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Darkness On The Edge of Town: quando Bruce Springsteen trovò il suono della solitudine

“Non c’era dolcezza, lo volevo nero come il caffè”. Questo doveva essere, e questo sarebbe stato, Darkness On The Edge Of Town, uno dei dischi più grandi del Boss, Bruce Springsteen, che ha appena compiuto quarant’anni. Doveva essere il suono della solitudine, avere un senso di implacabilità, una grandiosità apocalittica. Darkness On The Edge Of Town è stato definito un film sonoro per le storie che racconta e i paesaggi che disegna. Il capolavoro del Boss nasce in un momento molto particolare. Springsteen è reduce dal successo del suo terzo album, Born To Run. Si è legato a Martin Landau, giornalista rock che lo aveva visto suonare dal vivo, e aveva scritto “Ho visto il futuro del rock, e il suo nome è Bruce Springsteen”, salvando la carriera del Boss, e cambiando la sua, visto che sarebbe diventato il suo manager. Ma staccarsi dal vecchio manager, Mike Appel, a cui è legato con dei contratti che ne limitano ogni libertà, non è facile per Bruce, e inizia una battaglia legale che rende il Boss disilluso e frustrato. È anche da qui che nasce il suo disco più oscuro. Springsteen si rifugia in se stesso, nei suoi ricordi. Vuole raccontare la piccola città dove è cresciuto, perché prova un senso di responsabilità verso tutte le persone che ha lasciato lì. È da lì che viene la sua anima. Ed è importante fare i conti con il suo passato, elaborarlo per diventare adulto.
Lo spirito dei tempi
Le registrazioni di Darkness On The Edge Of Town sono ossessive, faticose. Bruce e la E-Street Band suonano fino allo sfinimento quelle canzoni, prima ancora di registrarle, per capire in che direzione andranno. Perché, lo sappiamo, a volte sono le canzoni che decidono dove andare. Il Boss vuole che le canzoni siano qualcosa di essenziale, scarno, qualcosa che colga lo spirito dei tempi. Il rock è anche un lavoro certosino. È anche saper aspettare, attendere per sentire finalmente nell’aria quel qualcosa che è quello che cerchi. Il lavoro in studio è un lavoro di ricerca, lungo e faticoso. Ma è quello che ti permette di trovare il tuo linguaggio, quel tono intimo, profondo. Quello che sai che ti può far dialogare con il tuo pubblico che ti ha sostenuto fino a quel momento. Nel lungo lavoro di ricerca del suono perfetto c’è anche una riflessione sul sassofono di Clarence Clemons, Big Man, che aveva caratterizzato il disco precedente, Born To Run. Inizialmente è un problema, perché Darkness On The Edge Of Town ha un suono più “rurale”, più duro e scarno dei dischi precedenti. Ma è lo stesso Boss che trova la via perché ci sia anche il sax nel suono perfetto: gli canta le note, lo guida come se stesse raccontando una storia. Il Boss guida anche Max Weinberg, il suo batterista, gridandogli “bacchetta” al momento giusto. Sono giorni in cui la batteria viene spostata ovunque, fino a che viene trovato il suono migliore: finisce anche in ascensore.
Quella canzone che non riesce a finire
In quell’atmosfera creativa, sfrenata, escono canzoni di tutti i tipi. Anche dei brani “pop”, canzoni più allegre, d’amore. Ma il Boss le scarta, perché non possono entrare nel racconto che ha nella sua testa. Non ci devono essere pezzi in cui si sentano le influenze dei Beach Boys, di Roy Orbison, il Wall Of Sound di Phil Spector. Tutte cose che adora, ma per cui ora non c’è posto. Ora Bruce deve trovare un suono suo. Così Sherry Darling entrerà nel disco successivo, The River. E Talk To Me, insieme a un’altra ventina di pezzi finirà in The Promise, il disco uscito molti anni dopo. E poi c’è una canzone. Una canzone d’amore. Bruce ci sta lavorando, ma ha paura di lei. Sa che non riuscirà a completarla. Non è capace di scriverla, nel momento in cui sta cantando dell’oscurità al limite della città. E allora ne parla al produttore Jimmy Iovine, che in quel momento sta lavorando anche con una giovane cantautrice. Le fa ascoltare la canzone, lei se ne innamora e la fa sua: ne riscrive il testo e ne esce una splendida canzone d’amore, che racconta di lei e del suo amato, divisi e uniti dal telefono e dalla notte. Perché la notte appartiene agli amanti. Quella ragazza di chiama Patti Smith, e quella canzone diventa Because The Night.
