Serie TV
La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton: Tra Marie Antoinette e Lady Diana

Come sapete, La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton, la nuova serie in arrivo in streaming su Netflix dal 4 maggio, non è la terza stagione di Bridgerton, cioè la serie che continua le vicende della famiglia del titolo, ma uno spin-off e allo stesso tempo un prequel. La nuova serie targata Shondaland, la casa di produzione fondata da Shonda Rhimes (Scandal, Grey’s Anatomy, Private Practice) è la storia della Regina Carlotta, che abbiamo visto reggere le fila della società londinese ai tempi della Reggenza in Bridgerton. Ma è raccontata dall’inizio: è la sua origin story, per usare un termine caro ai supereroi. La Regina Carlotta, quella matura, che abbiamo conosciuto nelle prime due stagioni di Bridgerton, appare spesso in scena. La vediamo mentre è alla ricerca di un erede: nessuno dei suoi figli ha procreato, e il timore è l’estinzione del suo casato. Ma si tratta di un contrappunto, e di un legame con Bridgerton, che scorre accanto alla storyline principale. Questo prequel dell’universo Bridgerton racconta come il matrimonio della giovane Regina con il Re Giorgio abbia rappresentato non solo una grande storia d’amore, ma anche un cambiamento sociale, portando alla nascita dell’alta società inglese in cui vivono i personaggi di Bridgerton.
Al centro c’è la storia di Carlotta. È una ragazza giovanissima, che arriva in Inghilterra da una cittadina della Germania, dopo che è stata scelta per unirsi in matrimonio al Re del Paese più importante del mondo, Re Giorgio d’Inghilterra. Arriva al matrimonio senza conoscerlo, da un Paese lontano, dopo un lungo viaggio, e viene catapultata in un mondo di cui non sa niente. Ci ricorda moltissimo la giovane Maria Antonietta, raccontata mirabilmente da Sofia Coppola in Marie Antoinette, che dall’Austria (certo, era la figlia della Regina e di un nobile qualsiasi) arrivava in Francia per sposare il Re.
Ma la Regina Carlotta ci ricorda anche molto la giovane Lady Diana Spencer. Una ragazza che, alla corte della Regina d’Inghilterra, ha sofferto spesso di solitudine, incomprensione, incomunicabilità. Guardate il primo episodio, e la prima notte di nozze. La giovane Carlotta, dopo un matrimonio combinato ma che, tutto sommato, ha mostrato di apprezzare, si trova accompagnata nella sua dimora, mentre il marito, Re Giorgio, le comunica che alloggerà in un’altra. Ricorda davvero la storia di Carlo e Diana che, una volta sposati, hanno vissuto a lungo in dimore diverse, facendo vite separate. È in questo che La Regina Carlotta: A Bridgerton Story, appare interessante e attuale.
L’altro lato dell’attualità è quello sforzarsi di rendere tutto inclusivo. Il fatto della regina di colore, che già aveva fatto molto discutere nella prima stagione di Bridgerton, qui viene risolta con un paio di battute e in un paio di scene. In più c’è l’omosessualità del servitore personale di Carlotta e di quello di Re Giorgio. Che non è ovviamente un problema, ma nel contesto della storia sembra inserita piuttosto forzatamente, con il solo scopo dell’inclusività.
Ovviamente Giorgio non è cattivo. È che lo disegnano così. Infantile, ingenuo, inesperto. Dedito alla sua passione, l’astronomia, come il Re Luigi XVI di Marie Antoinette era dedito alle chiavi. Certo, meglio le stelle delle chiavi, converrete tutti. E quello tra i due, al netto delle difficoltà, è un matrimonio d’amore. Ma la storia è scritta per raccontarci che i due giovani si amano e che c’è qualcosa tra loro che li divide. E allora, pur essedo una storia diversa, ritorna lo schema del primo Bridgerton: una giovane ingenua, la sua educazione sessuale, due persone che si amano ma che sono divise da qualcosa che rimane misterioso. È il romanzo di formazione di una ragazza che viene da altri tempi ma che in sé racchiude problemi della sua epoca, e anche della nostra. Come in ogni racconto della saga di Bridgerton, il racconto è brioso e piacevole, ma anche superficiale e a tratti eccessivo.
