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The Handmaid’s Tale 3. La solidarietà femminile è la risposta

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Non possiamo contare su di loro, ci odiano, Serena. Non sono dalla nostra parte”. Sono le parole che aspettavamo da tempo. E arrivano nella terza stagione di The Handmaid’s Tale, in onda su TIMVISION dal 6 giugno: i primi tre episodi saranno subito disponibili e gli altri andranno in onda, a meno di 24 ore dalla messa in onda negli USA, ogni giovedì. The Handmaid’s Tale è la serie distopica tratta dal romanzo di Margaret Atwood ambientata in un futuro prossimo dove l’infertilità è un problema, e le poche donne fertili sono costrette a dedicarsi esclusivamente alla procreazione. Il dialogo è tra June Osborne (Elizabeth Moss), che siamo stati abituati a conoscere come Difred, e Serena (Yvonne Strahovski), la moglie del Comandante Waterford. Ci siamo chiesti spesso, durante le prime due stagioni, come in questo mondo le donne potessero trovarsi su due lati opposti della barricata: da un lato le mogli, complici dei loro mariti nella schiavitù delle ancelle in nome di una maternità che altrimenti non potrebbero avere; dall’altro le ancelle, sacrificate a procreare per la gioia di qualcun altro. Serena, prima della altre, ha capito che le mogli stesse altro non sono che una rotella dell’ingranaggio di un mondo maschile, creato a uso e consumo degli uomini, dove le donne – che siano apparentemente integrate, come le mogli, o deliberatamente soggiogate, come le ancelle – non troveranno mai il loro posto, il loro scopo, la loro libertà.

Questa solidarietà femminile che manca nel mondo distopico di Gilead è quella che probabilmente manca anche nella nostra società. Un idem sentire, un’unione di intenti, almeno su alcuni temi, può essere la risposta, a Gilead come da noi. Se il messaggio che arriva da The Handmaid’s Tale è forte e chiaro a tutti noi, è anche un indirizzo molto deciso per capire dove potrebbe andare questa terza stagione. Che, come la seconda, si prende il suo tempo per raccontarci le cose. Ma sembra davvero il momento della riscossa. June, alla fine della seconda stagione, era pronta a fuggire. Aveva rinunciato, lasciando andare in Canada Emily (Alexis Bledel) con la bambina che aveva appena partorito. June ha ancora del lavoro da fare. Ha una figlia, Anna, che vive presso un’altra famiglia. E soprattutto ha centinaia di donne, ancelle, marte (le domestiche che vestono in grigio), ma anche mogli, da risvegliare, da rendere consapevoli. June è come Neo, l’Eletto di Matrix: non ha superpoteri, ma è qualcuno che è stato risvegliato e, come tale, ha la consapevolezza. Forse è arrivato il momento della resistenza. “È questo che diventeremo, incubi. E un giorno verremo a prendervi”. La sfida agli uomini è lanciata.

La stagione 3 di The Handmaid’s Tale, pur nei suoi ritmi compassati, ipnotici, carichi di tensione, ha un che di eroico. È il racconto di una brace che cova sotto la cenere pronta ad infiammarsi, come accade letteralmente in una scena che diventerà un cult, nella prima puntata, sulle note di I Don’t Like Mondays dei Boomtown Rats. La stagione 3 ha anche qualcosa di positivo, un briciolo di speranza. Sappiamo che al di là di un fiume dalle acque agitate c’è la terra promessa, il Canada. Rispetto alle prime due stagioni cominciamo a vederlo più spesso, e quindi a sperare, a respirare, ad annusare aria pulita, aria di diritti e libertà. Cose che noi oggi diamo per scontate, ma che non lo sono per tutti. E che possono sparire in un attimo. Ma capiamo che, anche una volta raggiunta la libertà, la vita non è facile. “Non è sempre vissero felici e contenti. A volte è solo vissero”.

Per quanto riguarda le dinamiche del racconto, assistiamo alla graduale uscita di scena del Comandante Waterford di Joseph Fiennes, sempre presente, ma più marginale. E alla centralità di un personaggio che avevamo conosciuto nella seconda stagione, l’ambiguo, imperscrutabile, Comandante Lawrence, interpretato da Bradley Whitford. Alleato o nemico, tranquillo o pericoloso, è un personaggio che cela dentro di sé chissà quale mondo, e non abbiamo ancora capito quale sia. Continuare a vedere The Handmaid’s Tale vorrà dire scoprire anche questo. Che Lawrence sia dalla nostra parte o no, è arrivata l’ora della riscossa.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Loro: La paura, il terrore e il razzismo arrivano su Prime Video

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Pam Grier appare subito, in una delle prime scene di Loro: La paura (Them: The Scare), seconda stagione della serie antologica horror creata da Little Marvin, disponibile in streaming su Prime Video. La presenza della famosa attrice afroamericana ci vuole dire subito una cosa: la nuova stagione di Loro, ambientata nel 1991, è un omaggio al cinema Blaxploitation degli anni Settanta e a quel cinema degli anni Novanta che lo ha riportato in auge. Ricorderete tutti Jackie Brown di Quentin Tarantino, che aveva scelto Pam Grier come protagonista proprio per riprendere quel mondo. Per questo Loro: La paura è un viaggio tra i Settanta e i Novanta, una nuova storia che rimane perfettamente coerente con quella della prima stagione di Loro.

