Connect with us

Serie TV

The assassination of Gianni Versace. In bilico tra il successo e il flop

Published

on

the assassination of gianni versace

È ancora viva l’emozione provata nella sequenza di apertura di The assassination of Gianni Versace. La macchina da presa mossa in ampie e sinuose carrellate, la magnificenza dell’Adagio di Albinoni in sottofondo. Le immagini si alternano tra lo sfarzo di una villa e il sole battente della spiaggia, tra un uomo di fama mondiale circondato da amici e ammiratori e un ragazzo come tanti rimasto solo con una pistola nascosta nello zaino. Quella però non è una villa qualunque in una città qualunque e quell’uomo e quel ragazzo apparentemente così lontani si ritrovano coinvolti in uno degli omicidi più discussi di tutti i tempi. È il 15 luglio 1997 quando Andrew Cunanan spara a bruciapelo davanti al cancello della sua dimora a Miami lo stilista Gianni Versace.

the assassination of gianni versaceDieci minuti di pura potenza visiva ed emotiva estasiante lasciavano presagire per la serie antologica American Crime Story una seconda stagione degna di nota. Del resto, già nel 2016 con People vs. O.J. Simpson lo scetticismo iniziale nel corso degli episodi era risultato infondato: gli showrunner erano riusciti a creare attorno ad uno dei casi di cronaca nera più mediatici degli anni novanta uno dei legal drama più riusciti di sempre, grazie ad un approfondimento che ha coinvolto non solo il processo di per sé (già conosciuto grazie alle riprese televisive) ma anche ogni fase e ogni personaggio coinvolto, con tutte le conseguenze personali del caso.
Poco importa quindi se in The assassination of Gianni Versace il delitto si è consumato nel prologo; gli spettatori non si sono di certo persi d’animo, forti non solo del successo della stagione precedente ma anche della presenza di un cast del calibro di Edgar Ramirez, Penelope Cruz e Ricky Martin (nome di forte richiamo nonostante non si conoscessero ancora le sue doti recitative) e del talento del suo creatore, quel Ryan Murphy che negli anni ha portato sul piccolo schermo serie tv come Nip/Tuck, Glee e American Horror Story.
La curiosità di scoprire cosa ci avrebbero riservato gli sceneggiatori era alle stelle, soprattutto perché nel caso Versace non c’era stato alcun processo e le indagini si erano concluse pochi giorni dopo in seguito al ritrovamento del corpo priva di vita dell’assassino. Con la seconda stagione lo show FX era quindi pronto a cambiare pelle, e tutti credevano che la trama si sarebbe concentrata sulla vita privata dello stilista calabrese, soprattutto in seguito alle due note ufficiali rilasciate qualche giorno prima della messa in onda in cui la famiglia Versace dichiarava di non aver in alcun modo visionato e approvato né il lavoro di Ryan Murphy né tantomeno il libro su cui si basa l’intera trama (Vulgar Favors: Andrew Cunanan, Gianni Versace, and the Largest Failed Manhunt in U.S. History scritto nel 1999 dalla giornalista di Vanity Fair Maureen Orth).
A distanza di mesi, possiamo dire con certezza che la via intrapresa dallo sceneggiatore Tom Rob Smith è stata senza ombra di dubbio la meno scontata, la più rischiosa e (forse) la più controproducente. Perché contrariamente a quanto il titolo lasciava immaginare, l’unico vero protagonista in The assassination of Gianni Versace non è l’illustre vittima ma il misterioso carnefice. E l’entusiasmo provato con l’apertura è andato via via scemando.

