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Hollywood. Netflix ci racconta la mecca del cinema, com’era e come sarebbe potuta essere…

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Chiedi chi era Peg Entwistle. Hollywood, la nuova miniserie originale Netflix ideata e prodotta da Ryan Murphy e Ian Brennan, disponibile dal 1° maggio, ruota intorno a questa figura. Peg Entwistle era un’attrice inglese che nel 1932, a 24 anni, si tolse la vita gettandosi dalla prima lettera della scritta gigante che campeggia sopra le colline di Hollywood, che allora era Hollywoodland. È un fatto tragico, e incredibilmente simbolico per come è avvenuto. È come dire che il mondo di Hollywood, scintillante e magniloquente visto dall’esterno, visto da vicino, sotto l’apparenza, vive anche di drammi. Uno su mille ce la fa, canterebbe Gianni Morandi. Peg Entwistle è il simbolo di chi non ce l’ha fatta. E al centro di Hollywood c’è Peg, un immaginario film ispirato proprio alla sua storia.

Hollywood racconta la storia di un gruppo di aspiranti attori e registi che cerca a qualsiasi costo di sfondare nella Hollywood del secondo dopoguerra. Jack (David Corenswet) è un ex soldato che arriva a Hollwood con la moglie incinta, convinto che basti un bel volto per sfondare, ma si trova a lavorare in una pompa di benzina, che non è altro che una copertura per un’attività di gigolo. La stessa dove capita Archie (Jeremy Pope), sceneggiatore afroamericano e gay che sta scrivendo il film Peg. Il regista del film potrebbe essere Raymond (Darren Criss), e la sua ragazza Camille (Laura Harrier) potrebbe aspirare al ruolo di protagonista.

Ma non è così facile. Perché Camille è afroamericana e, nella Hollywood di quegli anni, non è previsto che faccia la protagonista, ma solo parti di cameriera e domestica. Perché anche Archie è nero, e uno sceneggiatore come lui può solo scrivere i film per i neri. E se fa un film “per tutti”, il suo nome deve scomparire dalle locandine. Perché se dovesse uscire un film con protagonista un’afroamericana tutti i cinema degli stati del sud lo boicotterebbero. E perché un attore gay non può nemmeno essere preso in considerazione: non solo dovrà nascondere la sua natura, ma anche cambiare nome, e scegliere un nome più da macho, come Rock Hudson. Proprio Rock Hudson (Jake Picking) è un personaggio reale, la cui storia è incastonata tra quella di personaggi immaginari. Ogni personaggio, in Hollywood, è simbolico: mette in evidenza gli ingiusti favoritismi che hanno caratterizzato quel periodo, le discriminazioni basate sul colore della pelle, sul genere e sulle preferenze sessuali. Ma Ryan Murphy immagina che, in quel momento, prenda vita una Hollywood diversa, guidata dalle donne, da persone di buon senso e coraggiose. E che abbia la forza di abbattere gli steccati, di rompere gli schemi. La Hollywood che avrebbe dovuto essere, che forse è, o potrebbe essere, quella di oggi.

Ma Rock Hudson non è il solo appiglio alla vera Hollywood di quel tempo. La serie di Ryan Murphy prende a piene mani da quell’immaginario, mettendo in scena Vivien Leigh, Cole Porter, George Cukor, o evocando Alfred Hitchcock e David O. Selznick, a volte anche un po’ forzatamente, quasi a voler dire: siamo proprio in quel mondo. Hollywood si appoggia su una grande ricostruzione storica, con una superficie laccata e quella luce inconfondibile della California, con i colori pastello e i toni caldi degli anni Quaranta, come ce li immaginiamo (perché le immagini dei film, quando li vediamo realizzati, sono in bianco e nero). La serie di Ryan Murphy vive della fascinazione che, da sempre, il mondo di Hollywood, automaticamente evoca: siano gli anni Quaranta di Viale del tramonto, gli anni Sessanta di C’era una volta a… Hollywood, i giorni nostri di La La Land, Hollywood è sempre un luogo mitico, aureo, fuori dallo spazio e dal tempo. E il luogo dove si creano i sogni. E dove altri sogni naufragano.

Vedere Hollywood sotto questa nuova luce che le getta addosso Ryan Murphy, è allo stesso tempo stimolante e straniante.

