Serie TV
The assassination of Gianni Versace. In bilico tra il successo e il flop
È ancora viva l’emozione provata nella sequenza di apertura di The assassination of Gianni Versace. La macchina da presa mossa in ampie e sinuose carrellate, la magnificenza dell’Adagio di Albinoni in sottofondo. Le immagini si alternano tra lo sfarzo di una villa e il sole battente della spiaggia, tra un uomo di fama mondiale circondato da amici e ammiratori e un ragazzo come tanti rimasto solo con una pistola nascosta nello zaino. Quella però non è una villa qualunque in una città qualunque e quell’uomo e quel ragazzo apparentemente così lontani si ritrovano coinvolti in uno degli omicidi più discussi di tutti i tempi. È il 15 luglio 1997 quando Andrew Cunanan spara a bruciapelo davanti al cancello della sua dimora a Miami lo stilista Gianni Versace.
Dieci minuti di pura potenza visiva ed emotiva estasiante lasciavano presagire per la serie antologica American Crime Story una seconda stagione degna di nota. Del resto, già nel 2016 con People vs. O.J. Simpson lo scetticismo iniziale nel corso degli episodi era risultato infondato: gli showrunner erano riusciti a creare attorno ad uno dei casi di cronaca nera più mediatici degli anni novanta uno dei legal drama più riusciti di sempre, grazie ad un approfondimento che ha coinvolto non solo il processo di per sé (già conosciuto grazie alle riprese televisive) ma anche ogni fase e ogni personaggio coinvolto, con tutte le conseguenze personali del caso.
Poco importa quindi se in The assassination of Gianni Versace il delitto si è consumato nel prologo; gli spettatori non si sono di certo persi d’animo, forti non solo del successo della stagione precedente ma anche della presenza di un cast del calibro di Edgar Ramirez, Penelope Cruz e Ricky Martin (nome di forte richiamo nonostante non si conoscessero ancora le sue doti recitative) e del talento del suo creatore, quel Ryan Murphy che negli anni ha portato sul piccolo schermo serie tv come Nip/Tuck, Glee e American Horror Story.
La curiosità di scoprire cosa ci avrebbero riservato gli sceneggiatori era alle stelle, soprattutto perché nel caso Versace non c’era stato alcun processo e le indagini si erano concluse pochi giorni dopo in seguito al ritrovamento del corpo priva di vita dell’assassino. Con la seconda stagione lo show FX era quindi pronto a cambiare pelle, e tutti credevano che la trama si sarebbe concentrata sulla vita privata dello stilista calabrese, soprattutto in seguito alle due note ufficiali rilasciate qualche giorno prima della messa in onda in cui la famiglia Versace dichiarava di non aver in alcun modo visionato e approvato né il lavoro di Ryan Murphy né tantomeno il libro su cui si basa l’intera trama (Vulgar Favors: Andrew Cunanan, Gianni Versace, and the Largest Failed Manhunt in U.S. History scritto nel 1999 dalla giornalista di Vanity Fair Maureen Orth).
A distanza di mesi, possiamo dire con certezza che la via intrapresa dallo sceneggiatore Tom Rob Smith è stata senza ombra di dubbio la meno scontata, la più rischiosa e (forse) la più controproducente. Perché contrariamente a quanto il titolo lasciava immaginare, l’unico vero protagonista in The assassination of Gianni Versace non è l’illustre vittima ma il misterioso carnefice. E l’entusiasmo provato con l’apertura è andato via via scemando.
Nel corso dei nove episodi lo spettatore assiste ai retroscena dell’esistenza di Andrew Cunanan (interpretato da Darren Criss, il Blaine Anderson di Glee), trasformando quello che doveva essere un crime in thriller psicologico a tratti inquietante. Quel giovane ragazzo con gli occhialini e il berretto da baseball infatti, nei tre mesi precedenti al 15 luglio 1997 aveva lasciato dietro di sé una scia di sangue, passando dall’anonimato all’essere inserito nella lista dei ricercati più pericolosi dell’FBI.