the assassination of gianni versaceNel corso dei nove episodi lo spettatore assiste ai retroscena dell’esistenza di Andrew Cunanan (interpretato da Darren Criss, il Blaine Anderson di Glee), trasformando quello che doveva essere un crime in thriller psicologico a tratti inquietante. Quel giovane ragazzo con gli occhialini e il berretto da baseball infatti, nei tre mesi precedenti al 15 luglio 1997 aveva lasciato dietro di sé una scia di sangue, passando dall’anonimato all’essere inserito nella lista dei ricercati più pericolosi dell’FBI.
La vita di Cunanan si svolge all’ombra delle sue bugie. Eroinomane, gigolò d’alto bordo per uomini interessati a giochi erotici al limite del pericolo, studente modello o ricco ereditiere: il ragazzo tendeva a plasmare il proprio essere e il proprio modo di fare in base a chi si trovava di fronte a lui. Persino la sua omosessualità era vissuta con ambiguità, a tratti sbandierata senza paura e a volte vissuta come un peso.
Desideroso di attenzioni e convinto di meritarsi ad ogni costo la fama, la follia omicida di Cunanan ha colpito quattro persone (due suoi amici, un architetto facoltoso suo cliente e un uomo che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato) prima di arrivare a Gianni Versace.
La figura dello stilista italiano nella serie non viene presentata solo come la vittima più illustre di un serial killer spietato, ma anche per offrire un parallelismo con la vita del suo aguzzino, utile per addentrarsi al meglio nella sua psiche. Laddove Versace era da tutti stimato e apprezzato Cunanan veniva allontanato da chi gli stava vicino; quando lo stilista aveva deciso di rivelare a tutti la sua omosessualità ufficializzando il rapporto con il suo compagno, nell’ambiente di Andrew accettare quella stessa omosessualità come normalità era ancora difficile. E soprattutto, proprio quando Versace sembrava avere tutto, al suo assassino non rimaneva più niente (il montaggio alternato in apertura rende perfettamente la disparità tra i due).

the assassination of gianni versaceUna curatissima messa in scena (con l’eccezione della ricostruzione di un episodio d’infanzia di Gianni, dove si sarebbe potuto utilizzare un copione in italiano) e una strepitosa interpretazione di Darren Criss (che regge sulle sue spalle l’intera narrazione facendo passare in secondo piano tutto il resto del cast) però non bastano.
Due errori (vien da definirli imperdonabili) sono stati commessi in The Assassination of Gianni Versace. Il primo è stato quello di dedicare un’intera stagione ad un personaggio con il quale non si crea alcun tipo di empatia e, laddove questa viene a mancare, come può il pubblico essere coinvolto in quello che vede?
Discutibile inoltre la scelta di mostrare il controverso rapporto tra Andrew e la figura paterna, quasi a voler giustificare i suoi comportamenti. Cunanan non ha avuto una vita facile, ma era consapevole di ciò che faceva e nonostante questo ha proseguito per la sua strada senza mai mostrare un minimo di rimorso.
L’errore più grande sta però nel titolo. Perché rispetto a tutto ciò che viene raccontato, l’assassinio e la famiglia Versace in generale sembrano inseriti solo con l’intento di attirare l’attenzione. O meglio: concesso di farne il riferimento nel titolo – in fin dei conti è da quell’omicidio che si parte – del tutto illogica è stata la scelta di basare l’intera promozione dello show con le immagini maestose di Edgar Ramirez, Penelope Cruz e Ricky Martin nei panni di personaggi che nella costruzione del racconto sono solo di contorno. Che bello sarebbe stato approfondire la sensibilità di Gianni di cui tutti parlano, o la forza e la tempra di Donatella o raccontare in maniera più approfondita il rapporto con il compagno Antonio, senza dimenticare un’esplorazione del glamour e del cambiamento portato dalla casa di moda nel mondo. Questa scelta risulta essere un espediente scaltro di cui una serie di questo tipo non aveva per niente bisogno, in primis perché il successo della prima stagione era già di per sé un’ottima esca per guardare anche la seconda e poi perché basta solo la firma di Ryan Murphy per attirare a prescindere la curiosità degli spettatori.