Il country e John Ford
La storia di Darkness On The Edge Of Town è quella di una continua ricerca di un’anima, di un suono. In quel periodo Springsteen ascolta molta musica country, perché è una musica che affronta preoccupazioni da adulti. Comincia a interessarsi al periodo della Grande Depressione, alle figure del film Furore di John Ford, tratta dal libro di Steinbeck. I suoi testi trasudano delusione e rabbia. “Appena riesci ad avere qualcosa, loro mandano qualcuno a cercare di togliertela” ispira Something In The Night. Sono i giorni della morte di Elvis Presley, quelli in cui il Boss, Steve Van Zandt, cioè Little Steven, e Eric Meola, un fotografo, viaggiano sull’autostrada del serpente a sonagli, nello Utah, per raggiungere la Terra Promessa, la loro Promised Land.
La gioia di essere vivi non è un peccato
Il suo disco è un’indagine profonda. Canzoni che parlano di sfide, identità, scelte. Il Boss si chiede chi è, da dove viene, cosa significhi essere un padre, un figlio, un americano, dove sta andando la sua vita da musicista. I suoi sono personaggi isolati, invecchiati, logorati. Ma non dei perdenti. Badlands rifiuta la sconfitta e il senso di impotenza. “Voglio il controllo”, canta Bruce. Con la consapevolezza che “la gioia di essere vivi non è peccato”. Adam Raised A Cain e Factory sono canzoni in cui Springsteen cerca il dialogo con suo padre. La prima vuole dire che padri e figli non sono poi così diversi, nelle loro vene “scorre lo stesso sangue caldo”. Factory, con il suo ritmo lento, evoca lo scorrere delle giornate lavorative del padre in quella fabbrica che “si prende il suo udito e gli dà la vita”. Non c’è spazio per l’amore, al massimo per una notte con una prostituta: Candy’s Room è la stanza di una prostituta, dove “ci sono le foto dei suoi idoli alle pareti” e “per arrivarci devi attraversare le tenebre”: ma “c’è una tristezza nascosta in quel bel viso”. Racing In The Streets è ancora una storia on the road, lui e lei “che fissa il vuoto, con gli occhi di chi odia il solo fatto di essere nato”, ma corrono, corrono lungo quella strada, fino al mare, “per lavare via questi peccati”. “Faccio del mio meglio per vivere onestamente” racconta il protagonista di The Promised Land, ma all’orizzonte si stagliano nubi nere che potrebbero spazzare via tutto. Se Prove It All Night ci dice che l’etica del lavoro non finisce una volta usciti dalla fabbrica, Darkness On The Edge Of Town racchiude tutta la fatica e l’oscurità del disco. “Stanotte salirò su quella collina perché non posso fermarmi, salirò su quella collina con tutto quello che mi è rimasto” sono le indelebili parole della title-track, quelle che tutti abbiamo fissato nella mente.
Gli addetti alle riparazioni
Uscito il 2 giugno del 1978, Darkness On The Edge Of Town entra nella top ten di Billboard, ma non ci rimane a lungo. Prove It All Night, il singolo scelto per il lancio, non è certo un successo come Born To Run. Inizialmente, Springsteen decide di non promuovere il disco. Ma poi la strategia cambia. Le radio cominciano a trasmette i concerti, viene preparato uno spot. Springsteen finisce per la prima volta sulla copertina di Rolling Stone. E il Darkness Tour, che segue al disco, entra nel mito, con concerti di più di tre ore. La band suona finché non crolla, come ricorderà il pianista Roy Bittan. Bruce Springsteen aveva trovato la sua strada. Aveva trovato la sua voce adulta. Ancora oggi quelle canzoni sono un pugno nello stomaco, accordi affilati come coltellate, strofe cantate con rabbia come pietre tirate addosso a qualcuno. Il Boss racconta che da giovane era molto confuso. E questo è stato il modo che ha trovato per cercare di risolvere e riparare le cose. In fondo, tutti in questo mestiere – musicisti, scrittori, pittori, registi – non sono che questo, sono degli addetti alle riparazioni. È questo quello che fanno: riparano.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.
