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La casa di carta. Cosa c’è (e chi) dietro allla serie del momento

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Una mattina, mi son svegliato, o Bella Ciao Bella Ciao Bella Ciao Ciao Ciao, una mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor”. Una sera tutti noi abbiamo aperto la app di Netflix e abbiamo trovato questa serie tv, La casa di carta: prodotta in Spagna, partita in sordina e diventata uno dei fenomeni del momento. La prima volta che si ascolta Bella Ciao, la famosa canzone partigiana italiana, in una delle puntate, sembra un omaggio e basta. E invece è la chiave della serie. Sì, perché la storia del Professore e della sua banda di ultimi della società che decidono di fare una rapina alla Zecca di Stato, a Madrid, è molto più che un heist movie dilatato e spezzato ad arte secondo le regole della serialità contemporanea. Quella canzone, per tutti, significa una parola: Resistenza. Ma contro chi può essere la Resistenza oggi? È da anni, ormai, che si respira nell’aria un sentimento di sfiducia, per non dire ostilità, nei confronti delle banche. Almeno da quella crisi nata in America nel 2008, quella in cui migliaia di persone persero la casa. Per arrivare al fastidio verso la Banca Centrale Europea. Tutto questo mentre in Italia la forza politica che viene associata alle banche perde le elezioni. Dall’America all’Europa, da Occupy Wall Street a Podemos, nascono movimenti dal basso. E c’è un momento chiave, nello show, in cui capiamo tutto. Quando il Professore racconta di come, per più volte, la Banca Centrale Europea abbia stampato denaro, solamente per dare un’“iniezione di liquidità” alle banche. Ecco; il Professore e la sua banda, con la sua rapina, hanno pensato di dare un’iniezione di liquidità, ma a chi ne aveva più bisogno: ultimi, reietti, persone senza una seconda possibilità. Non a caso, mentre assistiamo alle gesta dei rapinatori, ci viene spesso detto che i cittadini, che stanno assistendo alla rapina grazie ai media, è dalla loro parte.

Alex, la mente
Ma chi è la mente di questo piano così ben architettato che è La casa di carta? Si chiama Àlex Pina, ed è il fondatore della casa di produzione Vancouver Media. Netflix ha appena siglato con lui un contratto globale in esclusiva, dopo il successo de La casa di carta, la serie non in lingua inglese più vista su Netflix. Le sue nuove serie saranno prodotte in esclusiva per i 125 milioni di abbonati a Netflix. Il primo progetto in cantiere, attesissimo, sarà la terza stagione de La casa di carta (sarà pronta nel 2019), ma anche Sky Rojo, dramma d’azione al femminile che sarà pronto sempre il prossimo anno. Conosciuto da noi per La casa di carta, Pina è la mente anche di Kamikaze, Fuga de cerebros e Tengo ganas de ti. Al suo attivo anche Tre metros sobre el cielo, versione spagnola di Tre metri sopra il cielo. Le sue sono storie di personaggi emblematici, magnetici, sensibili e adrenalinici, con una visione tutta personale della vita. “Lavorare per Netflix è un sogno che diventa realtà” ha dichiarato. “Viviamo in un’epoca in cui le serie tv sono considerate alla stregua dei movimenti culturali più influenti. La possibilità di raggiungere anche i luoghi più remoti del pianeta e di costruire un mondo in cui il contenuto in tutte le lingue può essere veicolato a livello globale significa far parte del sogno di migliaia di creativi. Oggi anche produzioni provenienti da piccole realtà possono arrivare al grande pubblico. Non potevamo perdere l’opportunità di collaborare con Netflix, partecipando a questa sfida rivoluzionaria”.

La nave dei folli
Ma cos’altro c’è dietro al successo de La casa di carta? Una scrittura allo stesso tempo lucida, lucidissima, e folle. Lucida per come pensa a ogni dettaglio del colpo alla zecca, dall’idea di fondo (che, se non l’avete ancora vista, non vi sveliamo) alla previsione di ogni mossa dell’avversario, cioè la polizia. E la follia di entrare dentro alla testa di questo gruppo di Robin Hood, di immaginare le loro storie, i loro pensieri, le loro paure. La casa di carta è una nave dei folli, un circo di freak, di personaggi borderline, teneri e crudeli, coraggiosi e disperati, spietati e sentimentali. Capiamo dopo pochi minuti di stare dalla loro parte; ci vuole un po’ di più, ma quando accade è chiarissimo, per capire di amarli. Il Professore (Álvaro Morte), mente affascinante e raffinata, genio del crimine, eppure persona gentile e cortese, tanto da corteggiare quella che in quel momento è la sua peggior nemica, l’ispettore della polizia Raquhel Murillo (Itziar Ituño). Berlino (Pedro Alonso), il luogotenente del professore dentro alla zecca, personaggio folle ed elegante, disperato e romantico, tiranno e martire. E poi, le donne: Nairobi (Alba Flores), risoluta e dolce come solo certe donne sanno essere (la sua frase “inizia il matriarcato” è una delle frasi cult del film) e con un segreto nel suo passato. E Tokyo (Úrsula Corberó), volto da bambina imbronciata e look alla Matilda di Leon, tanto sexy quanto pericolosa. Per gli altri e per se stessa. Guardando questi personaggi, che hanno scelto di chiamarsi con i nomi di città per garantirsi l’anonimato, così ben disegnati, tra scrittura e recitazione, ci chiediamo dove fossero finora, nel cinema spagnolo, tutti questi attori così carismatici.