Le nomination agli Emmy Awards sono tante (qui potete trovarle) e saranno la prova del nove per capire se The assassination of Gianni Versace è riuscita a fare colpo come il suo predecessore o finirà presto nel dimenticatoio seriale. Non ci resta che attendere il 17 settembre.

di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading
Advertisement
Click to comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

2 × uno =

Serie TV

Loro: La paura, il terrore e il razzismo arrivano su Prime Video

Published

on

Pam Grier appare subito, in una delle prime scene di Loro: La paura (Them: The Scare), seconda stagione della serie antologica horror creata da Little Marvin, disponibile in streaming su Prime Video. La presenza della famosa attrice afroamericana ci vuole dire subito una cosa: la nuova stagione di Loro, ambientata nel 1991, è un omaggio al cinema Blaxploitation degli anni Settanta e a quel cinema degli anni Novanta che lo ha riportato in auge. Ricorderete tutti Jackie Brown di Quentin Tarantino, che aveva scelto Pam Grier come protagonista proprio per riprendere quel mondo. Per questo Loro: La paura è un viaggio tra i Settanta e i Novanta, una nuova storia che rimane perfettamente coerente con quella della prima stagione di Loro.

Loro: La paura è ambientato ancora una volta nella contea di Los Angeles. La prima stagione, Loro: Covenant, era ambientata a Compton nel 1952. Adesso siamo nel 1991. La detective della squadra omicidi di Los Angeles Dawn Reeve (Deborah Ayorinde) è alle prese con un nuovo caso: il raccapricciante omicidio di una madre affidataria che ha lasciato scossi anche i detective più esperti. Nel pieno di un tumultuoso periodo a Los Angeles, con una città sul filo del caos, Dawn è determinata a fermare l’assassino. Mentre si avvicina alla verità, qualcosa di sinistro attanaglia lei e la sua famiglia…

Il senso di Loro, sin dalla prima stagione, è stato quello di sublimare attraverso l’horror l’orrore. Il genere, il soprannaturale, lo spaventoso erano un veicolo per raccontare qualcos’altro di molto raccapricciante: il comportamento dei bianchi verso le persone afroamericane. Così, in Loro: Covenant, seguivamo, sconvolti, quello che accadeva a una famiglia di neri che si era appena trasferita in un quartiere benestante. L’horror arrivava in un secondo momento, era spaventoso, certo. Eppure a lasciarci sconvolti era il comportamento quotidiano delle persone.

Loro: La paura continua sulla sua strada di denuncia sociale, ma l’horror vira più sul thriller. La protagonista, infatti, è un’investigatrice che segue il caso di un serial killer. L’atmosfera funziona, tra colori chiari e omogenei, che ci riportano allo stile di un certo cinema indie anni Novanta, accesi da toni di rosso e nero che sono indispensabili al racconto. C’è molto David Fincher in questa storia. Guardate l’arrivo della polizia sul primo luogo del delitto, e vi verrà in mente l’incipit di Seven, in cui la polizia squarcia il buio con la sola luce delle sue torce. Più tardi, parlando delle modalità di comportamento del killer, si fa riferimento al caso Zodiac, che era stato raccontato da David Fincher nell’omonimo film.

Gli anni Novanta in cui si muove Loro: La paura sono anche quelli del famoso caso di Rodney King, il tassista afroamericano che fu pestato violentemente della polizia nel marzo del 1991, mentre qualcuno stava riprendendo la scena per un video che fece il giro del mondo, denunciando il razzismo e gli abusi della polizia sui neri americani (un caso simile, tristemente, è accaduto di nuovo proprio pochi giorni fa). Il pestaggio a King scatenò violenti disordini a Los Angeles nei giorni successivi alla diffusione del video e ad una grande sommossa un anno dopo, quando i poliziotti accusati vennero assolti. È in questa atmosfera che vive la nuova stagione di Loro. Ed è una grande scelta, perché è un momento chiave del razzismo in America.