E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.
La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.
Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.
Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.
Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.
Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…
di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it
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Duran Duran: Quei new romantic in cerca del suono della tv
Published
2 anni agoon
17 Giugno 2021
“Some new romantics looking for a tv sound” recita, a un certo punto, il testo di Planet Earth, il primo successo dei Duran Duran, la band che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e, questo non lo immaginava nessuno, è ancora viva, vegeta e in ottima salute. E, a quarant’anni dall’uscita del primo album, Duran Duran (arrivò nei negozi proprio il 15 giugno del 1981) continua a fare tendenza. Se negli anni Ottanta Simon Le Bon, Nick Rhodes, John Taylor, Andy Taylor e Roger Taylor, da Birmingham, UK, idoli delle ragazzine per la loro bellezza, erano considerati alla stregua di una boyband, oggi tutti li considerano una grande band, gli artefici di un suono che ancora oggi è attualissimo, e che ha ispirato decine di gruppi che sarebbero venuti dopo di loro. I Duran Duran sono forse tra i più famosi esponenti del genere new romantic, una variante della new wave, il movimento che, in varie sfaccettature, seguì il punk.
I Duran Duran nascono già nel 1978. Sono tre studenti d’arte, John Taylor alla chitarra, Nick Rhodes ai sintetizzatori e Stephen Duffy alla voce e al basso. I tre sono compagni di scuola e amano gli artisti glam e synth pop. È proprio John Taylor a suggerire il nome per la band: si chiamerà Duran Duran ispirandosi a Durand Durand, il cattivo del film Barbarella, famoso film di fantascienza con Jane Fonda. E, se ascoltate certe linee di tastiera del primo album dei Duran, sentirete che una certa atmosfera fantascientifica c’è tutta. Nella band entrerà poi Simon Colley, al clarinetto e al basso. Ma, già dopo il terzo concerto, Duffy e Colley se ne andranno. John Taylor lascerà la chitarra per imbracciare il basso, lo strumento con cui darà un groove inconfondibile al suono dei Duran Duran. Alla batteria ci sarà il secondo Taylor, Roger. Il terzo, Andy Taylor (i tre non sono parenti) entrerà nella band come chitarrista. Alla voce ci proverà Andy Wickett, che registrerà con la band alcune demo. Ma non saranno i Duran Duran che conosciamo fino a che, con la sua voce inconfondibile, non prenderà in mano il microfono Simon Le Bon.
Il biglietto da visita con cui i Duran Duran si sono presentati al mondo è il singolo Planet Earth, quello in cui si parla di new romantic in cerca del suono della televisione. È una canzone trascinante che, ancora oggi, sembra arrivare da un altro pianeta. Ci sono i synth spaziali di Nick Rhodes, il basso incalzante di John Taylor, il ritmo sincopato della batteria di Roger Taylor che si sposa alla perfezione con i salti del basso, la chitarra ritmica rockeggiante di Andy Taylor. E poi quegli effetti sonori che sembrano evocare l’atterraggio di un elicottero, o qualsiasi altro veicolo vogliate immaginare. Magari un’astronave. È qui che sentiamo già tutte le influenze che hanno reso quello dei Duran Duran un suono unico. In quella ritmica c’è, ad esempio, il groove di Giorgio Moroder, quello, per capirci, di I Feel Love di Donna Summer. L’influenza dei Roxy Music, una band che aveva dato una propria interpretazione del glam rock, la sentiamo tutta in Girls On Film, il brano che apre l’album. Ascoltate Love Is The Drug dei Roxy Music e poi questa canzone, e capirete quanto siano importanti. E poi, ancora, ci sono gli Chic, ci sono i Japan di David Sylvian, idolo di Nick Rhodes, tanto che i due sembrano due gemelli separati alla nascita. E ovviamente David Bowie, che in qualche modo aveva lanciato il movimento new romantic nel suo video Ashes To Ashes, in cu apparivano alcune comparse prese da quella scena, tra cui Steve Strange dei Visage. Nelle linee melodiche orientaleggianti di Tel Aviv, lo strumentale che chiude il disco, ci sono degli echi di alcune canzoni del Bowie della trilogia berlinese. E nella versione Deluxe di Duran Duran, del 2010, c’è una cover di Fame (che i Duran incisero come lato B di Careless Memories), il brano, tratto da Young Americans, che Bowie registrò a metà anni Settanta insieme a John Lennon. A proposito, Duran Duran fu registrato, agli AIR Studios di Londra, proprio nel dicembre del 1980, quando da New York arrivava la notizia dell’assassinio di Lennon. Più tardi i Duran confessarono quanto fu difficile portare a termine le registrazioni dopo aver sentito quella notizia. Ma in quei giorni in quello studio c’erano proprio i Japan, i loro idoli, che stavano registrando Gentlemen Take Polaroids in fondo alla sala dello studio.