Lascia un po’ spiazzati, attoniti, quel tono costantemente sopra le righe, esagitato, che si trova costantemente sul limite di sfociare nella farsa, a volte fermandosi prima, a volte cadendoci dentro. Hollywood ha un andamento jazzato, vola leggero al ritmo del jazz e dello swing anni Quaranta (che a volte danno vita a una colonna sonora fin troppo invasiva). Ma non è un tono che serve a far ridere, con battute o situazioni, quanto piuttosto a provare a dare leggerezza a dei temi che sarebbero piuttosto duri, come razzismo, omofobia, emarginazione.  Per capirci, non siamo dalle parti di The Marvellous Mrs. Meisel, una serie che, parlando di comicità, punta dichiaratamente sul sorriso, per sottintendere poi una serie di altri temi. Qui, per dare un registro brillante alla storia, sarebbe servita una scrittura più arguta, un po’ alla Woody Allen, per condire il racconto con battute più sagaci. Perché il racconto, nel suo sviluppo e nei dialoghi, ha una struttura piuttosto didascalica: spiega fin troppo chiaramente quali siano i problemi, quali le istanze in ballo, e altrettanto semplicemente trova gli escamotage per risolverli.

Hollywood è un racconto particolare già dal suo episodio pilota che, a differenza di quello che accade normalmente, indugia per una buona mezz’ora su un solo personaggio, il protagonista Jack, per poi tirare dentro gli altri personaggi con una sorta di struttura a catena, in cui ognuno è legato a un altro e lo introduce nella storia. In questo modo, la serie stenta un po’ a decollare, indugiando sul gossip, e sulle relazioni sentimentali e sessuali, esagerando nei toni. Per poi riprendersi quando entra nel vivo, quando si parla della materia cinema, si entra dietro le quinte del film in lavorazione. Il cinema nel cinema, da Effetto notte di Truffaut a C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, è sempre entusiasmante, perché ci mostra la materia di cui sono fatti i nostri sogni. E perché Hollywood, al di là della messinscena, ha cose importanti da dire. Cioè che chi fa cinema, come e forse più di chi si dedica alle altre arti, ha il compito di provare a cambiare le cose, ad anticipare la società, a spronarla. Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee, American Horror Story) da sempre attento ai giovani e ai diritti degli omosessuali, ci parla di una Hollywood e di quei tempi per dirci che produttori e artisti devono avere quel coraggio anche oggi. È curioso che a raccontare questa storia sia Netflix: il maggior produttore di tv in streaming celebra il cinema. Il che vuol dire almeno tre cose. Primo, che il cinema è arte, è storia, e senza il cinema non ci sarebbero nemmeno Netflix e i colossi dello streaming. Secondo, che a loro volta anche realtà come queste possono raccontare grandi storie, e il dualismo tra cinema e tv on line non ha più senso di esistere. Terzo, che forse oggi il mondo delle serie tv diffuse in streaming è più coraggioso e più avanti delle major del cinema. E che il cambiamento possa partire da qui.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Serie TV

La vita bugiarda degli adulti. Non ti scordare di Napoli e degli Anni Novanta… Su Netflix

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“Nun te scurda’, nun te scurda’. Nun te scurda’ pecché sta vita se ne va. Nun te scurda’ maje ‘e te”. Inizia con la musica degli Almamegretta, e la voce insinuante di Raiz, La vita bugiarda degli adulti, la nuova serie in 6 episodi prodotta da Fandango e tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, edito da Edizioni E/O, disponibile in streaming su Netflix il 4 gennaio. Nell’onirica sequenza di apertura, che vede la giovane protagonista fluttuare nell’acqua, come in un meccanismo di purificazione, di passaggio, di metamorfosi, ascoltiamo una canzone che è in grado di portarci subito in un mondo, di darci le coordinate, di dirci dove siamo. E siamo proprio dove crediamo di essere: Napoli, anni Novanta. È qui che si svolgono le avventure di Giovanna, e il suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

Tutto ha inizio un giorno, quando Giovanna sente i suoi genitori parlare di lei. “Sta mettendo la faccia di Vittoria”. Il che, nel loro gergo, vuol dire che sta diventando brutta, arrabbiata. Vittoria è la zia di Giovanna, la sorella del padre, con cui ha interrotto i rapporti da anni. Giovanna non ha mai conosciuto la zia. E, passato il dispiacere per quello che le è stato detto, comincia a provare curiosità per la figura di Vittoria. E chiede ai genitori di poterla incontrare. La ricerca di un nuovo volto, dopo quello felice dell’infanzia, oscilla tra due Napoli diverse: la Napoli di sopra, quella dalla maschera fine, e quella di sotto, che si finge smodata, triviale. Giovanna così oscilla tra alto e basso.