Un razzismo che, in Loro: La paura, viviamo però in ogni sequenza. Seguiamo Dawn, che è una donna realizzata, emancipata, una stimata detective del LAPD, ma che è continuamente sminuita in tutta una serie di modi. È razzismo se Dawn viene affiancata da un altro collega (maschio, bianco, più anziano) per un’indagine, e se non viene dato credito alle sue piste. È razzismo se, chiedendo di poter parcheggiare nel cortile del dipartimento, viene apostrofata con epiteti che potete immaginare. È razzismo se, a ogni sua mossa, viene liquidata con delle battute. Se anche una poliziotta viene discriminata, figuratevi chi è al di fuori della polizia.

Dawn è interpretata da Deborah Ayorinde (già nel cast della prima stagione, in un altro ruolo), una vera rivelazione: un volto fiero, un piglio orgoglioso, una personalità notevole e anche una dose di sex appeal che ne fa una protagonista perfetta, un personaggio definito a tutto tondo. L’attrice storica Pam Grier interpreta la madre Athena. I bianchi, e il loro razzismo, sono interpretati da Wayne Knight, caratterista visto in molti film di Hollywood, che è il capo della polizia, Schiff, e da Jeremy Bobb, che è il viscido detective Ronald McKinney, che segue le indagini insieme a Dawn. Ma l’altra rivelazione della serie è Luke James, nel ruolo di Edmund, un ragazzo che lavora in un ristorante – parco giochi per bambini, e che è un aspirante attore. Quando, per prepararsi al provino per il ruolo di un serial killer, comincia a entrare nel ruolo, assistiamo a una serie di trasformazioni, prima goffe e poi sempre più inquietanti.

Loro: La paura viaggia tra gli anni Ottanta e Novanta anche attraverso la musica, black e non solo. C’è il pop di Rockwell con Somebody’s Watching Me (la canzone che era nata come risposta a Thriller di Michael Jackson), il rap dei Run DMC con gli Aerosmith di Walk This Way, il cool jazz di Sade e Your Love Is King. E anche un po’ di sano hard rock, con i Guns’n’Roses e Welcome To The Jungle. Little Marvin, ancora una volta, riesce a colpirci con il perturbante, con la paura che nasce da quelli che dovrebbero essere i luoghi più sicuri, gli angoli della casa. Ma che cos’è dunque la paura? “La paura è il dolore che sorge dall’anticipazione del Male”. Lo diceva Aristotele.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

Questo slideshow richiede JavaScript.

 

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading

Serie TV

Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

Published

on

La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

Questo slideshow richiede JavaScript.

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading

Serie TV

Fallout: Se la catastrofe nucleare è un (video)gioco… e una serie, su Prime Video

Published

on

L’inizio di Fallout, la nuova serie Prime Video, è – letteralmente – esplosivo.  Siamo in un mondo in cui sembra tutto tranquillo, idilliaco. Siamo negli anni Cinquanta, in America, in quell’atmosfera inconfondibile, patinata. È una festa di compleanno per bambini, dove l’attrazione è stata un cowboy con il suo cavallo. Ogni cosa sembra perfettamente tranquilla, ideale. Se non fosse che c’è una strana inquietudine che traspare da un programma tv. “Come posso fare le previsioni per la prossima settimana, se non so se ci sarà una prossima settimana?” esclama lo speaker delle previsioni del tempo. Fuori, quel cowboy e la sua bambina si chiedono se stia per accadere un’esplosione. “Dicono che devi guardare il pollice” dice il padre. “Se la nuvola è più piccola devi correre oltre le colline. Se è più grande, non occorre che ti preoccupi di correre”. “Il tuo pollice o il mio?” chiede la bambina. Ma il papà non ha tempo di rispondere. L’esplosione avviene prima negli occhi di chi sta guardando, e poi nei nostri, come in Oppeheimer. È un fungo atomico, che si alza altissimo nel cielo. È enorme. E inarrestabile. Ma è solo l’inizio.