Sindromi di Stoccolma
Personaggi che si dannano l’anima per la rapina, che è qualcosa di più del solo vil denaro. È prima di tutto rivalsa, un sentimento che tutti, prima o poi, proviamo nella vita. Ma non fanno solo questo. Si amano, si odiano, si tradiscono. Tra sindromi di Stoccolma vere o presunte, e passioni totali, dove non si capisce più chi siano i buoni e i cattivi. Forse perché al mondo non esistono più i buoni e i cattivi, ma solo persone che cercano di sopravvivere. La casa di carta riveste tutto questo con un impatto iconico notevole, con il look simbolico immediatamente irriconoscibile delle maschere di Dalì, che coprono il volto dei rapinatori ma anche degli ostaggi, e delle tute rosse, evidente simbolo di rivoluzione. È curioso, in proposito, che la divisa scarlatta sia l’elemento pittorico di due serie cult di questa stagione: La casa di carta e The Handmaid’s Tale. Qui significano resistenza e libertà, lì negazione dei diritti e oppressione.

Nessun limite all’immaginazione
La casa di carta
procede per continui colpi di scena e cliffhanger. Il suo schema è creare una serie di ingranaggi perfetti che portano avanti il piano, per poi gettare continuamente sabbia in questi ingranaggi e farli bloccare, per poi costringere i protagonisti a trovare il modo di far ripartire il meccanismo. Come il piano del Professore e dei suoi, anche la storia de La casa di carta è fatta di continui arresti e ripartenze. Nata per essere trasmessa sulla rete spagnola Antena 3, doveva avere 15 episodi di 70 minuti. La rete spagnola ha fermato la messa in onda dopo i primi nove. La distribuzione su Netflix ha richiesto un diverso montaggio della serie: per i tempi americani, che poi sono ormai anche i nostri, sono state create delle puntate di 40-45 minuti, che così, da 9, sono diventate 13. Le rimanenti 6, sono diventate quella che conosciamo come la stagione 2, e sono diventate 9. Ora ci sarà una terza, e anche una quarta stagione. Come faranno Pina e il suo team a far ripartire una storia che sembrava chiusa alla perfezione? La chiave, dicono, sarà nella frammentazione della narrazione. Allora non ci resta che aspettare El Profesor e i suoi. Sempre nel nome di Salvador Dalì, un artista che parlava di creare confusione e non porre limiti alla propria immaginazione.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Iniziano oggi le riprese della quarta stagione di MARE FUORI

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Dopo lo straordinario successo che ha segnato le prime tre stagioni della serie prodotta da Rai Fiction e Picomedia, iniziano oggi le riprese della quarta stagione di MARE FUORI.
Il cast torna a girare a Napoli, diretto nuovamente da Ivan Silvestrini.
La serie, una coproduzione Rai Fiction – Picomedia e prodotta da Roberto Sessa,  è nata da un’idea di Cristiana Farina scritta con Maurizio Careddu.

 

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La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton: Tra Marie Antoinette e Lady Diana

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Come sapete, La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton, la nuova serie in arrivo in streaming su Netflix dal 4 maggio, non è la terza stagione di Bridgerton, cioè la serie che continua le vicende della famiglia del titolo, ma uno spin-off e allo stesso tempo un prequel. La nuova serie targata Shondaland, la casa di produzione fondata da Shonda Rhimes (Scandal, Grey’s Anatomy, Private Practice) è la storia della Regina Carlotta, che abbiamo visto reggere le fila della società londinese ai tempi della Reggenza in Bridgerton. Ma è raccontata dall’inizio: è la sua origin story, per usare un termine caro ai supereroi. La Regina Carlotta, quella matura, che abbiamo conosciuto nelle prime due stagioni di Bridgerton, appare spesso in scena. La vediamo mentre è alla ricerca di un erede: nessuno dei suoi figli ha procreato, e il timore è l’estinzione del suo casato. Ma si tratta di un contrappunto, e di un legame con Bridgerton, che scorre accanto alla storyline principale. Questo prequel dell’universo Bridgerton racconta come il matrimonio della giovane Regina con il Re Giorgio abbia rappresentato non solo una grande storia d’amore, ma anche un cambiamento sociale, portando alla nascita dell’alta società inglese in cui vivono i personaggi di Bridgerton.