La vita di Cunanan si svolge all’ombra delle sue bugie. Eroinomane, gigolò d’alto bordo per uomini interessati a giochi erotici al limite del pericolo, studente modello o ricco ereditiere: il ragazzo tendeva a plasmare il proprio essere e il proprio modo di fare in base a chi si trovava di fronte a lui. Persino la sua omosessualità era vissuta con ambiguità, a tratti sbandierata senza paura e a volte vissuta come un peso.
Desideroso di attenzioni e convinto di meritarsi ad ogni costo la fama, la follia omicida di Cunanan ha colpito quattro persone (due suoi amici, un architetto facoltoso suo cliente e un uomo che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato) prima di arrivare a Gianni Versace.
La figura dello stilista italiano nella serie non viene presentata solo come la vittima più illustre di un serial killer spietato, ma anche per offrire un parallelismo con la vita del suo aguzzino, utile per addentrarsi al meglio nella sua psiche. Laddove Versace era da tutti stimato e apprezzato Cunanan veniva allontanato da chi gli stava vicino; quando lo stilista aveva deciso di rivelare a tutti la sua omosessualità ufficializzando il rapporto con il suo compagno, nell’ambiente di Andrew accettare quella stessa omosessualità come normalità era ancora difficile. E soprattutto, proprio quando Versace sembrava avere tutto, al suo assassino non rimaneva più niente (il montaggio alternato in apertura rende perfettamente la disparità tra i due).
Una curatissima messa in scena (con l’eccezione della ricostruzione di un episodio d’infanzia di Gianni, dove si sarebbe potuto utilizzare un copione in italiano) e una strepitosa interpretazione di Darren Criss (che regge sulle sue spalle l’intera narrazione facendo passare in secondo piano tutto il resto del cast) però non bastano.
Due errori (vien da definirli imperdonabili) sono stati commessi in The Assassination of Gianni Versace. Il primo è stato quello di dedicare un’intera stagione ad un personaggio con il quale non si crea alcun tipo di empatia e, laddove questa viene a mancare, come può il pubblico essere coinvolto in quello che vede?
Discutibile inoltre la scelta di mostrare il controverso rapporto tra Andrew e la figura paterna, quasi a voler giustificare i suoi comportamenti. Cunanan non ha avuto una vita facile, ma era consapevole di ciò che faceva e nonostante questo ha proseguito per la sua strada senza mai mostrare un minimo di rimorso.
L’errore più grande sta però nel titolo. Perché rispetto a tutto ciò che viene raccontato, l’assassinio e la famiglia Versace in generale sembrano inseriti solo con l’intento di attirare l’attenzione. O meglio: concesso di farne il riferimento nel titolo – in fin dei conti è da quell’omicidio che si parte – del tutto illogica è stata la scelta di basare l’intera promozione dello show con le immagini maestose di Edgar Ramirez, Penelope Cruz e Ricky Martin nei panni di personaggi che nella costruzione del racconto sono solo di contorno. Che bello sarebbe stato approfondire la sensibilità di Gianni di cui tutti parlano, o la forza e la tempra di Donatella o raccontare in maniera più approfondita il rapporto con il compagno Antonio, senza dimenticare un’esplorazione del glamour e del cambiamento portato dalla casa di moda nel mondo. Questa scelta risulta essere un espediente scaltro di cui una serie di questo tipo non aveva per niente bisogno, in primis perché il successo della prima stagione era già di per sé un’ottima esca per guardare anche la seconda e poi perché basta solo la firma di Ryan Murphy per attirare a prescindere la curiosità degli spettatori.