La storia di Fallout inizia 219 anni dopo. L’umanità esiste ancora, non si è estinta. Vive nei “vault”, dei rifugi sotterranei, fatti di cunicoli, dove prova a condurre una vita normale. E a riprodurre quella vita tranquilla dell’America del 1950. Ma si fa presto a dire una vita normale. Si sente il suono di allarmi, sirene, rumori meccanici. E, lì sopra, c’è il mondo reale. Lucy, la protagonista, sta per sposarsi. Ha l’abito bianco, il padre la accompagna all’altare. Ma non conosce chi andrà a sposare….

Fallout è basata sul popolarissimo franchise di videogiochi retro-futuristici. Gli esperti in materia videoludica hanno accolto con grande entusiasmo la serie, che è stata definita uno dei migliori adattamenti da videogame mai realizzati. Il videogame è stato adattato per lo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy, i creatori della serie cult Westworld. In comune con Westworld Fallout ha molte cose. È una storia che guarda al futuro, ma anche al passato (retro-futuristica, appunto, come il gioco), con un contrasto che, nello spettatore, crea un cortocircuito, ma anche curiosità e interesse. È una storia di esseri che cercano la loro anima, la loro speranza, in un mondo arido e desertificato, nella forma come nei valori.

Quello che a prima vista colpisce in Fallout è lo scenario. Se ci pensate, i racconti post-apocalittici, post-atomici, distopici, sono tutti permeati di toni – di racconto e di colori – cupi, plumbei, desolati. In Fallout la desolazione prossima ventura c’è, e non potrebbe essere altrimenti. Ma accanto ci sono i colori accesi delle tute, la patina anni Cinquanta e Sessanta, un’ironia e un dark humour che rendono tutto molto particolare e inaspettato. La musica dei Fifties e dei Sixties contribuisce a creare l’atmosfera e a fare da contrasto. Sentire la musica di Johnny Cash, la sua voce baritonale, le chitarre country-blues in un’azione ambientata nel futuro, e in una scena molto violenta, quella di un pestaggio, spiazza lo spettatore. E, sì, funziona.

Al centro di questo mondo originale ci sono gli attori, corpi che devono essere in grado di trasformare le creature in pixel del videogioco in esseri in carne ed ossa. In questo senso, Ella Purnell, nei panni della protagonista Lucy, è perfetta. La ricordiamo nel ruolo di Jackie nella serie Yellowjackets, ma è una vera veterana (è stata nel cast di Non lasciarmi e Maleficent, interpretando la versione giovane dei personaggi di Keira Knightley e Angelina Jolie). La Lucy di Ella Purnell ha degli occhi enormi, sgranati, un viso regolare. Sembra davvero disegnata da un computer come se fosse davvero fatta di pixel. Accanto a lei, nel ruolo del padre, c’è Kyle MacLachlan, l’indimenticato agente Dale Cooper di Twin Peaks. Uno che di atmosfere misteriose (ma, in fondo, anche ironiche e surreali) se ne intende. Qui ci sembra in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e da tempo non lo vedevamo così a fuoco in un personaggio. Nel cast ci sono anche Walton Goggins (The Hateful Eight), Sarita Choudhury (Homeland) e Michael Emerson (Lost e Person of Interest). Di più non possiamo raccontarvi per non guastarvi la sorpresa. Fallout è una serie che va vista. Che siate amanti dei videogame o meno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

Questo slideshow richiede JavaScript.

 

0 Users (0 voti)
Criterion 10
What people say... Leave your rating
Ordina per:

Sii il primo a lasciare una recensione.

User Avatar
Verificato
{{{ review.rating_title }}}
{{{review.rating_comment | nl2br}}}

Di Più
{{ pageNumber+1 }}
Leave your rating

Il tuo browser non supporta il caricamento delle immagini. Scegline uno più moderno.

Continue Reading

Trending