A brillare, nei panni di Carlotta, è la giovane India Amarteifio, un volto fresco, vispo, impertinente, un volto tipico da eroina dei nostri tempi: occhi allungati e una cascata ribelle di riccioli neri, potrebbe essere la protagonista di un film della Marvel. È un volto che istintivamente suscita simpatia e raggiunge il primo obiettivo, quello di farci parteggiare per lei. Corey Mylchreest, visto in The Sandman, è il giovane re Giorgio, e ha il volto e il fisico che il ruolo impongono. Guardate il loro primo incontro, con lei che è ignara di chi sia lui: un classico della commedia sentimentale. Colpisce anche Arsema Thomas, nel ruolo della la giovane Agatha Danbury, dama di corte della Regina e sua mentore. Nell’altra storyline, quella ambientata durante i fatti di Bridgerton, Golda Rosheuvel (Regina Carlotta), Adjoa Andoh (Lady Danbury) e Ruth Gemmell (Lady Violet Bridgerton) riprendono i loro ruoli di Bridgerton.
Per il resto, si sa, siamo in una storia di Bridgerton, e si tratta di stare al gioco, di fare il più grande sforzo di sospensione dell’incredulità possibile. E così, allora, si tratta di prendere o lasciare. Certo, gli anacronismi di Sofia Coppola in Marie Antoinette ci piacevano di più, perché i momenti di rottura, come le Converse accanto alle scarpe d’epoca, e la musica post punk (extradiegetica, ovviamente) erano degli squarci di vernice fluo su una tela classica, che però era rigorosamente e accuratamente costruita, e sempre coerente con la materia raccontata. Shonda Rhimes, invece, nella sua ricostruzione d’epoca si prende qualsiasi libertà a livello storico, visivo, concettuale. È uno di quei prodotti in cui vale tutto. E allora, va bene per intrattenere, ma siamo lontani da qualcosa di profondo, intenso, emozionante.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
Sex Education 4: il romanzo di formazione di Otis e i suoi amici arriva alla fine. Su Netflix
Published
3 giorni agoon
21 Settembre 2023
Incipit vita nova. Inizia una vita nuova per i protagonisti di Sex Education, l’originale serie Netflix che ha lasciato il segno e che ora è arrivata alla quarta e ultima stagione, disponibile in streaming dal 21 settembre. E allora è la fine, ma anche un inizio. C’è una nuova scuola e una nuova vita per i nostri “eroi”, che hanno lasciato il liceo Moordale per andare in un altro istituto. Stanno crescendo, ma dentro portano tutte le loro insicurezze e le loro imperfezioni. E sono proprio queste che ce li fanno amare, che li rendono vicini a noi, a come eravamo da ragazzi. È proprio per questo che ci è piaciuto, fin qui, Sex Education.
Dopo la chiusura del liceo di Moordale, Otis e Eric devono affrontare un nuovo inizio al Cavendish Sixth Form College. Otis ha in mente di creare una nuova clinica per consulenze sessuali, Eric spera che non saranno di nuovo degli “sfigati”. Ma la Cavendish finisce per essere uno shock per tutti gli studenti di Moordale. La scuola è molto diversa: si fa yoga nel giardino comune, si vive all’insegna della sostenibilità. E il gruppo di ragazzi popolari lo è per la gentilezza, e per il loro essere così diversi e singolari. Viv è totalmente sconvolta dall’atteggiamento non competitivo degli studenti, mentre Jackson sta ancora cercando di superare la sua storia con Cal. Aimee decide di fare qualcosa di nuovo frequentando lezioni d’arte e Adam prova a capire se un’istruzione di tipo tradizionale sia adatta a lui. Tutto questo mentre Maeve è negli Stati Uniti, alla Wallace University, dove studia scrittura creativa con segue l’autore di culto Thomas Molloy. La scuola è molto moderna, molto tecnologica, molto queer. I bagni sono di genere neutro, in modo che ognuno possa sentirsi se stesso. Lo speaker’s corner è a disposizione di chi si vuole esprimere liberamente.