Come vi abbiamo detto all’inizio, quello che colpisce subito, ne La vita bugiarda degli adulti, è la cornice anni Novanta che il regista, Edoardo De Angelis (anche sceneggiatore insieme a Elena Ferrante, Laura Paolucci e Francesco Piccolo) riesce a costruire intorno alla storia. Il libro di Elena Ferrante, pur ambientato in quel periodo, lascia un po’ fuori le sensazioni legate all’ambiente e al periodo, concentrandosi molto sulla storia, i rapporti, l’interiorità di Giovanna. Il libro è scritto in prima persona, e spesso c’è il monologo interiore della protagonista. De Angelis invece ci mostra anche tutto quello che c’era intorno. E allora ascoltiamo gli Almamegretta, i Bisca, i 99 Posse, artisti che hanno segnato Napoli – e tutta la scena musicale italiana, e dire il vero – in quegli anni Novanta musicalmente indimenticabili. E con loro ci sono i centri sociali, che in quegli anni facevano cultura.

E poi c’è il Tutto Città. Che ci fa tenerezza, oggi che per qualsiasi cosa usiamo in navigatori sui nostri smartphone. Ma è importante anche per un altro motivo. Il Tutto Città è una mappa, un modo per orientarsi, per scoprire zone della città in cui non si è mai stati. E tutta questa avventura, in fondo, è una mappa, un percorso a alla scoperta di sé, della Giovanna che non lei stessa ancora non conosce. Un percorso fatto di svolte, curve, di discese. E in questo senso è bellissima quella sequenza, quella corsa in motorino che si svolge dall’alto verso il basso, in una serie gironi danteschi giù dalla collina del Vomero. Una discesa che non è una discesa agli inferi, ma nelle viscere di una città, in un cuore pulsante di vita. Che diventa un viaggio dentro di sé, alla scoperta di un io più profondo. Forse il suo vero io, forse una parte di sé che c’era, ma che ancora non sapeva di avere.

Gli interni borghesi, caldi, consueti, un po’ banali della casa di Giovanna sono quelli che ricordiamo degli anni Novanta, e anche degli Ottanta. Sono quelli delle atmosfere del libro, che sono ricostruite alla perfezione. Quello che De Angelis aggiunge, che nel libro non c’è, è la musica, intesa non come sottofondo, ma come scena culturale, come segno sei tempi. E poi aggiunge anche la vita di Giovanna fuori dalla famiglia, le amiche e i centri sociali, la scuola, le strade della città.

La protagonista, Giordana Marengo, è più bella di come la immaginiamo leggendo il libro. Anche se non abbiamo mai creduto alle parole “ha messo la faccia di Vittoria” e, anche leggendo il libro non l’abbiamo mai immaginata brutta, ci figuravamo Giovanna con dei tratti spigolosi, con un modo di essere brusco, scontroso. Giordana Marengo ha un viso molto bello. Ma, per fortuna, lo è in maniera insolita, fuori dalle mode e dal tempo, da ogni somiglianza. I capelli corti, gli zigomi alti, la forma del viso allungato.  E poi quegli occhi verdi, quello sguardo penetrante. La sua Giovanna è interessante ed enigmatica.

Vittoria, evocata per tutto l’inizio della storia, arriva piuttosto presto, dopo mezz’ora del primo episodio. La regia non ce la mostra subito. Con una piccola ellissi, ci fa vedere Giovanna uscire dalla sua casa. Poi ritorna subito indietro, nei suoi ricordi, e ci racconta come è andato quell’incontro. Anche Vittoria è molto più bella di come appare nel libro. Ci mancherebbe, direte: a interpretarla è Valeria Golino. De Angelis è bravo a “sporcarla” un po’ quella bellezza, con un trucco un po’ pesante, i capelli arruffati, con un abbigliamento che smorza l’eleganza della Golino. Lei ci mette la scontrosità, movenze che contrastano con la sua grazia. E crea un personaggio credibile. Gli occhi verdi, poi, sono il legame naturale, l’affinità elettiva con la nipote Giovanna, e con Giordana Marengo.

