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Il complotto contro l’America. E se gli Usa non avessero combattuto Hitler? Su Sky Atlantic e NOW TV

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Cosa sarebbe accaduto se, nel 1940, l’America non fosse entrata in guerra per contrastare la Germania nazista di Adolf Hitler? Probabilmente oggi vivremmo tutti in un altro mondo. Per capire come una cosa simile sarebbe potuta accadere, ora arriva in Italia l’ucronia de Il complotto contro l’America, serie tv firmata HBO tratta dal capolavoro omonimo di Philip Roth. A firmarla sono gli autori di The Wire David Simon ed Ed Burns. L’appuntamento è dal 24 luglio su Sky Atlantic e NOW TV con una programmazione speciale. Dalle 21.15 di venerdì 24 infatti verranno trasmessi, uno dopo l’altro, tutti i sei episodi della serie, disponibili dalle 6.00 del mattino anche on demand. A partire dalla settimana successiva, ogni venerdì alle 21.15 su Sky Atlantic e NOW TV andranno in onda due episodi. Il 25 e 26 luglio, inoltre, il canale 111 darà una maratona non-stop della serie.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di ucronia? È una storia alternativa, o fantastoria, basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale. È un genere di racconto molto in voga oggi: l’abbiamo vista di recente in Hollywood, la serie Netflix che immaginava che gli anni Quaranta degli studios della Mecca del cinema fossero diventati molto più aperti nei confronti delle minoranze. Ma sono meravigliose ucronie anche quelle di Quentin Tarantino, Bastardi senza gloria e il recente C’era una volta a… Hollywood, che hanno immaginato che il cinema avesse cambiato la storia, sconfiggendo Hitler e salvando Sharon Tate.

Ne Il complotto contro l’America l’ucronia si fonde con la distopia. Siamo nel 1940, la Seconda Guerra Mondiale sta deflagrando l’Europa, e si immagina che in America Franklin Delano Roosevelt venga sconfitto alle elezioni presidenziali del 1940 da Charles Lindbergh, il famoso aviatore ed eroe nazionale, ma anche noto per le sue posizioni razziste e antisemite e le sue simpatie per Hitler. La storia di Roth prende il via da questo incubo, e lo filtra con una serie di spunti autobiografici. Tutto viene visto dall’ottica dei Levin, una famiglia ebrea di Newark, New Jersey. Con la vittoria di Lindbergh delle elezioni presidenziali, i Levin si troveranno ad affrontare le conseguenze dei violenti e sconvolgenti cambiamenti politici che ne deriveranno: la casalinga Elizabeth “Bess” Levin (interpretata da Zoe Kazan), che teme per il futuro della sua famiglia, cercherà di proteggerla in ogni modo, mentre la sorella maggiore, Evelyn Finkel (Winona Ryder), inizierà a frequentare Lionel Bengelsdorf (John Turturro), un rabbino conservatore che diventerà una figura chiave dell’emergente amministrazione Lindbergh.

Il complotto contro l’America viaggia indietro nel tempo, ma è molto attuale. La figura di Charles Lindbergh che vediamo nella serie anticipa quelli che sarebbero stati i politici del nostro tempo: populisti, persone che parlano per slogan semplici che arrivano alla pancia (“la scelta non è tra Charles Lindberg e Frnaklin Delano Roosvelt, ma è tra Charles Lindberg e la guerra”, che ripete a ogni uscita pubblica), persone che fanno strada più per la loro notorietà, il loro passato che per le reali capacità. Charles Lindberg è un eroe, è elegante, è slanciato, ma non è difficile vedere in lui qualcosa di Donald Trump. Ma l’attualità è anche sul dibattito sulla guerra. Quante volte i presidenti americani si sono trovati, dopo la Seconda Guerra Mondiale, davanti alla scelta tra entrare in guerra e restarne fuori? Vietnam, Guerra del Golfo, Afghanistan, Iraq sono state guerre in cui l’amministrazione americana ha mandato a morire migliaia di giovani, tra mille critiche, in patria e in tutto il mondo. Qui, Lindbergh e il rabbino Bengelsdorf fanno leva proprio su questo, sul non mandare al macello tanti giovani per una guerra che non è la loro. Solo che lo fanno per quella che forse è stata l’ultima guerra giusta combattuta dagli Stati Uniti d’America. E lo fanno per i loro fini.