Le nomination agli Emmy Awards sono tante (qui potete trovarle) e saranno la prova del nove per capire se The assassination of Gianni Versace è riuscita a fare colpo come il suo predecessore o finirà presto nel dimenticatoio seriale. Non ci resta che attendere il 17 settembre.
di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it
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Serie TV
Emily In Paris arriva a Roma, nel nome di Audrey Hepburn
Published
3 giorni agoon
12 Settembre 2024Emily, il personaggio cult di Lily Collins, protagonista della fortunata serie Netflix Emily in Paris, arriva a Roma. Ad aspettarla c’è un ragazzo italiano, che si chiama Marcello, ed è in sella ad una vespa con cui la porterà in giro per la Capitale, tra rovine, trattorie e i monumenti più importanti. Cominciano così gli episodi di Emily In Paris girati a Roma, gli ultimi due della seconda parte della stagione 4, disponibile su Netflix dal 12 settembre. Emily si trova a Roma attratta dall’amore, ma la vicenda potrebbe diventare anche professionale. Sylvie, il capo dell’agenzia di PR dove lavora, infatti mira a conquistare un importante cliente italiano. E le sue mire in qualche modo si incroceranno con l’interessa sentimentale di Emily. Sono solo due episodi, ma è molto probabile che la stagione 5 – se sarà confermata – potrebbe iniziare proprio da Roma, se non svolgersi completamente nella Capitale.
Vedere una serie che da sempre vive a Parigi ambientata a Roma, da italiani, dà un’altra sensazione. Si può sorridere o magari storcere il naso. Il racconto, e non può essere altrimenti, è pieno di cliché e di luoghi comuni. Aspettatevi allora lunghe carrellate sul cibo, il limoncello, le rovine, la moda, la vespa, i borghi di campagna (che sembrano in Toscana, dove però si ascolta una sorta di pizzica salentina). In Francia non hanno apprezzato come gli americani hanno raffigurato Parigi, in Italia ci sarà chi avrà sicuramente da ridire.
C’è poi un altro gioco, anche questo forse scontato, ma molto piacevole, quello legato al cinema e alle citazioni. Marcello (Eugenio Franceschini), il corteggiatore di Emily, si chiama così in onore di Mastroianni, e ovviamente la porterà davanti alla Fontana di Trevi, come ne La Dolce Vita di Fellini, anche se i due non si tufferanno nelle acque. Più tardi vedremo anche Via Veneto, in bianco e nero, per un altro omaggio a quel film. Quando Marcello porta Emily in giro in vespa per tutta Roma il pensiero corre immediatamente a Gregory Peck e Audrey Hepburn in Vacanze romane. In quelle scene Emily sfoggia un look anni Cinquanta ispirato proprio a quel film.
Emily In Paris è sempre stata una serie ricca di moda e di grandi abiti. I costumi, in qualche modo, hanno sempre voluto sottolineare uno stato d’animo, una situazione, delle svolte narrative. I costumi di Emily in questa stagione sono stati pensati per riflettere la sua crescita e maturità. C’è un tema floreale che è ricorrente nei capi che indossa, e vuole rappresentare il fatto che sia sbocciata rispetto alle stagioni precedenti. Ora si sta facendo strada, sta affermando se stessa e sta diventando molto più forte, con uno stile che reinterpreta i codici della moda parigina.
In Emily In Paris ogni stagione introduce una nuova componente che orienta i costumi del guardaroba di Emily. In questa stagione, si tratta dell’abito a tre pezzi ispirato a Twiggy con scarpe basse e gioielli raffinati. Questo look dimostra la maturità crescente di Emily e il suo sentirsi a proprio agio con l’autorevolezza acquisita sul lavoro. Anche il trucco e le acconciature di Emily subiscono un’evoluzione: in questa stagione si è scelto mostrarla al naturale. Non è sempre truccata alla perfezione, una scelta che riflette il percorso emotivo non sempre facile che Emily sta vivendo.
