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1994. Dopo 1992 e 1993, la serie Sky racconta la restaurazione

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La Storia si ripete, ciclicamente, e ricade sempre negli stessi schemi. Dopo la Rivoluzione viene il Terrore. E infine la Restaurazione. Ed è questa che racconta – dopo le brillanti stagioni di 1992 e 1993 – 1994, la serie tv in onda su Sky Atlantic dal 6 ottobre, nata da un’idea di Stefano Accorsi e scritta magistralmente da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, per la regia di Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce. 1994 tira le fila del racconto, fa arrivare tutti i nodi al pettine, è il compimento di tutto quello a cui abbiamo assistito in 1992 e 1993. Come scrivevamo due anni fa, assistere al terzo capitolo della trilogia è come vedere l’episodio III di Star Wars. Se nel terzo film della trilogia prequel di George Lucas, alla fine, compariva finalmente quel Darth Vader che avevamo seguito evolversi nei primi due episodi, 1994, il terzo atto del racconto sugli anni che hanno cambiato l’Italia, è finalmente il momento dell’ascesa di Silvio Berlusconi e di Forza Italia, che nei primi due capitoli avevamo visto prima come un’idea, e poi come una forza che stava nascendo.

E il Silvio Berlusconi di Paolo Pierobon è ora un protagonista assoluto della serie, non solo uno dei personaggi reali che, nell’economia della serie, rimanevano sullo sfondo rispetto ai personaggi di finzione che stavano sul proscenio. Silvio Berlusconi è un mattatore, è uno dei personaggi più importanti: lo vedremo nel famoso faccia a faccia televisivo contro Achille Occhetto prima delle elezioni del 1994, elezioni che cominciò a vincere proprio in quello studio; lo vedremo in Costa Smeralda, nel famoso incontro dell’agosto 1994, quando incontrerà Umberto Bossi, il famoso Bossi ritratto in canottiera bianca, per tenere in vita il suo governo. Accanto a loro ci saranno, da un lato, il Leo Notte di Stefano Accorsi, diventato il braccio destro di Berlusconi, e il Pietro Bosco di Umberto Caprino, sottosegretario agli interni leghista, che proverà a ricordare al suo capo la vera natura della Lega. È sempre in quel momento – raccontato dall’episodio 5 – che arriverà in Sardegna l’altra grande protagonista di 1994, Veronica Castello, la bellissima Miriam Leone, che non è più la donna dei politici, ma una politica, visto che ormai ha una carica in Parlamento.

È proprio guardando questi personaggi che si può capire la grandezza di una serie come 1994. Prima di tutto perché, a differenza di altre serie, che tendono a mantenere il più possibile gli stessi personaggi e a dosare le loro storie, questa non ha paura di abbandonare personaggi come il Luca Pastore di Domenico Diele e la Bibi Mainaghi di Tea Falco, e di portare in primo piano, come personaggi a tutto tondo e non solo come riferimenti storici, caratteri come Silvio Berlusconi. E poi perché la scrittura eccezionale di Sardo, Rampoldi e Fabbri ne fa dei personaggi a tutto tondo, allo stesso tempo vividi e reali, ma anche simbolici e paradigmatici di un certo modo di vivere dei nostri anni, di certe tipologie di italiani. Il Berlusconi di Pierobon è forse il miglior Cavaliere che abbiamo visto sui nostri schermi, reale, concreto, incisivo: è lontano dalle imitazioni e le semplificazioni dei tre Berlusconi de Il caimano, ma anche dalla caricatura, seppur geniale, di Servillo in Loro. Non è disegnato con un pregiudizio, o perché serva a rafforzare una tesi, non è mostrato con un’ottica di parte: è raffigurato per essere lui, per riuscire a raccontare, in modo freddo, che cos’è stato per l’Italia. Accanto a lui trova il suo posto naturale Leo Notte (Stefano Accorsi) personaggio chiave della serie, un altro carattere costruito in maniera geniale. Fare di un pubblicitario il protagonista assoluto di una serie che ha a che fare con la politica, da un lato, permette di costruire un personaggio degno di quelli americani, un po’ il Don Draper di Mad Men, un po’ il Patrick Bateman di American Psycho di Bret Easton Ellis. E, dall’altro, di svelare quello che è stata Forza Italia e l’ascesa politica di Berlusconi: la più grande operazione di marketing mai vista, come scrive Giuseppe Gagliardi nelle note di regia.