Girls On Film, il terzo singolo estratto dall’album, è stato il salto definitivo dei Duran Duran verso la fama. Merito anche di un video ad effetto, arrivato proprio nel momento in cui, grazie a MTV, il videoclip diventava allo stesso tempo una forma ad arte a sé, e il miglior veicolo promozionale per lanciare un singolo e un artista in vetta alle classifiche. Girls On Film era uno di questi video: fatto per bucare lo schermo, scandalizzare, far discutere. Era stato girato dal duo Godley & Creme, musicisti e videomaker tra i più in voga al tempo, e due settimane dopo venne lanciato negli Stati Uniti da MTV. Nel video, i Duran Duran suonano di fronte a un ring, sul quale si avvicendano una serie di numeri da nightclub: una ragazza mima un combattimento con un lottatore di sumo, un’altra simula un salvataggio da parte di un bagnino, una un massaggio e una cowgirl cavalca un uomo con una testa di cavallo. La parte più spinta è quella in cui due donne, di cui una in topless, lottano nel fango. Il video fece scandalo e molte reti televisive finirono per mandare in onda la versione alleggerita, senza la scena incriminata. Ma il video integrale venne trasmesso nei nightclub dotati di schermi video, e sulle nostre tivù musicali spesso veniva tramesso. Ma è un video che ha una sua ironia e, nonostante sia spinto, non è mai volgare. A maggior ragione se visto oggi. La potenza del suono di Girls On Film e quel video così particolare portarono l’album la terza posizione nella Top 20 inglese.
La Duranmania doveva ancora iniziare, e le ragazze che avrebbero voluto sposare Simon Le Bon anche. Da lì a poco sarebbe arrivato Rio, il secondo album, e i video esotici girati da Russell Mulcahy. Sarebbero arrivate le loro canzoni più belle e più famose, quelle che avrebbero fissato per sempre nell’immaginario il suono e l’immagine dei Duran Duran. Ma il primo album aveva forse un suono ancora più sperimentale, coraggioso, innovativo. I Duran Duran, insieme a un’altra manciata di artisti, avevano lanciato il movimento dei new romantic. Un movimento fatto di musica, come detto, ma anche di look sgargianti e sfrontati. I Duran Duran, grazie alla collaborazione con stilisti come Perry Haines, Kahn & Bell e Anthony Price, a ogni video e ogni apparizione si distinguevano per il loro abiti. Se i pantaloni sono spesso quelli di pelle tipici del rock, a volte stretti, a volte più larghi e a vita alta, i nostri vestono spesso con camicioni dalle maniche larghe e dal collo a sbuffo che sembrano usciti da un film su Casanova. Hanno vistose sciarpe attorno al collo, o strette in vita a mò di cinture, e a volte portano delle fasce annodate sulla fronte. Nel loro guardaroba ci sono quelle giubbe militari che oggi vediamo molto spesso, e il tipico giubbetto del rock, il chiodo, magari è di colore bianco, come quello che indossa Simon Le Bon nel video di Girls On Film, o blu. Gli abiti sono speso di tinte pastello, ad esempio carta da zucchero. Un classico del periodo, poi, sono le t-shirt, colorate o bianche e nere, a righe orizzontali. Il trucco sul volto è spesso deciso, pesante. E i capelli sono colorati con meches, bionde o di altri colori, e spesso dalle forme molto voluminose.