David Simon ed Ed Burns, per raccontare una storia così attuale, scelgono una confezione orgogliosamente vintage, scelgono una patina d’antan che ricopre tutte le immagini per farci capire chiaramente che stiamo vivendo in quegli anni Quaranta. La fotografia ammanta le immagini di una patina dorata, o seppiata, che, unita a scenografie e costumi, rende il salto indietro nel tempo perfetto. A queste immagini si alternano continuamente, insistentemente, le immagini di repertorio della guerra, in bianco e nero, reali, impietose, per non farci mai scordare che cosa sta accadendo in Europa, il pericolo che sta portando il nazismo. L’espediente è quello di farcele vedere attraverso i cinegiornali che, all’epoca, venivano trasmessi nei cinema e che, per i protagonisti, accanto alla radio sono il modo principale per informarsi. La documentazione di quello che accade in Europa ci mette alcuni giorni per arrivare in America, essere montata e proiettata nei cinema. E anche questa è un’ulteriore riflessione e un confronto con i nostri tempi, dove una notizia, per volare attraverso la rete, impiega a volte alcune frazioni di secondo.

Storia potente, raccontata con un impianto classico e privo di fronzoli, Il complotto conto l’America è anche un film di attori, Winona Ryder (che, dopo Stranger Things, sta vivendo grazie alle serie tv una nuova fase della sua carriera) è perfetta nel ruolo di una donna insicura e propensa agli innamoramenti, per le persone come per le idee politiche, ed è anche incantevole inguainata negli abiti anni Quaranta. Zoe Kazan (che abbiamo ammirato in The Deuce) riesce ad essere una donna fragile e forte allo stesso tempo. John Turturro, che interpreta il rabbino Bengelsdorf, non ha più bisogno di commenti: il suo volto sembra sempre lo stesso, eppure riesce a regalare ogni volta personaggi nuovi, sfaccettati, intensi. Il suo rabbino rappresenta la naturalezza e la semplicità con cui il Male, a volte, entra nelle nostre vite. Il complotto conto l’America è una serie da vedere. È un incubo nel quale sprofondare, per poi svegliarsi e capire che, in fondo, siamo fortunati a vivere nel mondo in cui viviamo.

Images: (courtesy of HBO)

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Serie TV

Fallout: Se la catastrofe nucleare è un (video)gioco… e una serie, su Prime Video

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L’inizio di Fallout, la nuova serie Prime Video, è – letteralmente – esplosivo.  Siamo in un mondo in cui sembra tutto tranquillo, idilliaco. Siamo negli anni Cinquanta, in America, in quell’atmosfera inconfondibile, patinata. È una festa di compleanno per bambini, dove l’attrazione è stata un cowboy con il suo cavallo. Ogni cosa sembra perfettamente tranquilla, ideale. Se non fosse che c’è una strana inquietudine che traspare da un programma tv. “Come posso fare le previsioni per la prossima settimana, se non so se ci sarà una prossima settimana?” esclama lo speaker delle previsioni del tempo. Fuori, quel cowboy e la sua bambina si chiedono se stia per accadere un’esplosione. “Dicono che devi guardare il pollice” dice il padre. “Se la nuvola è più piccola devi correre oltre le colline. Se è più grande, non occorre che ti preoccupi di correre”. “Il tuo pollice o il mio?” chiede la bambina. Ma il papà non ha tempo di rispondere. L’esplosione avviene prima negli occhi di chi sta guardando, e poi nei nostri, come in Oppeheimer. È un fungo atomico, che si alza altissimo nel cielo. È enorme. E inarrestabile. Ma è solo l’inizio.

La storia di Fallout inizia 219 anni dopo. L’umanità esiste ancora, non si è estinta. Vive nei “vault”, dei rifugi sotterranei, fatti di cunicoli, dove prova a condurre una vita normale. E a riprodurre quella vita tranquilla dell’America del 1950. Ma si fa presto a dire una vita normale. Si sente il suono di allarmi, sirene, rumori meccanici. E, lì sopra, c’è il mondo reale. Lucy, la protagonista, sta per sposarsi. Ha l’abito bianco, il padre la accompagna all’altare. Ma non conosce chi andrà a sposare….