In questo senso, sono fondamentali altri due personaggi della serie. Il Pietro Bosco di Guido Caprino è un politico della Lega, uno di quei militanti duri e puri che, condivisibile o no, almeno avevano un’idea, forse anche un’etica. Vedere oggi Pietro Bosco sullo schermo fa quasi tenerezza, e marca una distanza abissale tra la Lega degli albori e quella di oggi, quella di Matteo Salvini. Così, in Veronica Castello, che Miriam Leone porta sullo schermo con una bellezza quasi illegale, ma con un continuo senso di sconfitta e dolore che danno uno spessore unico al personaggio, troviamo il seme di molti personaggi della scena – politica e non – degli anni che verranno. La soubrette che, per la sua bellezza, diventa una politica, è l’archetipo delle Mara Carfagna e delle Nicole Minetti che sarebbero arrivate e, sebbene appartengano più al terzo Berlusconi (quello delle Olgettine e dello scandalo Ruby) che al primo, in 1994 ci sta benissimo. Anche perché, e qui il tono si fa più serio, il suo impegno per una legge contro la violenza sulle donne permette al personaggio di fare un salto, e anche di portarlo direttamente ai giorni nostri, visto che il tema è di stretta attualità.

Da tutto questo possiamo finalmente capire che cosa sia la trilogia 1992 – 1993 – 1994: non la serie su Tangentopoli, com’era stata un po’ troppo facilmente lanciata nel 2016, ma una serie sul Ventennio che ha cambiato l’Italia. È un film sull’ascesa di Berlusconi, sulla televisione e la politica che diventano una cosa sola, come prefigurato da Ennio Flaiano che negli anni Settanta diceva “Fra 30 anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la tv”. È una serie su come tutto questo ha cambiato gli italiani e come siamo diventati le persone che siamo oggi. E, in questo senso, tutti i personaggi che vivono 25 anni fa sono personaggi che potrebbero vivere nel nostro mondo. Anche Berlusconi, che c’è ancora. La nuova stagione, che chiude il trittico, ha una struttura diversa: non c’è più un racconto che segue i personaggi in montaggio alternato, ma una serie di episodi quasi monografici, con al centro un personaggio o un avvenimento storico preciso. Come l’incontro di Bossi e Berlusconi a Villa Certosa, che inizia con qualcuno che racconta la storia da morto, come in Viale del tramonto. E finisce con Black Hole Sun dei Soundgarden. Come se ci volesse dire che la politica è un buco nero che inghiotte tutto, sogni, speranze e ideali.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Serie TV

Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

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La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Fallout: Se la catastrofe nucleare è un (video)gioco… e una serie, su Prime Video

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L’inizio di Fallout, la nuova serie Prime Video, è – letteralmente – esplosivo.  Siamo in un mondo in cui sembra tutto tranquillo, idilliaco. Siamo negli anni Cinquanta, in America, in quell’atmosfera inconfondibile, patinata. È una festa di compleanno per bambini, dove l’attrazione è stata un cowboy con il suo cavallo. Ogni cosa sembra perfettamente tranquilla, ideale. Se non fosse che c’è una strana inquietudine che traspare da un programma tv. “Come posso fare le previsioni per la prossima settimana, se non so se ci sarà una prossima settimana?” esclama lo speaker delle previsioni del tempo. Fuori, quel cowboy e la sua bambina si chiedono se stia per accadere un’esplosione. “Dicono che devi guardare il pollice” dice il padre. “Se la nuvola è più piccola devi correre oltre le colline. Se è più grande, non occorre che ti preoccupi di correre”. “Il tuo pollice o il mio?” chiede la bambina. Ma il papà non ha tempo di rispondere. L’esplosione avviene prima negli occhi di chi sta guardando, e poi nei nostri, come in Oppeheimer. È un fungo atomico, che si alza altissimo nel cielo. È enorme. E inarrestabile. Ma è solo l’inizio.