Al centro c’è la storia di Carlotta. È una ragazza giovanissima, che arriva in Inghilterra da una cittadina della Germania, dopo che è stata scelta per unirsi in matrimonio al Re del Paese più importante del mondo, Re Giorgio d’Inghilterra. Arriva al matrimonio senza conoscerlo, da un Paese lontano, dopo un lungo viaggio, e viene catapultata in un mondo di cui non sa niente. Ci ricorda moltissimo la giovane Maria Antonietta, raccontata mirabilmente da Sofia Coppola in Marie Antoinette, che dall’Austria (certo, era la figlia della Regina e di un nobile qualsiasi) arrivava in Francia per sposare il Re.

Ma la Regina Carlotta ci ricorda anche molto la giovane Lady Diana Spencer. Una ragazza che, alla corte della Regina d’Inghilterra, ha sofferto spesso di solitudine, incomprensione, incomunicabilità. Guardate il primo episodio, e la prima notte di nozze. La giovane Carlotta, dopo un matrimonio combinato ma che, tutto sommato, ha mostrato di apprezzare, si trova accompagnata nella sua dimora, mentre il marito, Re Giorgio, le comunica che alloggerà in un’altra. Ricorda davvero la storia di Carlo e Diana che, una volta sposati, hanno vissuto a lungo in dimore diverse, facendo vite separate. È in questo che La Regina Carlotta: A Bridgerton Story, appare interessante e attuale.

L’altro lato dell’attualità è quello sforzarsi di rendere tutto inclusivo. Il fatto della regina di colore, che già aveva fatto molto discutere nella prima stagione di Bridgerton, qui viene risolta con un paio di battute e in un paio di scene. In più c’è l’omosessualità del servitore personale di Carlotta e di quello di Re Giorgio. Che non è ovviamente un problema, ma nel contesto della storia sembra inserita piuttosto forzatamente, con il solo scopo dell’inclusività.

Ovviamente Giorgio non è cattivo. È che lo disegnano così. Infantile, ingenuo, inesperto. Dedito alla sua passione, l’astronomia, come il Re Luigi XVI di Marie Antoinette era dedito alle chiavi. Certo, meglio le stelle delle chiavi, converrete tutti. E quello tra i due, al netto delle difficoltà, è un matrimonio d’amore. Ma la storia è scritta per raccontarci che i due giovani si amano e che c’è qualcosa tra loro che li divide. E allora, pur essedo una storia diversa, ritorna lo schema del primo Bridgerton: una giovane ingenua, la sua educazione sessuale, due persone che si amano ma che sono divise da qualcosa che rimane misterioso. È il romanzo di formazione di una ragazza che viene da altri tempi ma che in sé racchiude problemi della sua epoca, e anche della nostra. Come in ogni racconto della saga di Bridgerton, il racconto è brioso e piacevole, ma anche superficiale e a tratti eccessivo.

A brillare, nei panni di Carlotta, è la giovane India Amarteifio, un volto fresco, vispo, impertinente, un volto tipico da eroina dei nostri tempi: occhi allungati e una cascata ribelle di riccioli neri, potrebbe essere la protagonista di un film della Marvel. È un volto che istintivamente suscita simpatia e raggiunge il primo obiettivo, quello di farci parteggiare per lei. Corey Mylchreest, visto in The Sandman, è il giovane re Giorgio, e ha il volto e il fisico che il ruolo impongono. Guardate il loro primo incontro, con lei che è ignara di chi sia lui: un classico della commedia sentimentale. Colpisce anche Arsema Thomas, nel ruolo della la giovane Agatha Danbury, dama di corte della Regina e sua mentore. Nell’altra storyline, quella ambientata durante i fatti di Bridgerton, Golda Rosheuvel (Regina Carlotta), Adjoa Andoh (Lady Danbury) e Ruth Gemmell (Lady Violet Bridgerton) riprendono i loro ruoli di Bridgerton.

Per il resto, si sa, siamo in una storia di Bridgerton, e si tratta di stare al gioco, di fare il più grande sforzo di sospensione dell’incredulità possibile. E così, allora, si tratta di prendere o lasciare. Certo, gli anacronismi di Sofia Coppola in Marie Antoinette ci piacevano di più, perché i momenti di rottura, come le Converse accanto alle scarpe d’epoca, e la musica post punk (extradiegetica, ovviamente) erano degli squarci di vernice fluo su una tela classica, che però era rigorosamente e accuratamente costruita, e sempre coerente con la materia raccontata. Shonda Rhimes, invece, nella sua ricostruzione d’epoca si prende qualsiasi libertà a livello storico, visivo, concettuale. È uno di quei prodotti in cui vale tutto. E allora, va bene per intrattenere, ma siamo lontani da qualcosa di profondo, intenso, emozionante.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Citadel: Una grande spy story in una serie tv? Non è una missione impossibile!