Loro: La paura è ambientato ancora una volta nella contea di Los Angeles. La prima stagione, Loro: Covenant, era ambientata a Compton nel 1952. Adesso siamo nel 1991. La detective della squadra omicidi di Los Angeles Dawn Reeve (Deborah Ayorinde) è alle prese con un nuovo caso: il raccapricciante omicidio di una madre affidataria che ha lasciato scossi anche i detective più esperti. Nel pieno di un tumultuoso periodo a Los Angeles, con una città sul filo del caos, Dawn è determinata a fermare l’assassino. Mentre si avvicina alla verità, qualcosa di sinistro attanaglia lei e la sua famiglia…

Il senso di Loro, sin dalla prima stagione, è stato quello di sublimare attraverso l’horror l’orrore. Il genere, il soprannaturale, lo spaventoso erano un veicolo per raccontare qualcos’altro di molto raccapricciante: il comportamento dei bianchi verso le persone afroamericane. Così, in Loro: Covenant, seguivamo, sconvolti, quello che accadeva a una famiglia di neri che si era appena trasferita in un quartiere benestante. L’horror arrivava in un secondo momento, era spaventoso, certo. Eppure a lasciarci sconvolti era il comportamento quotidiano delle persone.

Loro: La paura continua sulla sua strada di denuncia sociale, ma l’horror vira più sul thriller. La protagonista, infatti, è un’investigatrice che segue il caso di un serial killer. L’atmosfera funziona, tra colori chiari e omogenei, che ci riportano allo stile di un certo cinema indie anni Novanta, accesi da toni di rosso e nero che sono indispensabili al racconto. C’è molto David Fincher in questa storia. Guardate l’arrivo della polizia sul primo luogo del delitto, e vi verrà in mente l’incipit di Seven, in cui la polizia squarcia il buio con la sola luce delle sue torce. Più tardi, parlando delle modalità di comportamento del killer, si fa riferimento al caso Zodiac, che era stato raccontato da David Fincher nell’omonimo film.

Gli anni Novanta in cui si muove Loro: La paura sono anche quelli del famoso caso di Rodney King, il tassista afroamericano che fu pestato violentemente della polizia nel marzo del 1991, mentre qualcuno stava riprendendo la scena per un video che fece il giro del mondo, denunciando il razzismo e gli abusi della polizia sui neri americani (un caso simile, tristemente, è accaduto di nuovo proprio pochi giorni fa). Il pestaggio a King scatenò violenti disordini a Los Angeles nei giorni successivi alla diffusione del video e ad una grande sommossa un anno dopo, quando i poliziotti accusati vennero assolti. È in questa atmosfera che vive la nuova stagione di Loro. Ed è una grande scelta, perché è un momento chiave del razzismo in America.

Un razzismo che, in Loro: La paura, viviamo però in ogni sequenza. Seguiamo Dawn, che è una donna realizzata, emancipata, una stimata detective del LAPD, ma che è continuamente sminuita in tutta una serie di modi. È razzismo se Dawn viene affiancata da un altro collega (maschio, bianco, più anziano) per un’indagine, e se non viene dato credito alle sue piste. È razzismo se, chiedendo di poter parcheggiare nel cortile del dipartimento, viene apostrofata con epiteti che potete immaginare. È razzismo se, a ogni sua mossa, viene liquidata con delle battute. Se anche una poliziotta viene discriminata, figuratevi chi è al di fuori della polizia.

Dawn è interpretata da Deborah Ayorinde (già nel cast della prima stagione, in un altro ruolo), una vera rivelazione: un volto fiero, un piglio orgoglioso, una personalità notevole e anche una dose di sex appeal che ne fa una protagonista perfetta, un personaggio definito a tutto tondo. L’attrice storica Pam Grier interpreta la madre Athena. I bianchi, e il loro razzismo, sono interpretati da Wayne Knight, caratterista visto in molti film di Hollywood, che è il capo della polizia, Schiff, e da Jeremy Bobb, che è il viscido detective Ronald McKinney, che segue le indagini insieme a Dawn. Ma l’altra rivelazione della serie è Luke James, nel ruolo di Edmund, un ragazzo che lavora in un ristorante – parco giochi per bambini, e che è un aspirante attore. Quando, per prepararsi al provino per il ruolo di un serial killer, comincia a entrare nel ruolo, assistiamo a una serie di trasformazioni, prima goffe e poi sempre più inquietanti.