Così come De Angelis è bravissimo a “sporcare” anche l’immagine. Il sopra e il sotto di Napoli sono girati rispettivamente al Vomero e a Poggioreale. Ed è soprattutto quest’ultimo aspetto, a colpire. Come aveva fatto nel suo film Indivisibili, De Angelis è bravissimo ad accentuare il degrado e le ferite di certi ambienti. In questo modo, il contrasto tra alto e basso è più accentuato rispetto al libro. La serie di De Angelis segue il libro ma aggiunge molto. È un viaggio nell’interiorità di una persona, ma anche in un’epoca, in un sogno. Tocca il privato, ma anche il pubblico, la politica, la religione. Per tutti questi motivi La vita bugiarda degli adulti è una serie da vedere.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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The Crown 5: Elizabeth Debicki, Lady Diana nella terra di nessuno

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Nessuno ti spiega come sarà essere separati. È una strana terra di nessuno. O meglio di nessuna. Non sei sposata né single. Né una reale né una del popolo. Una di quelle donne mitologiche metà donne metà uccelli”. La confessione di Lady Diana Spencer, interpretata da Elizabeth Debicki, arriva, struggente, nell’episodio 7 (Nella terra di nessuno) di The Crown 5, la quinta e penultima stagione della serie Netflix, disponibile dal 9 novembre. La serie racconta la storia della Regina Elisabetta II e della Famiglia Reale, dall’ascesa al trono ai primi anni Duemila. Ci sono molti motivi per vedere oggi la serie: la scomparsa recente della Regina Elisabetta, che rende la visione di The Crown più emotiva del solito, ma anche la storia dolorosa di Lady Diana Spencer, una principessa per cui la favola non è andata a finire con il classico “e vissero tutti felici e contenti”. Dopo averci presentato una giovane Diana nella stagione 4, la stagione 5 arriva agli anni Novanta, quelli del divorzio con il Principe Carlo e della fiera di gossip, confessioni e ripicche che hanno portato la Corona sull’orlo del precipizio. Ed è della storia di Diana che vogliamo parlarvi qui.

Mentre la Regina Elisabetta II (Imelda Staunton) riflette su un regno che ha incluso nove primi ministri, l’avvento della televisione per le masse e il tramonto dell’Impero britannico, e sulle nuove sfide si delineano all’orizzonte, il Principe Carlo (Dominic West) spinge la madre ad acconsentire al divorzio con Diana (Elizabeth Debicki), gettando le basi per una crisi costituzionale della Monarchia. La vita sempre più separata tra marito e moglie alimenta numerosi pettegolezzi. Quando lo scrutinio dei media si intensifica, Diana decide di prendere il controllo della situazione e infrange le regole familiari pubblicando un libro che minaccia il sostegno di Carlo da parte dell’opinione pubblica. Mentre entra in scena Mohamed Al Fayed (Salim Daw) che sfrutta il patrimonio e il potere che si è guadagnato da solo per ottenere un posto alla tavola reale per lui e per il figlio Dodi (Khalid Abdalla). Come saprete, le storie di Dodi e Diana si incroceranno. Ma questo lo vedremo nella prossima stagione.

Lady Diana è interpretata da una straordinaria Elizebeth Debicki, che porta in scena in maniera impressionante ogni aspetto della “Principessa del Popolo”. A cominciare da quel mondo tutto particolare di tenere il capo inclinato e di lanciare così quello sguardo tagliente, laterale, un po’ obliquo, dal basso verso l’alto. Quel modo di sorridere, di muovere la bocca, di salutare con la mano aperta, sono i suoi. E poi i capelli, il fisico, gli abiti che hanno fatto la storia. come quel famoso tubino nero che lasciava le spalle scoperte. Sembra davvero di vedere la vera Diana, anzi forse una Diana più reale e potente di quella vera. Il sex appeal di Elizabeth Debicki è naturale e notevole, lo sa chi l’ha vista in Tenet di Christopher Nolan. E proprio grazie a questo l’attrice riesce a rende Diana affascinante, ammaliante, amabile come risultava a tutti quelli che le stavano vicino, e che noi, da lontano forse non riuscivamo a cogliere. Elizabeth Debicki è una Diana iperrealista, che riesce a trasmetterci l’aura della Principessa più ancora delle immagini che arrivavano a noi a noi trent’anni fa.

