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Pillole Glamour – Venezia 76, quel Valentino che fa perdere la testa

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Continua a battere un po’ la fiacca il red carpet di questa Venezia 76. E, a parte qualche splendida eccezione come la madrina, tendenzialmente si continua a puntare a un low profile.
Continuano a spopolare i look al maschile, indossato ieri anche da Marriya Fomina e da Tatiana Delaunay. La prima in un classico ed elegante outfit total black, la seconda con un completo grigio XL molto molto (troppo) minimal.

C’è poi chi ce l’ha messa tutta ma, nel voler osare, ha mancato completamente il bersaglio come Mila Suarez

Un po’ meglio Ludovica Pagani in un total red con spacco profondo di Claudio Di Mari, ma con quel tacco a spillo e plateau proprio non ci siamo.

Kasia Smutniak Photo by Elisabetta Villa/Getty Images

La situazione non è certo migliorata con Patricia Contreras in Christophe Guillarmè, che sembrava uscita direttamente dal catalogo bride di Pronovias.

Decisamente su un altro livello Eliana Miglio, semplice ma elegante nel suo long dress rosa antico di Vivienne Westwood.

Alzata di posta con Maria Vittoria Paolillo in Blumarine (molto chic!), ma soprattutto con Laysla De Oliveira in un particolarissimo ed irriverente Reem Acra – bravissima!

Per finire, i migliori look della serata: Alessandra Mastronardi in un Elie Saab fatto di bellissime pietre e decorazioni incastonate, e Kasia Smutniak in un Valentino che… wooow, mozza davvero il fiato.

di Francesca Polici per DailyMood.it
Photo: @MatteoMignani

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May December: Natalie Portman, Julianne Moore e le vite degli altri

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“Every artist is a cannibal, every poet is a thief”. “Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro”. Così cantavano gli U2 in The Fly. Ed è questo quello che accade, alla fine, in May December, il nuovo film di Todd Haynes con Natalie Portman e Julianne Moore, presentato allo scorso Festival di Cannes e in uscita al cinema il 21 marzo, dopo una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Abbiamo usato queste parole perché il film di Todd Haynes è un moderno mélo, ma soprattutto una riflessione sul lavoro dell’attore e sul suo modo di avvicinarsi a un ruolo, una storia, una persona. In questo senso Natalie Portman è straordinaria e Julianne Moore è il suo perfetto specchio. E viceversa.

Rivivere uno scandalo

Elizabeth (Natalie Portman) è una famosa attrice, ed è intenzionata a realizzare un film sulla storia vera di una coppia, Gracie (Julianne Moore) e Joe (Charles Melton), la cui relazione clandestina aveva infiammato la stampa scandalistica e sconvolto gli Stati Uniti vent’anni prima. Gracie, già adulta e sposata con figli, aveva avuto una relazione con un dodicenne, e per questo era finita anche in carcere. La cosa sorprendente è che, una volta uscita, Gracie aveva sposato il ragazzo e avuto dei figli con lui. Per prepararsi al suo nuovo ruolo Elizabeth entrerà nella loro vita rischiando di metterla in crisi.

Né vergogna, né dubbi, né rimorsi. Ma…

Quello che colpisce Elizabeth, e anche noi, mentre il film procede, è l’estrema tranquillità nella vita di Gracie. È una normalità così cercata, e così ostentata, da risultare costruita. E che fa pensare al fatto che possa nascondere una serie di crepe profonde dietro la facciata lucida e patinata. “Non sembra mostrare alcun senso di vergogna, né dubbi, né rimorsi” dice di lei Elizabeth. Da un lato, la vita di Gracie sembra quella di una donna pacificata. Dall’altro c’è in lei un mistero, un rimosso, un non detto. Un senso di vergogna che è stato chiuso in un cassetto per poter continuare a vivere. Ma quel cassetto sarà aperto?

Natalie Portman, star e detective dell’anima  

Elizabeth, cioè Natalie Portman, in May December, ha un doppio ruolo. Da un lato è l’attrice, la diva, la star. Ma dall’altro è l’investigatrice. Per prepararsi al film, infatti, indaga, e questo fa sì che sia la nostra detective. Il film funziona come un’indagine, un giallo senza delitto e senza colpevoli, in cui cercare però l’anima dei personaggi e la verità dei fatti. Ed Elizabeth è il nostro punto di ingresso nella storia. È il narratore non onnisciente, colei che scopre le cose man mano che la storia va avanti e ce le racconta. Così, come in un romanzo di questo tipo, anche noi le scopriamo insieme a lei, a poco a poco.