Loro: La paura viaggia tra gli anni Ottanta e Novanta anche attraverso la musica, black e non solo. C’è il pop di Rockwell con Somebody’s Watching Me (la canzone che era nata come risposta a Thriller di Michael Jackson), il rap dei Run DMC con gli Aerosmith di Walk This Way, il cool jazz di Sade e Your Love Is King. E anche un po’ di sano hard rock, con i Guns’n’Roses e Welcome To The Jungle. Little Marvin, ancora una volta, riesce a colpirci con il perturbante, con la paura che nasce da quelli che dovrebbero essere i luoghi più sicuri, gli angoli della casa. Ma che cos’è dunque la paura? “La paura è il dolore che sorge dall’anticipazione del Male”. Lo diceva Aristotele.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

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La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Fallout: Se la catastrofe nucleare è un (video)gioco… e una serie, su Prime Video

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L’inizio di Fallout, la nuova serie Prime Video, è – letteralmente – esplosivo.  Siamo in un mondo in cui sembra tutto tranquillo, idilliaco. Siamo negli anni Cinquanta, in America, in quell’atmosfera inconfondibile, patinata. È una festa di compleanno per bambini, dove l’attrazione è stata un cowboy con il suo cavallo. Ogni cosa sembra perfettamente tranquilla, ideale. Se non fosse che c’è una strana inquietudine che traspare da un programma tv. “Come posso fare le previsioni per la prossima settimana, se non so se ci sarà una prossima settimana?” esclama lo speaker delle previsioni del tempo. Fuori, quel cowboy e la sua bambina si chiedono se stia per accadere un’esplosione. “Dicono che devi guardare il pollice” dice il padre. “Se la nuvola è più piccola devi correre oltre le colline. Se è più grande, non occorre che ti preoccupi di correre”. “Il tuo pollice o il mio?” chiede la bambina. Ma il papà non ha tempo di rispondere. L’esplosione avviene prima negli occhi di chi sta guardando, e poi nei nostri, come in Oppeheimer. È un fungo atomico, che si alza altissimo nel cielo. È enorme. E inarrestabile. Ma è solo l’inizio.

La storia di Fallout inizia 219 anni dopo. L’umanità esiste ancora, non si è estinta. Vive nei “vault”, dei rifugi sotterranei, fatti di cunicoli, dove prova a condurre una vita normale. E a riprodurre quella vita tranquilla dell’America del 1950. Ma si fa presto a dire una vita normale. Si sente il suono di allarmi, sirene, rumori meccanici. E, lì sopra, c’è il mondo reale. Lucy, la protagonista, sta per sposarsi. Ha l’abito bianco, il padre la accompagna all’altare. Ma non conosce chi andrà a sposare….

Fallout è basata sul popolarissimo franchise di videogiochi retro-futuristici. Gli esperti in materia videoludica hanno accolto con grande entusiasmo la serie, che è stata definita uno dei migliori adattamenti da videogame mai realizzati. Il videogame è stato adattato per lo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy, i creatori della serie cult Westworld. In comune con Westworld Fallout ha molte cose. È una storia che guarda al futuro, ma anche al passato (retro-futuristica, appunto, come il gioco), con un contrasto che, nello spettatore, crea un cortocircuito, ma anche curiosità e interesse. È una storia di esseri che cercano la loro anima, la loro speranza, in un mondo arido e desertificato, nella forma come nei valori.

Quello che a prima vista colpisce in Fallout è lo scenario. Se ci pensate, i racconti post-apocalittici, post-atomici, distopici, sono tutti permeati di toni – di racconto e di colori – cupi, plumbei, desolati. In Fallout la desolazione prossima ventura c’è, e non potrebbe essere altrimenti. Ma accanto ci sono i colori accesi delle tute, la patina anni Cinquanta e Sessanta, un’ironia e un dark humour che rendono tutto molto particolare e inaspettato. La musica dei Fifties e dei Sixties contribuisce a creare l’atmosfera e a fare da contrasto. Sentire la musica di Johnny Cash, la sua voce baritonale, le chitarre country-blues in un’azione ambientata nel futuro, e in una scena molto violenta, quella di un pestaggio, spiazza lo spettatore. E, sì, funziona.

Al centro di questo mondo originale ci sono gli attori, corpi che devono essere in grado di trasformare le creature in pixel del videogioco in esseri in carne ed ossa. In questo senso, Ella Purnell, nei panni della protagonista Lucy, è perfetta. La ricordiamo nel ruolo di Jackie nella serie Yellowjackets, ma è una vera veterana (è stata nel cast di Non lasciarmi e Maleficent, interpretando la versione giovane dei personaggi di Keira Knightley e Angelina Jolie). La Lucy di Ella Purnell ha degli occhi enormi, sgranati, un viso regolare. Sembra davvero disegnata da un computer come se fosse davvero fatta di pixel. Accanto a lei, nel ruolo del padre, c’è Kyle MacLachlan, l’indimenticato agente Dale Cooper di Twin Peaks. Uno che di atmosfere misteriose (ma, in fondo, anche ironiche e surreali) se ne intende. Qui ci sembra in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e da tempo non lo vedevamo così a fuoco in un personaggio. Nel cast ci sono anche Walton Goggins (The Hateful Eight), Sarita Choudhury (Homeland) e Michael Emerson (Lost e Person of Interest). Di più non possiamo raccontarvi per non guastarvi la sorpresa. Fallout è una serie che va vista. Che siate amanti dei videogame o meno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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