Una delle chiavi di The Crown 5 è proprio questa. Perché The Crown, che da quattro stagioni ricostruisce in modo sontuoso le vicende dei reali inglesi partendo dagli anni Quaranta, è arrivata, se non ai giorni nostri, molto vicino. Quegli anni Novanta sono stati raccontati ampiamente da immagini televisive, fotografiche, da libri e film, che hanno già dato una loro versione della storia. Quella di Peter Morgan e del suo team diventa allora una sfida con la contemporaneità. Ed è una sfida che viene vinta. Tutti ricordiamo di aver visto le librerie tappezzate dalle copertine del libro Diana: Her True Story di Andrew Morton, il primo che squarciava il velo di Maya, raccontano la vera vita della principessa. Qui capiamo come è nato il libro, con una serie di nastri registrati passati di nascosto al giornalista senza che, ufficialmente, i due avessero mai avuto contatti. E capiamo anche tutto il percorso che ha portato alla famosa intervista di Diana alla BBC, che fece scalpore, e che qui è ricostruita riproducendo le esatte immagini di quel video. In The Crown 5 c’è una grande attenzione a riprodurre fedelmente le immagini che conosciamo e, allo stesso tempo, a viaggiare dentro le dinamiche che hanno portato a quelle immagini e quei racconti. Peter Morgan e i suoi sceneggiatori riescono nella non facile impresa di farci rivivere quegli anni riuscendo a dirci di più, svelando ancora molte cose che non sappiamo. È un lavoro davvero magistrale.

Viviamo così gli amori di Diana, come il medico Hasnat Han, un uomo normale incontrato, per caso, in un ospedale, un uomo dalla vita troppo da comune mortale per continuare a vivere accanto a Diana. E, partendo da molto lontano, The Crown 5 ci prepara a quello che forse non è stato il più grande amore di Diana, ma lo è stato sicuramente a livello mediatico: Dodi Al Fayed. La stagione 5 si chiude proprio mentre sta per iniziare la loro storia, dopo che tutta la stagione ci ha raccontato l’ascesa del padre, il magnate di origine egiziana Mohamed Al Fayed. Se in questa stagione, e la prossima, il racconto si incrocia con quello di Diana – La storia segreta di Lady D, il film del 2013 con protagonista Naomi Watts, nella prossima si incrocerà anche con The Queen, il magnifico film di Stephen Frears, scritto sempre da Peter Morgan, che inizia proprio dalla scomparsa di Diana in quella tragica notte a Parigi. E sarà interessante vedere come Morgan ci racconterà la storia stavolta.

In The Crown 5 è riuscito a farlo in modo molto originale. Se dell’episodio 7 vi abbiamo detto, ci ha colpito anche l’episodio 9, intitolato Coppia 31. Il titolo nasce dalla giornata in cui, in sede legale, viene sancito il divorzio. E Carlo e Diana, quel giorno, sono semplicemente la “coppia 31”, e il loro caso viene esaminato dopo che altre trenta coppie si sono divise. Raccontato con luci livide, con una messinscena scarna, l’episodio passa in rassegna tante storie di gente comune. Da un lato, per contrasto, stridono con i privilegi dei Principi del Galles. Dall’altro, ci fa capire come, in fondo, l’infelicità non risparmi nessuno, nobile o non nobile. Anche i ricchi piangono, come recitava il titolo di quella serie. La Regina Elisabetta (una grande Imelda Staunton), commenterà così. “Che tristezza. Il più grande a acclamato matrimonio della storia che finisce così”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Paper Girls: Lo Stranger Things al femminile è su Prime Video

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4.27. Hell Day. The End Of The Wolrd As We Know It. Inizia con questa didascalia, che ci riporta subito agli anni Ottanta e una canzone dei R.E.M. Paper Girls, la nuova serie disponibile in streaming su Prime Video dal 29 luglio. È mattino, molto presto, è ancora buio, il sole non è ancora sorto. Nell’aria risuona la musica dei New Order, la bellissima Age Of Consent, ed è qualcosa che ti mette già sulla strada giusta, ti fa sentire un’atmosfera e ti inserisce subito in un’epoca. Vedere una ragazzina che prende un walkman e indossa le cuffiette, si mette a cavallo di una bicicletta ti fa capire in che mondo sei, in che anni, in che tipo di cinema. E Paper Girls è una di quelle serie che viaggiano tra gli anni Ottanta, tendenza in gran voga, e i nostri giorni.