Le vite degli altri

Per questo May December è un moderno mélo, come è nelle corde di Todd Haynes, ma è anche una riflessione sul lavoro dell’attore. Il lavoro dell’attore è indagine, è studio, è approfondimento. Ma, allo stesso tempo, è anche immedesimazione, è ingresso nella vita di qualcun altro, è rubare dei pezzi di un’esistenza. Ma quanto è necessario immedesimarsi in un ruolo? Fino a che punto è necessario diventare qualcun altro? Qual è il momento in cui bisogna fermarsi? E così ci chiediamo, man mano che il racconto procede, perché Elizabeth si immedesimi così tanto in Gracie, perché entri così tanto nella sua vita. Lo fa per il suo lavoro o per qualche altra ragione?

Sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo?

A proposito di lavoro dell’attore, May December spiega, come pochi altri film, quello che davvero accade ogni volta che un attore sul set affronta una scena di sesso. È ancora Natalie Portman, nei panni di Elizabeth, a raccontarlo, durante una lezione. Uno studente le chiede che cosa si provi, che cosa accada davvero sul set in quei momenti. E lei lo spiega, con una sincerità rara. All’inizio pensi al fatto che sia come una coreografia, con dei passi e delle mosse da seguire. Ma dopo essere stati ore e ore l’uno accanto all’altra, nudi, ti rendi conto che nasce un feeling, qualcosa che non diresti mai al tuo partner nella vita. E ti fa chiedere: sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo? E alla fine ti lasci andare al ritmo.

Natalie Portman e Julianne Moore, intimità allo specchio

A proposito del lavoro dell’attore, dell’immedesimazione, dell’intimità, c’è una scena in particolare che racchiude tutto il senso di May December. È quella in cui Elizabeth e Gracie, Natalie e Julianne, si trovano l’una di fronte all’altra, allo specchio, al trucco. Elizabeth cerca di diventare Gracie, e lei la aiuta. Entrambe fissano prima lo specchio e guardano in macchina, guardano verso di noi. Poi si girano l’una verso l’altra, di fonte, e Gracie trucca Elizabeth come se truccasse se stessa, le acconcia i capelli come li porta lei. E così, guardando la sua emula, è come se si guardasse a sua volta allo specchio, come se parlasse con se stessa. E si confida, si apre come non aveva ancora fatto prima.

Un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi

Il film è una sfida di bellezza e di bravura, un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi. Julianne Moore è in scena con i suoi colori tipici. I proverbiali capelli rossi qui sono schiariti e tendono al biondo. La pelle è chiarissima e lattiginosa, e le dona un’aria quasi nobile, insieme a un’aura di purezza, quella che Gracie vuole mantenere nella sua vita. Le labbra sottili sono fisse in un lieve e costante sorriso arcaico e un po’ forzato. I suoi occhi si stringono quando sorride. Ma quando il suo volto si scioglie finalmente in un pianto, con il volto arrossato, quando la torre d’avorio crolla, Julianne Moore è credibilissima, reale, palpabile.

Natalie Portman, gli occhi della curiosità

Natalie Portman ha la sua aura inconfondibile, la pelle diafana, il fisco tonico e minuto. A quarantadue anni è ancora un’eterna ragazzina, è ancora la Mathilda di Leon, è davvero cambiata pochissimo. Entra in scena con un leggerissimo abito di cotone bordeaux, i grandi occhiali da sole neri e un cappello di paglia a tesa larga. “Pulita, fresca”, la definiscono, ed è così. Le basta quel volto per conquistare. E invece Natalie Portman non è solo quello. È bravissima a mostrare imbarazzo con la sua bocca, con sorrisi un po’ forzati, con movimenti impercettibili dei muscoli facciali. Ma il centro di tutto sono i suoi occhi castani, da cerbiatto, pieni di luce, ma anche e soprattutto di curiosità. Ed è questa la chiave del suo personaggio, e del lavoro dell’attore in generale. I suoi occhi studiano, scrutano, entrano nelle vite degli altri. È allo stesso tempo contenuta e seducente.

Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro

Sì, ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro. Un attore è un artista e un poeta. Ed è così che fa Elizabeth. Alla fine ruba i segreti dell’altra donna, quelli che le sono stati concessi e quelli che non lo sono stati: fate attenzione a quella lettera che, a un certo punto, esce da quel cassetto. E così, insieme a quella scena allo specchio, tutto il film è anche in quel monologo in sottofinale, in cui guarda in macchina. E poi in quel finale, sul set, ormai con il trucco e l’abito di scena. Elizabeth, dopo aver vissuto anche troppo la vita del suo personaggio, la mette in scena. E vuole rifare la scena tre volte. Fino a che raggiunge la perfezione. Fino a che Elizabeth è Gracie. E fino a che Natalie Portman diventa così Julianne Moore. Un cortocircuito, un’attrice che si specchia in un’altra. Un gioco complicato e affascinante.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Notte degli Oscar – Il cinema, piano dopo piano

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L’omaggio di TK Elevator Italia in occasione dell’evento di assegnazione delle statuette d’oro

Li abbiamo visti chiudersi tante volte troppo in fretta, proprio quando i protagonisti ne avrebbero avuto immediato bisogno, scendere troppo rapidamente, oppure bloccarsi, dando inizio a scene impreviste e, in alcuni casi, imprevedibili. Stiamo parlando degli ascensori, i sistemi di mobilità più usati al mondo, che sono stati protagonisti di tante scene cult al cinema, spesso veri e propri espedienti narrativi utilizzati per favorire un certo sviluppo della trama.

Un “luogo” a cui spesso non facciamo caso, sebbene ci passiamo, in media ogni anno, 16 ore della nostra vita, ma che, se ci fermiamo a riflettere, ci fa venire sicuramente in mente una scena cult di qualche film.

In occasione degli Oscar, TK Elevator Italia vuole celebrare il più famoso premio cinematografico selezionando alcune scene di film candidati agli Oscar nel corso dei decenni ambientate in ascensore, che hanno raccontato alcuni aspetti e l’evoluzione di questo sistema di mobilità.

A partire da uno dei modelli più antichi, quelli dotati di fune: come l’ascensore utilizzato in Batman begins (il primo della trilogia del regista Christopher Nolan), azionato con una manopola, che porta in salvo Bruce Wayne e il maggiordomo Arthur, i quali riescono a fuggire appena in tempo dalla villa che sta andando a fuoco dopo l’attacco di Ra’s al Ghul, intenzionato a distruggere Gotham. Una scena che racconta la caduta metaforica del protagonista, vivo grazie all’intervento del maggiordomo, ma anche il rapporto speciale tra i due: “Perché cadiamo signore? Per imparare a rimetterci in piedi.”, afferma il vecchio Arthur.

Un modello, quello degli ascensori a fune che risale al 1852 e da oltre 170 anni è il sistema di trazione più diffuso e utilizzato, ma che solo in tempi recenti è stato reingegnerizzato e reso ancora più sicuro ed efficiente con la trazione a cinghia.

Anche in Grand Budapest Hotel, diretto da Wes Anderson e vincitore di 4 premi Oscar, l’atmosfera retrò dell’opera ha uno dei suoi fulcri narrativi proprio nell’ascensore rosso e d

otato di addetto, quel “Lobby boy” che diventa il confidente di Monsieur Gustave H, un po’ come succedeva anche in Pretty woman, film per il quale Julia Roberts ricevette la candidatura come migliore attrice protagonista.

Questa figura professionale, che era molto comune trovare sui primi ascensori manuali, poiché era necessario attivare la leva di manovra per portare il sistema al piano desiderato, oggi rimane solo in pochi luoghi, come hotel di lusso, anche se si tratta solo di un servizio aggiuntivo “di cortesia”, in quanto i sistemi oggi utilizzati, grazie all’automazione, non necessitano obbligatoriamente di questa presenza.

Proprio grazie all’automazione e ai progressi tecnologici, in tempi più recenti sono nati anche sistemi innovativi che, grazie all’intelligenza artificiale, permettono all’utente di selezionare il piano prima di accedere all’ascensore attraverso un totem (il cosiddetto destination dispatch), e applicazioni che permettono di chiamare l’ascensore al proprio piano. Una rivoluzione tecnologica ma anche sociale, che permette di risparmiare tempo e, a volte, anche di evitare interazioni con altre persone per sapere dove si stanno dirigendo. Una situazione non possibile negli anni ’80, all’epoca di un altro film da Oscar e assolutamente iconico come Ghostbusters, nella scena in cui un anziano signore si ritrova ad attendere l’ascensore insieme ai tre protagonisti in assetto da acchiappafantasmi, ma decide di aspettare il successivo per non salire con quelli che crede siano disinfestatori.