Gli sceneggiatori di Sex Education 4 hanno avuto una buona idea. Quella di spiazzare. Lo fanno con i protagonisti della storia. E, di conseguenza, lo fanno anche con il pubblico. Così fanno uscire i personaggi dalla loro comfort zone, e lo fanno mettendoli in una situazione che ribalta tutte le loro abitudini o convenzioni. La nuova scuola è agli antipodi della retrograda e bacchettona Moordale, dove i nostri ragazzi spiccavano per anticonformismo e bisogno di esprimersi. È avanti, molto più avanti di Otis e di Eric. Otis vuole riproporre anche qui la sua clinica di educazione sessuale. Ma serve qui, in un posto dove tuti sono così emancipati? E, soprattutto, serve se tra gli studenti c’è già un’altra terapista? Come si dice, i nostri protagonisti così sono “superati a sinistra” dagli altri studenti.
E poi c’è un’altra storia, quella personale di Otis. Che, capiti i sentimenti per Maeve, capito che sono ricambiati, si trova in una situazione nuova. Per la prima volta il nostro eroe si trova ad esplorare una relazione a distanza. A poter chiamare la propria amata solo a certe ore. A dover fare sesso, senza averlo mai fatto ancora davvero, a distanza, al telefono. La sequenza in cui i due innamorati lo fanno è sensuale e commovente, anche un po’ dolorosa. È uno dei punti più alti di quattro stagioni di Sex Education.
E così viviamo i dolori del giovane Otis dal suo punto di vista, pensando a quando anche noi eravamo come lui. Otis è il simbolo della serie. Come la madre, Jean, è bravissimo ad aiutare gli altri, ad ascoltarli e consigliari su sesso e sentimenti, mentre la loro vita sessuale e sentimentale è un disastro. Aver scritto personaggi così vulnerabili, così imperfetti, da film drammatico, in un contesto che è tutt’altro, grottesco e frizzante, è uno dei punti di forza della serie.
Ma la forza di questi personaggi è tutta negli attori. Sono tutti belli, a loro modo attraenti, ma allo stesso tempo buffi, impacciati, ridicoli. L’Otis di Asa Butterfield ne è l’esempio: quel bellissimo bambino che era il protagonista di Hugo Cabret di Scorsese è diventato un ragazzo carino, ma non bellissimo. E ha in sé tutta l’insicurezza, l’impaccio e la goffaggine di chi deve ancora sbocciare e trovare la sua strada. L’espressione con cui attraversa la storia, tra l’attonito e il dolente, è impareggiabile. Ma pensiamo anche alla dolcissima Aimee Lou Wood, nei panni di Aimee, corpo da pin up e volto da adorabile coniglietto. E poi ci sono la grinta e il dolore di Emma Mackey, ormai lanciata verso un futuro da star cinematografica (ha anche partecipato al blockbuster Barbie). Tutti sono irresistibilmente inadatti.