Fallout è basata sul popolarissimo franchise di videogiochi retro-futuristici. Gli esperti in materia videoludica hanno accolto con grande entusiasmo la serie, che è stata definita uno dei migliori adattamenti da videogame mai realizzati. Il videogame è stato adattato per lo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy, i creatori della serie cult Westworld. In comune con Westworld Fallout ha molte cose. È una storia che guarda al futuro, ma anche al passato (retro-futuristica, appunto, come il gioco), con un contrasto che, nello spettatore, crea un cortocircuito, ma anche curiosità e interesse. È una storia di esseri che cercano la loro anima, la loro speranza, in un mondo arido e desertificato, nella forma come nei valori.

Quello che a prima vista colpisce in Fallout è lo scenario. Se ci pensate, i racconti post-apocalittici, post-atomici, distopici, sono tutti permeati di toni – di racconto e di colori – cupi, plumbei, desolati. In Fallout la desolazione prossima ventura c’è, e non potrebbe essere altrimenti. Ma accanto ci sono i colori accesi delle tute, la patina anni Cinquanta e Sessanta, un’ironia e un dark humour che rendono tutto molto particolare e inaspettato. La musica dei Fifties e dei Sixties contribuisce a creare l’atmosfera e a fare da contrasto. Sentire la musica di Johnny Cash, la sua voce baritonale, le chitarre country-blues in un’azione ambientata nel futuro, e in una scena molto violenta, quella di un pestaggio, spiazza lo spettatore. E, sì, funziona.

Al centro di questo mondo originale ci sono gli attori, corpi che devono essere in grado di trasformare le creature in pixel del videogioco in esseri in carne ed ossa. In questo senso, Ella Purnell, nei panni della protagonista Lucy, è perfetta. La ricordiamo nel ruolo di Jackie nella serie Yellowjackets, ma è una vera veterana (è stata nel cast di Non lasciarmi e Maleficent, interpretando la versione giovane dei personaggi di Keira Knightley e Angelina Jolie). La Lucy di Ella Purnell ha degli occhi enormi, sgranati, un viso regolare. Sembra davvero disegnata da un computer come se fosse davvero fatta di pixel. Accanto a lei, nel ruolo del padre, c’è Kyle MacLachlan, l’indimenticato agente Dale Cooper di Twin Peaks. Uno che di atmosfere misteriose (ma, in fondo, anche ironiche e surreali) se ne intende. Qui ci sembra in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e da tempo non lo vedevamo così a fuoco in un personaggio. Nel cast ci sono anche Walton Goggins (The Hateful Eight), Sarita Choudhury (Homeland) e Michael Emerson (Lost e Person of Interest). Di più non possiamo raccontarvi per non guastarvi la sorpresa. Fallout è una serie che va vista. Che siate amanti dei videogame o meno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Il giovane Berlusconi – dall’11 aprile su Netflix

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Un racconto vero, ironico, controverso, ricco di archivi e storie mai raccontate prima: le testimonianze di uomini e donne che, per motivi diversi, hanno conosciuto Silvio Berlusconi, dagli esordi degli anni ‘70, da Milano 2 all’invenzione della TV commerciale fino alla discesa in campo.

Dentro gli archivi iconici e inediti, e tra le testimonianze dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi – personaggi noti, ma anche tecnici, autori, pubblicitari, figure chiave che hanno contribuito al suo successo personale e a quello della sua televisione – e di coloro che lo hanno avversato e criticato.

Un racconto avvincente, dietro le quinte dell’impresa culturale che ha cambiato il costume e i consumi di intere generazioni, prima in Italia e poi in tutta Europa, la TV commerciale: “Il giovane Berlusconi” arriva in streaming dall’11 aprile, in Italia su Netflix e a seguire in molti altri paesi partendo da Francia, Germania e Austria dove verrà trasmesso da ZDF Arte e ORF.

La docuserie è una produzione B&B Film in coproduzione con la società di produzione tedesca Gebreuder Beetz Filmproduktion e con l’emittente franco tedesca ZDF Arte, co-finanziata dalla Regione Lazio (Lazio Cinema International), dal programma Media di Europa Creativa, realizzata anche grazie al Tax Credit del MiC.

La docuserie – composta da tre episodi – tratta del successo di Silvio Berlusconi dai suoi esordi come imprenditore all’invenzione della televisione commerciale alla metà degli anni ’70 fino alle elezioni politiche del ’94.