E come non pensare alla scena di Blade Runner, ambientato in un futuristico 2019, in cui Rick Deckard (Harrison Ford) sale al 97 piano per arrivare al proprio appartamento e viene sorpreso da Rachael, che vuole capire se è un’umana o una replicante. Un ascensore sicuramente particolare dal punto di vista tecnico, con un tastierino simile a quello del telefono (ha cifre singole e si può comporre il numero del piano desiderato) e dotato di riconoscimento vocale, ma che ha anche un’altra particolarità, che riguarda la velocità di ascesa. Si può stimare che per fare 97 piani in circa 20 secondi, l’ascensore si muova a circa 75 km/h, ovvero più rapidamente dell’attuale ascensore più veloce al mondo, installato in Cina, che raggiunge i 73 km/h.

Anche il nostro Paese può contare su un impianto ascensoristico particolarmente rapido ed è quello di TK Elevator Italia che si trova a Milano, nel palazzo di Regione Lombardia: potrebbe viaggiare a 10 metri al secondo (circa 40 km/h) ma per garantire maggior comfort ai passeggeri la velocità impostata è ridotta a 8 metri al secondo (circa 30 km/h).

Non è stato invece un ammodernamento tecnologico degli ascensori, ma un’innovazione introdotta nelle cabine per il comfort dei passeggeri, a rendere più leggera una scena di dolore in È stata la mano di Dio, candidato agli Oscar come miglior film straniero. Marriettello (Lino Musella) disegna, infatti, un disegnino osceno sullo specchio dell’ascensore per risollevare in qualche modo Maria (Teresa Saponangelo), che piange nella cabina per il tradimento del marito Saverio (Toni Servillo).

L’introduzione degli specchi negli ascensori ha preso il via alla fine del XIX secolo, essenzialmente per due motivi: per dare l’impressione che lo spazio della cabina sia più ampio e per permettere ai passeggeri di riuscire a vedere cosa avviene nell’ambiente attorno a sé. Un elemento che a uno sguardo meno attento può sembrare solo decorativo, ma che ha invece una grande importanza in termini di accessibilità: permette infatti a chi si muove in carrozzina, ad esempio, di entrare ed uscire con maggiore sicurezza e facilità, soprattutto negli ascensori dove sono già presenti altri passeggeri.

“Accessorio” che, invece, caratterizzava gli ascensori di un tempo ed oggi non esiste più in Italia era il pulsante di “stop”, abolito per legge nel 1999 per motivi di sicurezza: questi tasti potevano essere facilmente abusati o utilizzati in modo non sicuro da parte dei passeggeri, causando disagi o mettendo in pericolo gli altri utenti. Proprio lo stesso anno, però, il bottone è stato utilizzato come espediente narrativo in Essere John Malkovich, altro film candidato a tre premi Oscar, con una sceneggiatura dai tratti surreali, come quello di immaginare un ufficio al settimo piano e mezzo. Raggiungibile ovviamente tramite ascensore, con l’aiuto del pulsante stop e di un piede di porco.

Proprio per garantire maggiore sicurezza, molti ascensori moderni hanno introdotto sistemi innovativi, come videochiamate di assistenza o sensori ottici per monitorare costantemente l’ascensore e rispondere prontamente a eventuali situazioni di emergenza.

Surreale, ma più che altro futuristico è, infine, uno dei più famosi ascensori della storia cinematografica e non solo: parliamo del Wonka ascensore, che ha la particolarità di muoversi in ogni direzione ed è ormai nell’immaginario di tutti. Un’idea, nata negli anni ’60 dalla fantasia di Roald Dahl e trasportato nella pellicola Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, candidata agli Oscar nel 1971, che oggi è però diventata realtà con MULTI, l’ascensore presentato da TKE nel 2017, in grado di muoversi sia in verticale che in orizzontale. Ciò è reso possibile grazie a un sistema rivoluzionario di cabine senza funi che si spostano con la trazione magnetica: una vera rivoluzione nel concetto di mobilità verticale. Per il “su e fuori”, invece, c’è ancora da lavorare…

Perché a meno di non essere Barbie, che può planare dal tetto direttamente alla macchina, come mostrato nel successo al botteghino dello scorso anno e in corsa agli Oscar di quest’anno con ben otto nomination, per ora, e sicuramente per il futuro più prossimo, l’ascensore è il miglior mezzo per andare su e giù, e in qualche caso anche di qua e di là.

Batman Begins (2005, Warner Bros.) – Diretto da Christopher Nolan, ha ricevuto una nomination agli Oscar 2006 per la migliore fotografia.