Come un personaggio dei fumetti, Otis è vestito sempre allo stesso modo, t-shirt a righe strette di mille colori e giaccone a righe larghe di altri colori. Il suo look è vintage, démodé, come quello di tutti i personaggi. Siamo al giorno d’oggi, ma tutto è volutamente è piacevolmente fuori dal tempo. Così come la musica, che oscilla tra gli anni Ottanta e i giorni nostri. E poi c’è il mondo intorno, che non è la solita città, ma la campagna inglese. Tutto questo è un modo per rendere la storia più universale, adatta a raggiungere tutti. Tutte le latitudini del mondo, ma anche tutte le epoche. È un modo per dire che Otis e i suoi amici potremmo essere anche noi da giovani. Un motivo in più per voler bene a questi ragazzi. Che stavolta portano a compimento il loro romanzo di formazione.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
And Just Like That…2: Carrie, Miranda e Charlotte, un’amicizia che dura da 25 anni
Published
2 mesi agoon
4 Agosto 2023
Tiny Dancer di Elton John risuona nella prima scena della seconda stagione And Just Like That…, la serie che fa da seguito a Sex And The City, che sembrava un’estemporanea operazione nostalgia, e invece è già alla seconda stagione. La serie è in onda su Sky e in streaming su NOW da fine giugno, con un episodio alla settimana. Con l’ultimo che andrà in onda oggi, 4 agosto. Tiny Dancer risuona, ma non è la versione originale. È il remix recente, cantato da Elton John in duetto con Dua Lipa. Segno che tutto viene reinventato, tutto si rilegge e si riscrive. Tiny Dancer è diventata una canzone dance a 50 anni dalla sua nascita. La famosa rubrica di Carrie Bradshaw è diventata un podcast. E Sex And The City, a 25 anni dalla prima messa in onda, invece, che cosa è diventata? Cerchiamo di scoprirlo.
Carrie Bradshaw (Sarah Jessica Parker), che nella prima stagione di And Just Like That… era alle prese con il doloroso lutto per la scomparsa di Big, l’amore della sua vita, ha un nuovo compagno, Franklin, il produttore del suo podcast. Passato il lutto, sembra voler riprendere a vivere. Miranda (Cynthia Nixon) ha una relazione con una donna, Che Diaz (Sara Ramírez, la dottoressa Callie Torres di Grey’s Anatomy) e sembra davvero rinata a nuova vita. Charlotte (Kristin Davis) è la solita Charlotte, e la ritroviamo alle prese con il suo matrimonio e le sue figlie. Accanto a loro, And Just Like That… ha introdotto dei nuovi personaggi. Seema (Sarita Choudhury, l’attrice che aveva esordito nel 1991 nel film di Mira Nair Mississippi Masala) è l’agente immobiliare incaricata di vendere l’appartamento di Carrie e John. Lisa (Nicole Ari Parker) è una nuova amica di Charlotte. Con i nuovi personaggi, la serie cogliendo l’occasione di includere una quota di personaggi di origini afroamericane e asiatiche nella storia, di essere inclusiva e di rappresentare tutte le etnie. Già questo è un segno dei tempi. Venticinque anni fa la serie non si poneva problemi di questo tipo.
Il tempo è passato, ma forse non troppo. Le ragazze, in fondo, non sembrano essere davvero invecchiate. Il segno del tempo si nota, certo, su qualche ruga, su qualche morbidezza del fisico. Ma sì, le ragazze sono ancora fantastiche. Sono brillanti, a loro agio, molto più in questa serie che nei film di Sex And The City, che erano destinati al cinema e che in qualche modo tradivano lo spirito della serie, puntando un po’ troppo sulla comicità. Ognuna sembra essere a proprio agio con la propria età e con il proprio corpo. Su tutte, la Miranda di Cynthia Nixon sembra essere a suo agio con il nudo, il che non è affatto scontato. È un piacere vederle tutte insieme. Anche se, come potete immaginare, la mancanza di Samantha si sente ancora.
Il problema di Sex And The City è che le tre ragazze portano con sé un vissuto, un’amicizia di 25 anni. Amicizia tra loro, ma anche con noi. E, quando in scena ci sono loro, va tutto bene. Con i nuovi personaggi non è lo stesso e non ci riesce proprio di affezionarci. Ma non dipende solo dal tempo passato con Carrie, Charlotte e Samantha. È che i nuovi personaggi non ci sembrano disegnati così bene, né per quanto riguarda la scrittura, né per le interpreti. Va detto che il confronto con tre (o quattro, se includiamo Samantha) icone della serialità televisiva non sarebbe facile per nessuno. Un altro aspetto della serie è che il modo in cui parla di sesso, in modo un po’ trasgressivo, ma comunque rassicurante, era rivoluzionario in tv trent’anni fa. Adesso se non è la norma, ci siamo quasi.