Quelle parole di Planet Earth possono suonare come “qualche nuovo romantico in cerca del segnale della tv”, o “in cerca di una sigla per la tv”. Ma ci piace leggere, in quei versi, che quei new romantic stessero cercando il suono della tv, cioè il prodotto perfetto per le nuove tivù musicali che stavano nascendo, una forma d’arte che unisse musica e immagini, canzoni e videoclip perfetti e inscindibili da essere una cosa sole nell’immaginario collettivo, suoni all’avanguardia e un look all’altezza di essi. A quarant’anni da Duran Duran, se oggi vi guardate e attorno e tenete le orecchie aperte, vedrete ancora in giro tracce del look new romantic. E, se le hit dei Duran risuonano ancora, hanno lasciato anche molte tracce sonore in canzoni di oggi e in band che, da almeno vent’anni o forse di più, in qualche modo provano a recuperare il loro suono.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Io volevo essere eterna – La biografia di Krizia

Published
2 anni agoon
7 Giugno 2021By
DailyMood.it
«Chi sceglie Krizia, ha scelto un modo di pensare, di presentarsi agli altri, di essere» Umberto Eco.
Krizia è un nome preso in prestito da un dialogo di Platone sulla vanità femminile, lo scelse Mariuccia Mandelli (Bergamo 1925 – Milano 2015) per la sua casa di moda. E per se stessa. Icona di stile nel mondo intero, in America era soprannominata «Crazy Krizia» e in Asia veniva trattata come una regina. Ha contribuito alla nascita del prêt-à-porter italiano e a plasmare la donna moderna a suon di plissé, hot pants, animali e materiali inediti. Dismessi i panni di maestra elementare, dopo un’infanzia trascorsa a cucire vestiti per le sue bambole, Mariuccia parte con una valigia piena di abiti da vendere alle boutique in giro per l’Italia: ha con sé idee innovative, un sorriso genuino e la tempra di una pantera. Nel giro di pochi anni costruisce un impero, alla sua corte tra i primi collaboratori ci sono Walter Albini e Karl Lagerfeld, e di fatto scrive la storia della moda con sessant’anni di collezioni.
Questa biografia si costruisce attraverso le sue stesse dichiarazioni – estratte da centinaia di interviste rilasciate dalla stilista e conservate negli archivi di «Corriere della Sera», «la Repubblica», «Vogue», «Amica», «Elle» – e la compenetrazione dell’autrice nelle sue pieghe di donna, nelle sue contraddizioni, nelle idee che l’hanno ispirata fino ai novant’anni. E nel temperamento, schietto e feroce proprio come i suoi abiti, che l’ha portata a difendere dai pregiudizi la morte di persone a lei care, come Gianni Versace e Lady Diana, a guerreggiare con la storica direttrice di «Vogue America», Anna Wintour, e a difendere con determinazione la sua innocenza nella celebre inchiesta del pool Mani Pulite sugli stilisti italiani.
Anna Marchitelli (1982) è nata, vive e lavora a Napoli. Scrive dal 2016 per il «Corriere del Mezzogiorno», dorso del «Corriere della Sera», e collabora con gli inserti speciali. Dal 2010 al 2016 ha scritto per «la Repubblica Napoli». Suoi articoli sono apparsi su «Grazia», «Vanity Fair», «D di Repubblica», «I’M Magazine», «Casa Mia Decor». Nel 2017 ha pubblicato la raccolta di poesie Certe stanze (Manni Editori), aggiudicandosi il premio «L’Iguana» dedicato ad Anna Maria Ortese. Nel 2018 ha pubblicato Tredici canti (12+1) (Neri Pozza), riscrittura delle cartelle cliniche custodite nell’archivio dell’ex manicomio di Napoli Leonardo Bianchi. Nel 2020 ha scritto per il teatro i monologhi su Emilio Caporali e Maria Amalia di Sassonia per la rassegna «Racconti per ricominciare». Sempre per il teatro ha lavorato al monologo su Krizia. Nel 2021 ha firmato i componimenti poetici per il libro d’artista del pittore Ciro Palumbo ispirato a L’Infinito di Leopardi.
Info tecniche:
Collana Beaubourg – Varia
Data di uscita: 15 giugno 2021
Pagine: 180
€ 17,00
Isbn 978-88-6799-803-6
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