La storia di Fallout inizia 219 anni dopo. L’umanità esiste ancora, non si è estinta. Vive nei “vault”, dei rifugi sotterranei, fatti di cunicoli, dove prova a condurre una vita normale. E a riprodurre quella vita tranquilla dell’America del 1950. Ma si fa presto a dire una vita normale. Si sente il suono di allarmi, sirene, rumori meccanici. E, lì sopra, c’è il mondo reale. Lucy, la protagonista, sta per sposarsi. Ha l’abito bianco, il padre la accompagna all’altare. Ma non conosce chi andrà a sposare….

Fallout è basata sul popolarissimo franchise di videogiochi retro-futuristici. Gli esperti in materia videoludica hanno accolto con grande entusiasmo la serie, che è stata definita uno dei migliori adattamenti da videogame mai realizzati. Il videogame è stato adattato per lo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy, i creatori della serie cult Westworld. In comune con Westworld Fallout ha molte cose. È una storia che guarda al futuro, ma anche al passato (retro-futuristica, appunto, come il gioco), con un contrasto che, nello spettatore, crea un cortocircuito, ma anche curiosità e interesse. È una storia di esseri che cercano la loro anima, la loro speranza, in un mondo arido e desertificato, nella forma come nei valori.

Quello che a prima vista colpisce in Fallout è lo scenario. Se ci pensate, i racconti post-apocalittici, post-atomici, distopici, sono tutti permeati di toni – di racconto e di colori – cupi, plumbei, desolati. In Fallout la desolazione prossima ventura c’è, e non potrebbe essere altrimenti. Ma accanto ci sono i colori accesi delle tute, la patina anni Cinquanta e Sessanta, un’ironia e un dark humour che rendono tutto molto particolare e inaspettato. La musica dei Fifties e dei Sixties contribuisce a creare l’atmosfera e a fare da contrasto. Sentire la musica di Johnny Cash, la sua voce baritonale, le chitarre country-blues in un’azione ambientata nel futuro, e in una scena molto violenta, quella di un pestaggio, spiazza lo spettatore. E, sì, funziona.

Al centro di questo mondo originale ci sono gli attori, corpi che devono essere in grado di trasformare le creature in pixel del videogioco in esseri in carne ed ossa. In questo senso, Ella Purnell, nei panni della protagonista Lucy, è perfetta. La ricordiamo nel ruolo di Jackie nella serie Yellowjackets, ma è una vera veterana (è stata nel cast di Non lasciarmi e Maleficent, interpretando la versione giovane dei personaggi di Keira Knightley e Angelina Jolie). La Lucy di Ella Purnell ha degli occhi enormi, sgranati, un viso regolare. Sembra davvero disegnata da un computer come se fosse davvero fatta di pixel. Accanto a lei, nel ruolo del padre, c’è Kyle MacLachlan, l’indimenticato agente Dale Cooper di Twin Peaks. Uno che di atmosfere misteriose (ma, in fondo, anche ironiche e surreali) se ne intende. Qui ci sembra in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e da tempo non lo vedevamo così a fuoco in un personaggio. Nel cast ci sono anche Walton Goggins (The Hateful Eight), Sarita Choudhury (Homeland) e Michael Emerson (Lost e Person of Interest). Di più non possiamo raccontarvi per non guastarvi la sorpresa. Fallout è una serie che va vista. Che siate amanti dei videogame o meno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Il giovane Berlusconi – dall’11 aprile su Netflix

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Un racconto vero, ironico, controverso, ricco di archivi e storie mai raccontate prima: le testimonianze di uomini e donne che, per motivi diversi, hanno conosciuto Silvio Berlusconi, dagli esordi degli anni ‘70, da Milano 2 all’invenzione della TV commerciale fino alla discesa in campo.

Dentro gli archivi iconici e inediti, e tra le testimonianze dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi – personaggi noti, ma anche tecnici, autori, pubblicitari, figure chiave che hanno contribuito al suo successo personale e a quello della sua televisione – e di coloro che lo hanno avversato e criticato.