D’altro canto, è interessante vedere come questa serie racconta la sessualità e le relazioni di alcune donne mature, quel ricominciare la propria vita a sessant’anni, dopo che la strada della propria esistenza sembrava già tracciata. La voglia di mettersi in gioco è la stessa di quando erano trentenni. Ma ci si butta nelle relazioni in maniera più cauta. Quello che And Just Like That… ci vuole dire che quello che serve a ogni relazione è il bisogno costante di parlarsi, aprirsi, chiarire le cose. Proprio perché si è persone adulte è meglio tirare tutto fuori e non lasciare niente di intentato.
Sex And The City è stato sempre anche moda. Manolo Blanik, Jimmy Choo, Oscar De La Renta e chi più ne ha più ne metta. Il primo episodio della seconda stagione ci porta dritti entro un appuntamento chiave della moda, il famoso MET Gala, quello a cui ognuno partecipa con i vestiti più strani. E così vedremo le nostre amiche preparare il loro look in modo che sia il più possibile ad effetto. L’abito da fine Ottocento, ma con i colori accesi, e una profonda scollatura di Charlotte. E poi l’abito costruito su misura per Carrie da una giovane stilista, che però ha qualche intoppo. Sì, capita che bisogni anche aspettare sei ore per indossare un abito. E che poi di debba utilizzare un vestito diverso. E convertire il proprio dolore in moda. Carrie Bradshaw è capace di fare anche questo. Sì, lei e le ragazze sono sempre loro.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
Black Mirror 6: Che cosa guarderemo, e come, su quello schermo nero?
Published
3 mesi agoon
16 Giugno 2023
Che cosa fareste se un giorno, davanti alla tv, vi capitasse di aprire Netflix e di trovare una serie che nel titolo ha il vostro nome e che parla proprio di voi, della vostra vita, anche se nella finzione avete il volto di una star di Hollywood? È lo spunto, inquietante, di Joan Is Awful, il primo dei cinque episodi che compongono la stagione 6 di Black Mirror, la serie cult di Charlie Brooker che da anni ci mette davanti a uno specchio e ci racconta il nostro rapporto con la tecnologia per dirci chi siamo e che cosa siamo diventati oggi. La nuova stagione è disponibile dal 15 giugno su Netflix. In occasione di questa nuova stagione, Netflix riflette su se stessa: al centro dei primi episodi, infatti, c’è Streamberry, una piattaforma di streaming che è in tutto e per tutto simile a lei, e che può arrivare a fare cose molto preoccupanti. È un modo per ragionare sulla società dei contenuti consumati avidamente on demand, dei contenuti costruiti ad hoc per ogni target. Oggi ogni contenuto è creato ad arte per gruppi precisi di persone. Domani sarà confezionato per ogni singola persona? Tutta la stagione 6 di Black Mirror sembra essere una riflessione sulle immagini e sul loro senso nella nostra vita di oggi, sul nostro rapporto con esse. Dalle immagini in alta definizione a cui assistiamo comodamente in streaming ogni giorno alle immagini di repertorio, in bassa definizione, che possono custodire la memoria, e forse svelare la verità. Dalle immagini fotografiche rubate, quelle che entrano in quella che dovrebbe essere la vita privata delle persone, ma che la loro fama rende pubblica, fino alle prime immagini che, dalla notte dei tempi, venivano usate per riprodurre la realtà, cioè i dipinti. Ma anche all’immagine che, da sempre, rappresenta la nostra identità, cioè il nostro volto: e se, per una volta, non la rappresentasse? Black Mirror ci racconta tutto questo attraverso 5 episodi, ognuno di genere diverso: la satira, il thriller, la fantascienza distopica, l’horror sovrannaturale e l’horror classico. Generi diversi, stesso messaggio. Da non perdere.