Gran Budapest Hotel (2014, 20th Century Fox) – Diretto da Wes Anderson, agli Oscar 2015 ha ricevuto 4 premi: miglior trucco e acconciatura; migliore colonna sonora originale; migliore scenografia; migliori costumi.

Pretty woman (1990, Warnes Bros.) – Diretto da Garry Marshall, ha ricevuto una nomination agli Oscar 1991 per la migliore attrice protagonista.

Ghostbuster (1984, Columbia Pictures) – Diretto da Ivan Reitman, ha ricevuto due nomination agli Oscar del 1985: migliori effetti speciali e miglior canzone.

Blade Runner (1982, Warner Bros.) – Diretto da Ridley Scott, ha ricevuto due nomination agli Oscar del 1983: migliori effetti speciali e migliore scenografia.

È stata la mano di Dio (2021, The Apartment Pictures) – Diretto da Paolo Sorrentino, ha ricevuto una nomination agli Oscar 2022 per il migliore film straniero.

Essere John Malkovich (1999, Universal Pictures) – Diretto da Spike Jonze, ha ricevuto tre nomination agli Oscar del 2000: miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior attrice non protagonista.

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971, Paramount Pictures) – Diretto da Mel Stuart, ha ricevuto una nomination agli Oscar 1972 per migliore colonna sonora.

Barbie (2023, Warner Bros.) – Diretto da Greta Gerwig, ha ricevuto otto candidature agli Oscar di quest’anno: miglior film; miglior attore non protagonista; miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura non originale; miglior scenografia; migliori costumi; 2 brani candidati per la miglior canzone originale.

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Dune – Parte Due: Dennis Villeneuve, cinema che arriva da un’altra epoca

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Tuo padre governava in un modo che seguiva le regole del cuore. Ma il cuore non è fatto per governare”. È una frase che sentiamo dire alla fine di Dune – Parte Due di Denis Villeneuve, il secondo capitolo della saga ispirata al romanzo Dune di Frank Herbert e seguito del film Dune, vincitore nel 2021 di sei Premi Oscar, in uscita al cinema il 29 febbraio. Come si può capire da queste parole, Dune – Parte Due assume toni ancora più intensi, tragici, shakespeariani nel raccontare la lotta per il potere delle casate degli Atreides e degli Harkonnen, tra trame di palazzo ed epiche battaglie, tra la ragion di stato e le ragioni del cuore.  Dune – Parte Due riesce ad andare ancora oltre il primo film, a stupire visivamente e a ipnotizzare con il suo racconto, creando una nuova epica cinematografica che deve molto ad altre storie ma che trova una sua via, uno suo stile unico. È il primo grande film di questo 2024, quello con cui tutti dovranno fare i conti, al box office e alla prossima stagione dei premi, quello di cui si parlerà per i prossimi anni, fino a quando si chiuderà la trilogia con il terzo film.

La scelta tra l’amore e il destino dell’universo

Paul Atreides (Timothée Chalamet) si unisce a Chani (Zendaya) e ai Fremen, gli abitanti del pianeta Arrakis sul sentiero della vendetta contro gli Harkonnen, i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia. Di fronte alla scelta tra l’amore della sua vita e il destino dell’universo conosciuto, Paul intraprende una missione per impedire un terribile futuro che solo lui è in grado di prevedere.

Austin Butler, un essere proteiforme e belluino

A prima vista, Dune – Parte 2 è uno di quei film che colpisce già solo a leggere il cast clamoroso. Come scrivevamo in occasione del primo Dune, tutte le star del film brillano di luce propria e, allo stesso tempo, scompaiono nei loro personaggi, fondendo i loro volti e i loro corpi in un unico corpo attoriale e narrativo. Nel cast, accanto Timothée Chalamet e Zendaya, ci sono Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Florence Pugh, Dave Bautista, Christopher Walken, Léa Seydoux e Souheila Yacoub. E ancora Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling e Javier Bardem. Tutti volti indelebili. Ma a sconvolgere è soprattutto Austin Butler, che avevamo conosciuto sotto il ciuffo impomatato di Elvis, che qui è Feyd-Rautha Harkonnen, il ruolo che nel film di David Lynch era stato di Sting, un essere proteiforme e belluino, folle e assetato di morte, il corpo completamente glabro e il cranio calvo e rilucente.