Figlio del boom economico dei primi anni ’60, Silvio Berlusconi si lancia, come molti in quegli anni, nel business dell’edilizia. Realizza Milano 2, una new town avveniristica immersa nel verde, dove per evitare la selva delle antenne sui tetti, si progetta, per la prima volta in Italia, la cablatura di tutta la cittadina con il cavo coassiale. Ed è così che, nel 1974, in un sottoscala nasce una televisione al servizio dei residenti che possono seguire la messa, le riunioni di condominio, le attività sportive dei propri figli e la pubblicità del negoziante sotto casa. Nessuno avrebbe immaginato che da lì a poco la televisione condominiale di TeleMilanoCavo si sarebbe trasformata in uno dei più grandi gruppi televisivi privati europei.

La situazione delle emittenti private a metà degli anni ’70 è paragonabile a un “mucchio selvaggio” e Berlusconi fiuta l’affare: la televisione privata è il business del futuro. Vuole dei programmi vivaci, colorati, ma al tempo stesso rassicuranti, e la pubblicità deve esserne l’anima. Il monopolio della Rai viene aggirato dal cosiddetto “pizzone” di Berlusconi, un nastro registrato con programmi e pubblicità che viene consegnato a tutte le emittenti, sparse lungo il territorio nazionale, affiliate con Canale5, che ha ormai sostituito TeleMilano. Con questo escamotage rudimentale quanto geniale, una piccola televisione locale di Milano riesce a far sentire la sua voce in tutta Italia e a vendere tanta, tantissima, pubblicità.

E così, durante la coda sanguinosa degli anni di piombo Berlusconi fa sognare i telespettatori, raccontando un’Italia che ancora non esiste, ma che si paleserà da lì a poco. Intere generazioni crescono davanti ai teleschermi del gruppo Fininvest, che mandano in onda telequiz, soap opera, telefilm americani, cartoni animati giapponesi, calcio, programmi comici.

Berlusconi parla al consumatore e agli inserzionisti, mentre la TV di Stato si rivolge al cittadino: da questo momento i confini tra i due mondi si faranno più labili, la comunicazione berlusconiana plasma un pubblico nuovo, che presto diventerà elettorato. E non si ferma: per tutti gli anni ’80 l’impero di Berlusconi cresce così a dismisura, inglobando, oltre alle televisioni e alla pubblicità, anche l’editoria, giornali, riviste, assicurazioni, banche, catene di negozi e una squadra di calcio, l’AC Milan, rendendo ancora più popolare la sua immagine di imprenditore di successo.

La docuserie racconta la straordinaria storia di una delle più famose e controverse personalità europee. Tre puntate della durata di 50’ ciascuna, nessun narratore, ma un cast selezionato di testimoni, capaci di confidenze e aneddoti inediti. Un racconto vero, sincero, emotivamente coinvolgente, ricco di storie mai raccontate prima. Oltre alle interviste, la serie è costituita da materiale di repertorio, in parte inedito o raro.

Divertente, sorprendente, ironica: la serie usa la musica, gli archivi e i racconti personali come elementi chiave di una storia di grande impatto visivo, con una forte costruzione drammaturgica, una scrittura capace di raccontare cos’è stato Berlusconi non solo al pubblico italiano, ma anche agli spettatori internazionali.

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Antonia: Chiara Martegiani, le donne dolcemente complicate e l’attitudine punk… Su Prime Video

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Siamo così, è difficile spiegare, certe giornate amare, lascia stare…” Era una canzone che cantava Fiorella Mannoia, si chiamava Quello che le donne non dicono e – anche se l’aveva scritta un uomo, Enrico Ruggeri – raccontava benissimo le donne e quel loro essere “dolcemente complicate”. Quella canzone ci è venuta in mente guardando Antonia, la nuova serie con Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea, diretta da Chiara Malta, in streaming su Prime Video dal 4 marzo, proprio perché riesce a raccontarci davvero bene le donne di oggi. E perché riesce a farlo in modo inedito, non allineato. Racconta le trentenni di oggi, e quei momenti in cui capita loro di sentirsi in crisi, di non sapere in che direzione andare. E anche una malattia come l’endometriosi, poco conosciuta, ma che colpisce davvero tante donne. È una serie tachicardica, ritmata, spassosa, e anche dolorosa, che si candida ad essere una delle serie italiane dell’anno. Da non perdere assolutamente.