Joan Is Awful: attenzione a termini e condizioni…
Che cosa vuol dire sentirsi la protagonista della propria vita? A Joan (Annie Murphy, bravissima) capita letteralmente. Joan lavora in una grande compagnia hi-tech, dove è la persona che deve comunicare a chi viene licenziato la brutta notizia. Ha una storia finita che non si è lasciata del tutto alle spalle, Mac, e una storia in corso, con Krish. Un giorno, guardando con lui la tv su una piattaforma, che si chiama Streamberry ma è del tutto uguale a Netflix, trova una serie che si chiama Joan Is Awful, Joan è terribile. La protagonista, interpretata da Salma Hayek, ha gli stessi capelli. E sembra vivere in tutto e per tutto la sua vita. Già è imbarazzante per sé vedersi rappresentata sullo schermo. Ma il vero problema è che tutti hanno Streamberry, e tutti vedono ogni cosa fa Joan. È come essere in un acquario, in un Truman Show. Ma come è possibile? Lo scoprirete. Ma fate attenzione ai termini e condizioni che accettate ogni volta che vi iscrivete ad una app… Joan Is Awful è un racconto inquietante, e attualissimo, che diventa un vorticoso gioco di scatole cinesi in cui la percezione naufraga e non sappiamo più cosa è reale e cosa no. E in cui Netflix fa ironia su se stessa. “Hanno preso 100 anni di cinema e li hanno ridotti a una misera app”.
Loch Henry: rinvangare un passato torbido
Anche qui al centro della storia c’è la serialità televisiva, la piattaforma Streamberry, e un produttore di documentari, Historik. Tutto nasce dalla storia di un ragazzo, che da Londra torna nel paesino dove è nato con la sua nuova compagna, per girare un documentario lì vicino. Un amico racconta loro la storia di Iain Adair, un folle che sequestrava le persone e le torturava. La ragazza crede che il loro film dovrebbe parlare di questo, e che debba essere qualcosa che possa essere visto da tante persone. Ma è giusto rinvangare un passato torbido? È giusto riportare alla luce qualcosa che fa così male? Quando è il caso di fermarsi? Oggi che tutti vedono le immagini ad alta definizione, che senso hanno le immagini delle vecchie vhs? Sono sgranate, ma sono la memoria storica; sono imperfette, ma sono legate chiaramente a un’epoca. La riflessione sul mezzo e sui linguaggi è la base di partenza di quello che diventa un thriller, un horror “found footage”, una di quelle storie dove il Male si annida proprio dove non si crede. E poi svolta di nuovo verso una satira tagliente e beffarda sul limite che deve porsi chi racconta le storie. Nel cast c’è John Hannah, l’attore di Sliding Doors e La mummia.
Beyond The Sea: siamo uomini o replicanti?
Siamo in un 1969 alternativo e due astronauti, dalle vite idilliache, sono impegnati in una missione nello spazio. A casa ci sono le loro mogli, i loro figli e… Beyond The Sea è un racconto dal respiro più ampio, più lento e compassato, dove le sorprese sono dietro a ogni angolo. È una riflessione sull’essere umano e la possibilità di replicarlo, che va dritta alla fantascienza distopica di Philip K. Dick e del Blade Runner di Ridley Scott e continuata in decine di libri e film. Che cosa accrebbe se avessimo una replica di noi stessi (un link, così lo chiamano) che ci permetta di essere da un’altra parte, con chi conosciamo, con la nostra mente e un corpo simile al nostro? E se, a un certo punto, potessimo invece “indossare” il corpo di un’altra persona? Beyond The Sea è un vero e proprio film (80 minuti) con il ritmo di un lungometraggio. È fatto di sorprese, e di alcuni esiti prevedibili, e ha un cast di gran classe. Il protagonista è Josh Hartnett, che 25 anni fa era un divo in pectore di Hollywood, e che oggi, invecchiato benissimo, è ancora affascinante e sempre più espressivo. E poi ci sono la Kate Mara di House Of Cards e l’Aaron Paul di Breaking Bad e di Westworld.
Mazey Day: agire o scattare?