Paper Girls è la storia di quattro ragazze, Erin, Mac, Tiffany e KJ, che, al mattino presto, fanno uno di quei lavori iconici e romantici che non esistono più: distribuiscono i giornali porta a porta. È la mattina dopo la notte di Halloween del 1988, una giornata che già di per sé mette paura. Ma accade qualcosa che metterà loro davvero paura. Le quattro si troveranno coinvolte in un conflitto tra fazioni rivali di viaggiatori nel tempo che cambierà le loro vite per sempre. Si troveranno infatti ai giorni nostri, e incontrano le donne che sono diventate ora. E dovranno trovare il modo per tornare indietro nel tempo.

La prima impressione che si ha vedendo Paper Girls è che anche Prime Video abbia voluto fare il suo Stranger Things. Già dal momento in cui vediamo le ragazze spostarsi con le loro biciclette, con la mente andiamo immediatamente alla serie dei Duffer Broters e, ovviamente, anche ai film che quel prodotto lo hanno ispirato, come E.T. e I Goonies. Però negli anni Ottanta, e in fondo fino a qualche anno fa, perché Stranger Things è una serie relativamente recente, non avremmo mai visto una serie di questo tipo, sull’ amicizia nella preadolescenza, perché sarebbe stata fatta sempre al maschile. Ci sono infatti decine di film di questo tipo in cui al centro ci sono sempre un gruppo di ragazzini. Il fatto di aver scelto quattro giovani protagoniste è un segno dei tempi. E lo è anche perché le ragazze non sono quelle che avremmo visto in un film anni Ottanta. Le nostre protagoniste sono toste, tengono testa ai bulli maschi, lavorano, sono molto consapevoli di sé. Paper Girls è uno di quei prodotti in cui si racconta un’altra epoca attualizzandola alla sensibilità dei tempi che stiamo vivendo. I personaggi principali sono disegnati bene, e le scelte di casting sono eccellenti. Il risultato è l’immediata simpatia che proviamo per queste ragazzine, e, conseguenza, l’empatia con loro.

I caratteri delle quattro, ovviamente, sono molto diversi fa loro. C’è la ragazza che si veste e si comporta in modo più maschile, la leader del gruppo. C’è la ragazza afroamericana e quella di origini cinesi che, come potete immaginare, è vittima di discriminazione. E c’è la più tenera del gruppo, dai capelli ricci e l’aria più timida. La storia è tratta da una serie di libri a fumetti, scritta da Brian K. Vaughan e illustrata da Cliff Chiang, che è stata pubblicata dal 2015 al 2019. È qualcosa che, guardando la serie, si sente, a partire dal font con cui appare il titolo della serie durante i titoli di testa, per arrivare a un certo tono generale del racconto. Un fumetto di questo tipo si presta bene a una trasposizione in serie tv.

Sono i sovietici” dice uno dei personaggi quando tutto si fa all’improvviso pericoloso, e il cielo è ricoperto da un’inquietante luce rossa. Ed è un’altra cosa che ci riporta all’atmosfera di quegli anni. Così come quando vediamo apparire una sinistra immagine di Ronald Reagan. Un incubo? Un messaggio dal futuro?  Paper Girls è leggermente spostato più sulla fantascienza che verso l’horror e il fantasy come Stranger Things. Si parla di viaggi nel tempo, un altro grande classico degli anni Ottanta (vedi Ritorno al futuro e Terminator). Certo, si tratta di un prodotto che, al di là dell’ispirazione che trae linfa dallo stesso terreno, rispetto a Stranger Things denota un impianto meno ambizioso e più ingenuo, a livello si budget, di effetti speciali (vedi la parte dedicata ai viaggiatori nel tempo) ma anche in qualche modo di script. È una serie piacevole che scorre veloce, un prodotto di intrattenimento comunque riuscito e non banale. Poi, se chiudi il primo episodio con Hazy Shade Of Winter di Simon & Garfunkel, nella versione delle Bangles (c’era anche in Stranger Things, certo) vuol dire che vuoi proprio colpirci al cuore.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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