Un racconto avvincente, dietro le quinte dell’impresa culturale che ha cambiato il costume e i consumi di intere generazioni, prima in Italia e poi in tutta Europa, la TV commerciale: “Il giovane Berlusconi” arriva in streaming dall’11 aprile, in Italia su Netflix e a seguire in molti altri paesi partendo da Francia, Germania e Austria dove verrà trasmesso da ZDF Arte e ORF.

La docuserie è una produzione B&B Film in coproduzione con la società di produzione tedesca Gebreuder Beetz Filmproduktion e con l’emittente franco tedesca ZDF Arte, co-finanziata dalla Regione Lazio (Lazio Cinema International), dal programma Media di Europa Creativa, realizzata anche grazie al Tax Credit del MiC.

La docuserie – composta da tre episodi – tratta del successo di Silvio Berlusconi dai suoi esordi come imprenditore all’invenzione della televisione commerciale alla metà degli anni ’70 fino alle elezioni politiche del ’94.

Figlio del boom economico dei primi anni ’60, Silvio Berlusconi si lancia, come molti in quegli anni, nel business dell’edilizia. Realizza Milano 2, una new town avveniristica immersa nel verde, dove per evitare la selva delle antenne sui tetti, si progetta, per la prima volta in Italia, la cablatura di tutta la cittadina con il cavo coassiale. Ed è così che, nel 1974, in un sottoscala nasce una televisione al servizio dei residenti che possono seguire la messa, le riunioni di condominio, le attività sportive dei propri figli e la pubblicità del negoziante sotto casa. Nessuno avrebbe immaginato che da lì a poco la televisione condominiale di TeleMilanoCavo si sarebbe trasformata in uno dei più grandi gruppi televisivi privati europei.

La situazione delle emittenti private a metà degli anni ’70 è paragonabile a un “mucchio selvaggio” e Berlusconi fiuta l’affare: la televisione privata è il business del futuro. Vuole dei programmi vivaci, colorati, ma al tempo stesso rassicuranti, e la pubblicità deve esserne l’anima. Il monopolio della Rai viene aggirato dal cosiddetto “pizzone” di Berlusconi, un nastro registrato con programmi e pubblicità che viene consegnato a tutte le emittenti, sparse lungo il territorio nazionale, affiliate con Canale5, che ha ormai sostituito TeleMilano. Con questo escamotage rudimentale quanto geniale, una piccola televisione locale di Milano riesce a far sentire la sua voce in tutta Italia e a vendere tanta, tantissima, pubblicità.

E così, durante la coda sanguinosa degli anni di piombo Berlusconi fa sognare i telespettatori, raccontando un’Italia che ancora non esiste, ma che si paleserà da lì a poco. Intere generazioni crescono davanti ai teleschermi del gruppo Fininvest, che mandano in onda telequiz, soap opera, telefilm americani, cartoni animati giapponesi, calcio, programmi comici.

Berlusconi parla al consumatore e agli inserzionisti, mentre la TV di Stato si rivolge al cittadino: da questo momento i confini tra i due mondi si faranno più labili, la comunicazione berlusconiana plasma un pubblico nuovo, che presto diventerà elettorato. E non si ferma: per tutti gli anni ’80 l’impero di Berlusconi cresce così a dismisura, inglobando, oltre alle televisioni e alla pubblicità, anche l’editoria, giornali, riviste, assicurazioni, banche, catene di negozi e una squadra di calcio, l’AC Milan, rendendo ancora più popolare la sua immagine di imprenditore di successo.

La docuserie racconta la straordinaria storia di una delle più famose e controverse personalità europee. Tre puntate della durata di 50’ ciascuna, nessun narratore, ma un cast selezionato di testimoni, capaci di confidenze e aneddoti inediti. Un racconto vero, sincero, emotivamente coinvolgente, ricco di storie mai raccontate prima. Oltre alle interviste, la serie è costituita da materiale di repertorio, in parte inedito o raro.

Divertente, sorprendente, ironica: la serie usa la musica, gli archivi e i racconti personali come elementi chiave di una storia di grande impatto visivo, con una forte costruzione drammaturgica, una scrittura capace di raccontare cos’è stato Berlusconi non solo al pubblico italiano, ma anche agli spettatori internazionali.

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