Antonia (Chiara Martegiani), dopo aver lasciato la sua famiglia poco più che adolescente, ha trovato una sorta di equilibrio a Roma, una giungla urbana ed emotiva perfetta per integrarsi senza dover fornire troppe spiegazioni. Antonia fa l’attrice (in realtà, una comparsa parlante…) in una soap opera, ha un compagno comprensivo, Manfredi (Valerio Mastandrea), e una coppia di amici che ha appena avuto una bambina. Ma, al suo 33esimo compleanno, il suo piano di difesa fallisce: litiga con tutti, viene licenziata e finisce in ospedale, dove scopre di avere l’endometriosi, malattia cronica che, senza che Antonia se ne rendesse conto, ha influenzato tutta la sua vita. Attraverso uno strano percorso di psicoterapia, la scoperta della malattia diventerà però un’occasione per conoscersi e smettere di scappare, iniziando ad affrontare i nodi della sua vita.

Chiara Martegiani, anche autrice della serie insieme a a Elisa Casseri e Carlotta Corradi, tra scrittura e interpretazione riesce a disegnare un ritratto di donna memorabile. Antonia è urticante, scontrosa, insopportabile. Eppure, a suo modo, è adorabile, irresistibile. E poi capiamo ben presto che un motivo perché è così ce l’ha. Per il suo taglio, la sua irriverenza, lo sguardo ironico al femminile, Antonia, ancor prima dell’uscita, è stata definita subito la Fleabag italiana. Ma confessiamo che abbiamo provato subito molta più empatia con Chiara Martegiani e la sua Antonia che con la fredda Phoebe Waller-Bridge.

Labbra rosso Coca-Cola, come diceva un’altra canzone, occhi neri enormi, vispi e caldi, Antonia ha un viso che buca lo schermo e un corpo che lo riempie e detta la linea del film. Antonia ha le gambe lunghissime, l’andatura disordinata e dinoccolata. La sua falcata nervosa e veloce detta il ritmo della serie, che è fremente e indiavolato. La regista Chiara Malta ha scelto di mettere la macchina da presa costantemente su di lei e di costruire il ritratto di una donna scassata, non performante. Ha preso una palla di spugna e l’messa sotto la macchina da presa per dare questo senso di instabilità all’inquadratura, che è l’instabilità della vita di Antonia.

Valerio Mastandrea, compagno di Chiara Martegiani nella vita oltre che sul set, è Manfredi, e porta in scena tutto lo spleen tragicomico che è in grado di dare ai suoi personaggi, il suo lavoro di sottrazione, l’ennesima sfumatura del tipo di uomo che ha raccontato per tutta la sua carriera. Nel ritratto di Manfredi si legge il bisogno di raccontare maschi che di solito non si raccontano, maschi fragili che nella loro fragilità trovano la loro sicurezza. Come faceva, già 40 anni fa, il grande Massimo Troisi. Nel casto ci sono anche Chiara Caselli, la madre problematica di Antonia, Emanuele Linfatti, nel ruolo di Michele, uno sconosciuto che diventa amico di Antonia, Tiziano Menichelli, che dà il volto a Nico, il figlio di Manfredi, e Hildegard Lena Kuhlenberg, che è Gertrud, la pittoresca agente di Antonia che vive perennemente nel passato. Ma a conquistarci sono soprattutto Leonardo Lidi e Barbara Chichiarelli: sono Marco e Radiosa, una coppia che ha appena avuto una bambina. E sono anche loro in crisi, ma di un altro tipo.

Il personaggio di Antonia, lo vedrete, diventerà iconico. Il vestito nero con il colletto bianco e le spalle scoperte è già un cult. Così come il look da uomo, con giacca, camicia e una sottile cravatta scura. O ancora, il giubbino di jeans smanicato, anni Ottanta, con le spalline larghissime, portato con dei pantaloni della tuta in acetato. Nel look, come nel suo muoversi, nel reagire, nel suo essere Antonia sembra avere un’attitudine punk. Come recita il titolo della nota pagina Facebook, “adottare soluzioni punk per sopravvivere” potrebbe essere il sottotitolo della serie.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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