Dune è il racconto dei racconti

Dune è il racconto dei racconti, racchiude decine di altre storie ma riscrive una storia nuova. C’è molto di Star Wars in Dune perché, come saprete, proprio il romanzo di Herbert è stata una grande ispirazione per George Lucas nel momento di creare quella famosa galassia lontana lontana. Paul Atreides, l’Eletto, il Profeta, è in qualche modo simile allo Jedi, a Luke Skywalker, un giovane che, attraverso un percorso di crescita, acquisisce una consapevolezza di sé e dei propri poteri. Ma se Star Wars deve molto a Dune, il romanzo di Herbert a sua volte deve molto alle Sacre Scritture. Paul Atreides, il protagonista, in fondo fa il percorso di Gesù. Come lui non viene riconosciuto subito come Messia, e la sua umiltà non lo fa subito imporre come tale. Come lui, che nel deserto era tentato dal Diavolo, tra le dune sabbiose del sud del pianeta Arrakis viene tentato dagli spiriti del Deserto. Figura cristologica per eccellenza (come lo sono tutti gli eletti del cinema, da Luke Skywalker al Neo di Matrix) Paul Atreides poi prende una sua via. La svolta che avviene verso la fine del film ne fa qualcosa di molto diverso, un leader carismatico ma anche violento, legato a un ruolo che gli impone scelte anche dure. Proprio come una figura shakespeariana.

Paul e Chani come Romeo e Giulietta

Ma c’è anche altro. Ci sono anche molti aspetti di altre religioni, come quella musulmana, in molte scene legate ai Fremen, e al loro modo di pregare e di vivere. In questo senso, i Fremen vengono rappresentati – sia per gli attori che li interpretano, sia per i loro modi di vivere – come i nostri abitanti di continenti come l’Africa o l’Asia, in particolare il Medio Oriente. E in quella loro voglia di ribellione e rivalsa contro i potenti della galassia, bianchi, si sente quasi il senso di un ribaltamento dell’attuale ordine mondiale, un voler compensare il colonialismo e i danni che l’occidente ha fatto al resto del mondo. Ma è una chiave di lettura ulteriore a una storia ben precisa. Che è anche una storia d’amore. Come non vedere, infatti, in quella scena di Chani chinata su Paul, che sembra in uno stato di morte, una celebre scena di Romeo e Giulietta? O ancora, nella storia di un uomo che arriva da fuori, e per amore sposa un intero popolo e cambia nome, non leggere quella che è la trama i Avatar?

Quell’arena enorme, infinita, interminabile

Una storia che già di per sé è articolata e intensa, carica di personaggi carismatici, è resa ancora più epica dalla costruzione incredibile dell’universo di Dune che ne fa Denis Villeneuve. Le scene indelebili sono tante, ma prendiamo su tutte quella dell’ingresso in scena di Feyd-Rautha Harkonnen, psicotico erede della famiglia rivale degli Atreides. In una sequenza virata in un bianco e nero carico di luce, ci troviamo in un’arena da gladiatori enorme, infinita, interminabile.

Spazi sterminati e volti indelebili

Ed è proprio questa la cifra di Dune, e di quella che è oggi la carriera di Denis Villeneuve. Da un lato punta al senso della meraviglia, dello spazio sterminato, della magniloquenza degli ambienti. Quell’immaginazione che in tante trasposizioni da libro a film va perduta con Villeneuve non è più un problema: con lui non ci sono limiti. Dall’altro lato, il regista canadese riesce a illuminare in modo speciale il viso dei protagonisti, a far uscire prepotentemente la luce degli occhi, che brillano come perle incastonate in quelli che sembrano dei volti scolpiti nella pietra, o dipinti su tela.

Cinema che viene dal passato, o probabilmente dal futuro

Come avevamo scritto in occasione della prima parte di Dune, si tratta di un blockbuster d’autore, una definizione che sembra un ossimoro ma che con Denis Villeneuve non lo è. Quella di Dune è una saga cinematografica diversa da tutte le altre, che si tiene lontana dal pop, che rifugge il fantasy e i colori troppo accesi per dei toni caldi e uniformi, ma carichi di sfumature. Dune ha un suo ritmo, un suo stile di racconto che non è parossistico come il cinema d’azione di oggi. Ma è solenne, epico, ipnotico. Guarda in qualche modo alla prima trilogia de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, che ricorda soprattutto per la grandiosità delle battaglie e delle scene d’insieme. Ma sembra guardare anche a certi kolossal del passato, a Cecil B. De Mille. Dune non è cinema che appartiene al nostro oggi. È cinema che viene dal passato, o probabilmente dal futuro. È fuori da ogni tempo. È cinema di un’altra epoca.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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