelle di origine giapponese Jun (Asia Patrignani) e Akemi (Elisa Qiu Tian Scenti); Micol (Elena Falvella Capodaglio), interesse amoroso di Nina, e Marika (Francesca Anna Bellucci), l’allenatrice di nuoto. Ogni personaggio che potrebbe sembrarvi minore in realtà è disegnato minuziosamente e ha la sua importanza all’interno della storia.

Il tema della fluidità di genere è ancora al centro della storia, anche attraverso altri personaggi, come quello di Jacopo. Ma è di identità, più in generale, che si parla. Identità vuol dire anche cercare una propria espressione artistica o il proprio modo di vivere una disabilità, è andare oltre ogni etichetta, è poter provare attrazione per una persona senza dover essere definiti con epiteti d’altri tempi. Prisma ci dice tutto questo. E anche che i nostri sogni, purtroppo, spesso hanno un prezzo troppo alto. E si tratta di capire fino a dove possiamo osare per inseguirli. Prisma ci racconta il turbamento che accade quando i nostri sentimenti prendono direzioni che non potevamo immaginare, e quando capiamo che comandano loro.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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