In questa stagione Emily sfoggia 22 acconciature diverse con tre principali texture, tutte pensate per dimostrare che le sue pettinature stanno diventando più rilassate e meno strutturate nel tempo. Sono presenti anche più cappelli e accessori per capelli rispetto alle stagioni passate. In questa stagione compaiono 2.500 paia di scarpe (ben 150 sono di Louboutin), circa 350 borse e 3.000 gioielli. I capi di abbigliamento totali sono più di mille. In questo senso, e anche per molti aspetti della storia, possiamo dire che Emily In Paris è Il Diavolo veste Prada delle serie tv.
I costumi di questa stagione includono più look vintage e d’archivio, soprattutto per Mindy: indossa infatti un abito Balmain rosa vintage agli Open di Francia e un look Mugler vintage d’archivio viola quando Nico la accompagna nel “Brand Closet” di JVMA. In un episodio, al lancio di un prodotto al Samaritaine, Emily indossa una borsa disegnata da INCXNNUE e realizzata con gli scarti riciclati dell’uva solitamente usata per il vino. Ogni stagione il team di costumisti seleziona capi di marchi famosi accanto a quelli di designer emergenti. Nel corso di questa stagione, il team ha collaborato con lo stilista vietnamita Đỗ Mạnh Cường a cinque look diversi.
E si è parlato anche di moda nella conferenza stampa organizzata a Roma in occasione del lancio della seconda parte della stagione 4. Philippine Leroy-Beaulieu, che nella serie è Sylvie, il capo di Emily, quando si parla di abiti, ricorda una scena particolare della stagione 3, girata sulla Torre Eiffel. “Emily è vestita in piume di struzzo rosa, e Sylvie di di nero. Sembro un uccellaccio malefico”. “Ogni abito ha delle intenzioni dietro, è come un oggetto d’arte” interviene Ashley Park, che interpreta Mindy. “L’abito rosso di Roma è molto particolare, ho detto: lo voglio”. “Il mio abito preferito è sicuramente quello che indosso nel club quando parlo con Emily” aggiunge Camille Razat. “Non è solo l’abito ma tutto il look, il trucco, il rossetto rosso, le atmosfere anni Novanta e le acconciature incredibili”.
Ma è proprio Lily Collins, cioè Emily, a spiegare benissimo come vengono pensati gli abiti nella serie. Sono una sorta di paesaggi-stati d’animo. “Alle fine della seconda stagione, mi Emily si trova su un ponte e deve decidere se tornare in America o restare con Sylvie a Parigi” ricorda l’attrice. “Nei costumi ci sono sempre piccoli particolari. Volevo che il mio avesse diversi strati, che diventasse delle cose diverse a seconda delle situazioni. C’erano dei cavallucci marini: è come se Emily fosse sott’acqua, forse si potrebbe salvare, forse affondare. Questo abito aveva questo significato. E poi cammino sul ponte, ricevo una telefonata, e lo strato esterno, che ricorda una medusa, comincia ad avvolgermi. Ma il cavalluccio marino è un essere che si accoppia per la vita. E quell’abito voleva anche dire: resterò a Parigi per tutta la vita?”. Intanto, in attesa di capire se ci sarà la stagione 5, Emily potrebbe restare a Roma, se non per tutta la vita, almeno un po’ più a lungo.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
Bridgerton 3, seconda parte: Le donne non hanno sogni? Non è vero
Published
3 mesi agoon
14 Giugno 2024Niente sesso, siamo inglesi, recitava il titolo di una famosa farsa teatrale degli anni Settanta. È un titolo che viene citato spesso, anche a sproposito, ogni volta che se ne presenta l’occasione. Probabilmente lo citiamo a sproposito anche noi, ma Bridgerton, la serie ambientata nell’Inghilterra della Reggenza, sembra fatta apposta per smentire quel detto. Dopo che la prima stagione aveva colpito per la sua audacia e la seconda era sembrata tornare per un attimo sui suoi passi, la “sensualità a corte” (perdonateci un’altra citazione) ritorna, sfrontata e vitale, in questa terza stagione. Bridgerton torna con la seconda parte della terza stagione (episodi 5-8), disponibile dal 13 giugno su Netflix. Che ci ha fatto vedere in anteprima due degli ultimi quattro episodi, probabilmente per preservare al massimo sorprese e colpi di scena, che in questa stagione non mancano, e per evitare spoiler. Come finirà la storia di Bridgerton 3? Ancora non lo sappiamo. Quello che è certo è il successo della serie creata da Shonda Rhimes (e dalla nuova showrunner Jess Brownell). La prima parte, disponibile su Netflix dal 16 maggio 2024, ha segnato il più grande debutto nella storia della serie, generando oltre 41 milioni di visualizzazioni nei primi quattro giorni. La storia segue l’avvicinamento romantico di Penelope Featherington e Colin Bridgerton.