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Chi ha detto che ci sono prodotti per il cinema e prodotti per le piattaforme di streaming? Finora avevamo sempre pensato che i grandi film d’azione fossero fatti apposta per il grande schermo e i prodotti più piccoli, meno spettacolari, fossero naturalmente destinati alle piattaforme. Citadel, la serie che trovate in streaming su Prime Video dal 28 aprile, sembra fatta apposta per rompere questa distinzione. Non è la prima serie spettacolare che approda in streaming, ma è forse il caso più eclatante che dimostra il fatto che oggi non esistono più confini. Abbiamo visto i primi due episodi di Citadel su un grande schermo, al cinema The Space Moderno di Piazza della Repubblica a Roma. E su quello schermo ci stavano benissimo. Citadel farà un figurone anche in tv, chiaro, ma vedetelo comunque sullo schermo più grande che avete. Non è un’opera da vedere al cellulare o su un tablet.

L’inizio di Citadel è di quelli che lasciano il segno: siamo sulle alpi italiane, su un treno di ultima generazione, alta velocità ed extra lusso, come in una versione 3.0 di Intrigo Internazionale. Un’affascinante donna vestita di rosso, Nadia Sinh (Priyanka Chopra Jonas), viene avvicinata da un affascinante uomo vestito di nero, Mason Kane (Richard Madden). I due si conoscono già, si conoscono molto bene, hanno un grande feeling. Lo capiamo dal loro dialogo, dalla chimica in atto ogni volta che si avvicinano. Su quel treno ci sono altre persone, è una trappola. C’è una bomba. Un vagone del treno salta in aria e… La storia riprende otto anni dopo. E sta a voi scoprirla.

Vi diciamo solo che Mason non ricorda nulla. Sì, proprio come Jason Bourne, il protagonista di The Bourne Identity che, citato anche da una simpatica battuta in sceneggiatura, è uno dei modelli di Citadel. Modelli che sono tanti, sono chiari, sono i più nobili. C’è ovviamente molto di Mission: Impossible, che è il riferimento più evidente; c’è, ma in misura minore, James Bond. E ci sono, accennati perché l’atmosfera è diversa, i classici di Hitchcock. Tutto questo è per dire che le ambizioni sono alte, gli standard produttivi e visivi anche. Ma Citadel, pur ispirandosi e richiamando il meglio degli spy game cinematografici, non sembra mai qualcosa di già visto, non sembra somigliare ad altre cose. Era il rischio più grande. Ed è stato evitato.

Nel caso di Citadel è il caso di parlare di un vero evento, perché alza l’asticella delle produzioni seriali e del mondo dello streaming, e inaugura una nuova formula produttiva. Anche se siamo in tv possiamo dire tranquillamente che si tratta di grande cinema. E non è un caso: a dirigere infatti ci sono i Fratelli Russo, coloro che avevano già trasformato il cinecomic della Marvel in una spy story anni Settanta con Captain America And The Winter Soldier. Il cinema di spionaggio è il loro terreno e non deludono. Ma il loro ambiente, appunto, è anche il cinecomic, il cinema di supereroi. E, come ha detto qualcuno, Citadel è questo: è un film degli Avengers, ma con le spie. Spie e supereroi, ci hanno spiegato i produttori, in fondo, sono la stessa cosa: personaggi in grado di andare oltre le nostre capacità, con doti e poteri speciali.

Tutto questo è racchiuso nei due protagonisti. Richard Madden, già uomo d’azione ne Il trono di spade, ma soprattutto in The Bodyguard, ha il physique du rôle per essere una nuova spia, anche se l’espressività, in confronto a mostri come Daniel Craig, Tom Cruise e Matt Damon, non è completamente all’altezza. Priyanka Chopra Jonas è una vera sorpresa. Sensualissima nei primi piani, con uno sguardo e delle labbra in grado di far sciogliere che guarda, è anche eccezionale nelle scene d’azione. Bernard, il loro capo, interpretato da Stanley Tucci, dice che Nadia e Mason da soli sono dei grandi agenti, ma insieme sono una bomba. Ed è vero anche per gli attori. La chimica e l’affiatamento tra i due è eccezionale.

Citadel è un evento anche per la parte produttiva. Perché da questa serie verranno tratti alcuni spin off che saranno prodotti in altre parti del mondo. Una di queste è l’Italia. E la protagonista della Citadel italiana è Matilda De Angelis. Non vediamo l’ora di vederla come una nuova, sexy e tostissima spia. Siamo appena entrati nel mondo di Citadel, allora, e crediamo che ci resteremo molto a lungo.

Crediti: Courtesy of Prime Video

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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