È un viaggio indietro nel tempo anche quello di Mazey Day, ma non così tanto. Torniamo a 17 anni fa, ai tempi della relazione tra Tom Cruise e Katie Holmes, e della nascita della figlia Suri. È la radio, in sottofondo, a raccontarcelo, e ci immerge immediatamente in un’epoca. Sono gli anni in cui l’iPod è l’oggetto di culto. Una fotografa (Zazie Beetz) scatta una foto compromettente a un attore che cambia la sua vita e anche quella della sua compagna. La cosa ha dei risvolti anche sulla fotografa che ha scattato la foto, e ora si vede assegnare l’incarico di “paparazzare” un’attrice, Mazey Day, che sta affrontando una fase di riabilitazione. Anche questo episodio è una riflessione sulle immagini – in questo caso le fotografie – e sulla loro capacità di rendere la realtà, e di influire sulla vita delle persone. In un episodio che, a sorpresa, svolta verso l’horror soprannaturale, la riflessione è comunque importante: nel momento del pericolo, che si tratti di aiutare qualcuno o di scappare, il dilemma è: agire o riprendere/scattare? La risposta, nella società dell’immagine, è scontata.
Demon 79: che horror l’Inghilterra degli anni Settanta
Demon 79, quinto e ultimo episodio di Black Mirror 6, è un altro viaggio nel passato: dai caratteri dei titoli di testa, alle immagini di quel colore tenue, tra il grigio e il marrone, con quelle imperfezioni tipiche della pellicola, veniamo trasportati in un horror degli anni Settanta. Al centro della storia c’è una ragazza di origine asiatica che lavora in un grande magazzino di abbigliamento. Siamo alla viglia delle elezioni che consacreranno Margaret Thatcher come nuova premier, e un nuovo leader conservatore sta per salire al potere. La comparsa di un demone offre a quella ragazza l’occasione di uccidere… L’horror classico è la forma di un racconto che diventa metafora politica, e che ci vuole dire come la salita al potere dei conservatori in Gran Bretagna sia stata un orrore. Forse ci vogliono dire che lo è anche oggi, con la Brexit e tutto il resto? Demon 79 è un classico horror anni Settanta, ma gioca sul genere con ironia, con un demone che ha l’aspetto di una disco star anni Settanta e la musica di Boney M, Abba, Madness e Boomtown Rats.
Cosa guarderemo in futuro?
Stiamo guardando Black Mirror comodamente in streaming, ma non siamo così tranquilli, perché ci interroghiamo su quale sarà il futuro delle nostre visioni. E ci immaginiamo contenuti unici e fatti su misura per ognuno degli iscritti alla piattaforma, opere visive che si generano automaticamente grazie ai computer quantistici e ai dati e i consensi che concediamo. Ci aspettano infiniti contenuti generati artificialmente, con buona pace della creatività, di sceneggiatori e attori. In quel primo episodio, Joan Is Awful, metanarrativo, Netflix riflette su se stessa, sullo stato dell’arte, su come la tecnologia possa cambiare la creatività. Anche Loch Henry è una riflessione sul lavoro creativo di chi fa film e serie, e su quello che la gente vuole vedere, sul fare prodotti per una nicchia ristretta o per un pubblico sempre più ampio, i famosi 190 paesi. A proposito di metanarrazione, attenzione al riferimento a San Junipero.
Le novelle e la loro epifania
Black Mirror è una serie affascinante non solo per i temi che affronta e per il tono, che è sempre inquietante come quello di un thriller ma tagliente e beffard come quello di una pagina satirica. È affascinante anche per la sua struttura narrativa, che è quella letteraria di una raccolta di novelle. Come tali vivono sempre di un’epifania, uno svelamento che dà il senso a tutto il racconto breve. Così si assiste a ogni episodio di Black Mirror in attesa di questa epifania. In questi anni abbiamo sempre visto Black Mirror come una serie che ha ridefinito gli standard della serialità, come punto di riferimento per la qualità della narrazione e anche per la maturità della riflessione sul futuro. “Sembra un episodio di Black Mirror” abbiamo sempre detto, come se fosse un complimento. Ecco, gli episodi di Black Mirror sono qui, finalmente. E sono da non perdere.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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