Ma dove eravamo rimasti? Penelope Featherington (Nicola Coughlan) che dopo aver sentito le parole denigratorie di Colin Bridgerton (Luke Newton) nei suoi confronti ha accantonato la cotta di lunga data per lui. Penelope però ha deciso che è arrivato il momento di trovare un marito che le garantisca sufficiente indipendenza per continuare la sua doppia vita come Lady Whistledown, lontano dalla madre e dalle sorelle. Ma la mancanza di autostima fa sì che i suoi tentativi di sposarsi falliscano clamorosamente. Colin è tornato dai suoi viaggi estivi con un nuovo look e un atteggiamento molto spavaldo, ma è avvilito nel constatare che Penelope, l’unica persona che lo ha sempre apprezzato così com’era, gli sta dando il benservito. Desideroso di riconquistare la sua amicizia, Colin si offre di farle da mentore per aiutarla a trovare fiducia in se stessa e quindi un marito. Ma quando le sue lezioni iniziano a sortire un effetto anche troppo positivo, Colin è costretto a chiedersi se i suoi sentimenti per la ragazza siano davvero solo amichevoli. I primi quattro episodi di Bridgerton 3 si chiudevano con un bacio appassionato tra Penelope e Colin. Ma…
Ma… Che cosa accade dopo quel “e vissero tutti felici e contenti?”. Non lo sono ancora, felici e contenti, Penelope e Colin. Perché non basta amarsi ed essere attratti nella Londra della Reggenza, nella Londra del “mercato matrimoniale”. Ci sono ancora i genitori che rischiano di essere insoddisfatti, soprattutto Lady Featherington, la madre di Penelope. Ci sono gli altri matrimoni, combinati o da combinare, d’amore o di interesse, voluti o respinti. E c’è, soprattutto, quel segreto: Penelope è Lady Whistledown, l’autrice del “foglio” che svela tutti i retroscena della vita sociale e sentimentale. E prima o poi dovrà dirlo all’amato Colin. Come la prenderà?
La decisione della Regina di offrire una ricompensa a chi svelerà l’identità di Lady Whistledown rende tutto il gioco ancora più complicato. La storia di Bridgerton, così, diventa anche un po’ una sorta di detection, di gioco di identità nascoste e svelate. La suspense aumenta: abbiamo una deadline, momento tipico dei giochi di suspense, che è l’ora entro cui l’identità va svelata: uno degli episodi, infatti, si chiama Tic Toc, e il riferimento non è al social media, ma al tempo che scorre. Il gioco accanto alla misteriosa scrittrice rende tutto più movimentato, ritmato, veloce. E fa di questa terza stagione di Bridgerton probabilmente la più godibile.
È forse anche la più sfrenata, la più audace, o, almeno, lo è al pari della prima stagione. La scena della “prima volta” di Penelope è una scena molto sensuale, esplicita e insistita, con tanto di nudo. Ma è anche molto tenera e romantica. Dentro ci sono tutta l’eccitazione e al tempo stesso la paura e il turbamento di una ragazza giovane che scopre il sesso per la prima volta. Nicola Coughlan è coraggiosa, è in parte, è bravissima. Ma è interessante che una serie come Bridgerton metta in scena la passione attraverso una ragazza con quello che oggi si definirebbe un “corpo non conforme”, imperfetto (ovviamente secondo la società, per chi scrive nessun corpo dovrebbe essere definito “non conforme”). È un messaggio di positività in linea con tanti dei messaggi che si vogliono far passare oggi, ma che, se vengono lanciati da un lato, vengono anche contraddetti dall’altro.
Penelope si sposerà? “Sì, ma i miei sogni?” chiede lei. “Le donne non hanno sogni” le risponde l’arida madre, aggiungendo che l’unico sogno possibile è avere un buon matrimonio. Forse è colpa nostra che non lo avevamo capito, ma ora è chiaro. Penelope è Lady Whistledown non per cattiveria, non per mettere in cattiva luce il prossimo. Ma perché vuole scrivere, vuole creare, esprimersi, realizzarsi. E allora questa terza stagione di Bridgerton pone ancora una volta l’attenzione sul ruolo della donna nella società, allora come oggi. E allora a questo punto la chiave non è solo se Penelope coronerà il suo sogno d’amore. Ma anche se coronerà gli altri suoi sogni.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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“Un mercenario del prêt-à-porter: Karl Lagerfeld”. Un ragazzo, che abbiamo appena visto annoiarsi alla messa della domenica, cerca avidamente in edicola qualche rivista di moda che parli di Lagerfeld. E, una volta trovata, legge questo titolo. Siamo nel 1972, in piena epoca glam rock, e nell’aria risuona Moonage Daydream di David Bowie. È da qui che inizia Becoming Karl Lagerfeld, la nuova serie originale francese Disney+ con Daniel Brühl, disponibile da venerdì 7 giugno. La serie racconta Karl prima di Lagerfeld: uno stilista rock e creativo che si sta facendo strada nel mondo della moda, un tedesco a Parigi, uno stilista d’alta moda imprigionato nel prêt-à-porter, e in una casa di moda che non lo nomina socio e non gli fa fare il salto di qualità. Ma anche un uomo imprigionato in una storia d’amore malata, in un amore impossibile con il dandy Jacques de Bascher. È lui quel ragazzo che aveva comprato quella rivista. È lui che gli scrive una lettera per contattarlo. Ed è lui che lo fa impazzire, iniziando una relazione proprio con il suo amico e rivale, un certo Yves Saint Laurent. La novità di Becoming Karl Lagerfeld è che, a differenza delle serie su Balenciaga e Dior, che vi abbiamo raccontato qualche mese fa, questa serie è raccontata da due punti di vista, quello di Karl e quello di Jacques, che assurge a vero e proprio coprotagonista del film. E questa novità è anche il limite di questa storia.
La storia inizia nel 1972, quando Karl Lagerfeld (Daniel Brühl) ha 38 anni e non porta ancora il suo iconico taglio di capelli. È uno stilista di prêt-à-porter, sconosciuto al grande pubblico. Quando incontra e si innamora di Jacques de Bascher (Théodore Pellerin), un giovane dandy ambizioso e problematico, il più misterioso degli stilisti osa sfidare il suo amico (e rivale) Yves Saint Laurent (Arnaud Valois), genio dell’haute couture sostenuto dal discusso uomo d’affari Pierre Bergé (Alex Lutz). Viaggiamo così nel cuore degli anni Settanta, a Parigi, Monaco e Roma, per seguire la crescita formidabile di questa personalità complessa e iconica della couture parigina, già spinta dall’ambizione di diventare l’imperatore della moda.
Quella di Karl Lagerfeld che vediamo nella serie è la storia di una serie di sfide. La prima è quella con un rivale in affari. Lagerfeld è un designer di moda sconosciuto di 38 anni ma non è ancora riuscito a distinguersi dalla massa, a differenza del suo amico di lunga data, Yves Saint Laurent, il capo della più prestigiosa casa di alta moda del momento. La sfida è raggiungerlo e superarlo in affari e creatività. L’altra sfida è, apparentemente, sempre con Saint Laurent per il cuore e il corpo del giovane Jacques de Bascher. La sfida, lo capiremo, non sarà però tanto con Saint Laurent, quanto con Jacques, o addirittura con se stesso, per prendere le redini di una relazione complicata che sfugge in continuazione di mano a Karl, un uomo tanto padrone del suo lavoro quanto complicato nella vita sentimentale. La sfida più grande, che non è slegata dalle altre due, è quella contro l’ambiente stesso della moda – i suoi datori di lavoro, i competitor, il sistema – per riuscire ad emergere. Per cambiare quelle due parole magiche, rigorosamente francesi, che segnano la vita di uno stilista: andare oltre il prêt-à-porter, verso l’haute couture. Quelle due parole, accanto a un’altra parola, un nome inconfondibile, appariranno in un foglio inviato via fax, alla fine della storia.
L’idea di mettere al centro Jacques e la strana storia d’amore tra lui e Karl è al tempo stesso la novità, che distingue Becoming Karl Lagerfeld dalle recenti serie sugli stilisti che abbiamo visto, e anche il limite del film. Perché Jacques non è cattivo, è che lo disegnano così. Ma, tra la scarsa bravura dell’attore che lo interpreta e come lo disegna la sceneggiatura, il risultato è che ci sia continuamente al centro della scena un personaggio respingente che, non si sa perché, tutti vogliono e desiderano. La scelta di puntare tanto sull’aspetto sentimentale della storia e di raccontarlo in questo modo fa sì che Becoming Karl Lagerfeld sia la meno riuscita tra le recenti serie dedicate alla moda. Cristóbal Balenciaga (Disney+), raccontando alcuni anni della storia dello stilista spagnolo, riusciva a raccontare il mistero, il segreto della sua arte e dei suoi disegni. In questo senso, quella che parlava più di moda e di creazione artistica era proprio la serie su Balenciaga. The New Look, su Christian Dior, era più una serie storica, e raccontava la vita dello stilista negli anni del Nazismo a Parigi. Becoming Karl Lagerfeld a tratti sembra più una soap opera. Di moda vera e propria, in fondo, si parla poco.
Anche se, per chi segue la moda, è comunque interessante vedere Karl Lagerfeld (Daniel Brühl è bravissimo), ancora con un look anni Settanta, barba e capelli lunghi sciolti, e poi assumere le sembianze che tutti abbiamo conosciuto, con i capelli raccolti in una coda e i vistosi occhiali scuri. In scena, Daniel Brühl indossa abiti curati e appariscenti, completi tre pezzi dalle fogge ricercate, camicie sgargianti e spille ad adornare giacche o cravatte.
Come spesso accade nelle storie di questo tipo, il fascino sta anche nel fatto che gli stilisti si muovano al centro della loro epoca. E allora vediamo Lagerfeld incontrare Andy Warhol e Marlene Dietrich (con cui litiga perché non le fa esattamente l’abito che vuole, ma lo interpreta a modo suo), una delle sorelle Fendi, in un’incantata Roma del Quartiere Coppedé. Ascoltiamo la musica di quegli anni, dal citato Bowie a Don’t Let Me Be Misunderstood, cantata da Nina Simone, fino a Blondie e i Visage che annunciano l’arrivo degli anni Ottanta e una nuova generazione di stilisti come Thierry Mugler.
Quello che affascina è che in questi mesi, con l’arrivo in contemporanea di più produzioni, abbiamo assistito alla nascita di una sorta di universo espanso, una sorta di Stylist Cinematic Universe, dove una serie di grandi nomi della moda hanno visto le loro vite e le loro gesta intrecciarsi fra loro. Tutto questo non pianificato e organizzato come nei film di supereroi, non con gli stessi attori. Ma è stato interessante, e lo sarà ancora, vedere costruita questa piccola enciclopedia della moda per immagini.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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