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GLOW 2. Il Girl Power delle Ragazze del Wrestling è più glorioso che mai!

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Quando lo scorso anno Netflix distribuì in tutto il mondo la prima stagione di GLOW, ammetto di averla guardata più per noia che per vero interesse. I palinsesti in quel periodo non offrivano nulla di nuovo e alla fine la presenza di Alison Brie (già apprezzata in Mad Men e in Community) e le atmosfere anni 80 fatte di spandex, capelli cotonati e pattini a rotelle (diversa da quella provinciale e nerd vista in Stranger Things) sono riuscite a convincermi.
Da tempo non mi capitava di iniziare una nuova serie senza avere alcun tipo di aspettativa se non quella di trovare del puro e semplice intrattenimento; un bisogno troppo spesso lasciato in disparte dalla brama di scoprire il “nuovo capolavoro televisivo” che, seppur piacevolissimo da guardare, sviscerare ed analizzare in ogni punto, toglie la leggerezza della distrazione da tutto ciò che ci circonda.

glowCon i suoi primi dieci episodi da mezz’ora, GLOW non era riuscito a stupirmi ma l’ambientazione, l’umorismo intelligente e un cast corale sapientemente gestito lasciavano presagire un soggetto con le idee ben chiare sulla propria direzione che non aveva però svelato tutte le sue carte. A distanza di un anno la sensazione si è rivelata corretta, perché con la seconda stagione la serie non solo ha confermato quanto già visto, ma è riuscita addirittura a superarsi.

Gli episodi iniziano esattamente da dove eravamo rimasti: capitanate da Ruth e Debbie (Alison Brie e Betty Giplin) le Gorgeous Ladies of Wrestling sono riuscite a convincere una piccola rete televisiva locale a mandare in onda il loro show, e così il loro ingaggio che fino a quel momento era ancora incerto diventa a tutti gli effetti reale. Le ragazze fino a quel momento scettiche si ritrovano entusiaste di girare nuovi episodi, in modo particolare Ruth che non riesce a tenere a freno le sue idee creative tanto da disobbedire alle direttive di Sam (Marc Maron) il quale, dopo una carriera passata a dirigere b-movie è forse riuscito – pur con scontrosità e poca convinzione – a trovare il progetto che potrebbe rappresentare il suo momento di gloria. Il regista non ha nessuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa e di perdere la poca autorità che gli è rimasta, e subito tarpa le ali a Ruth. Un gesto a cui tutti sono fin troppo abituati (il “capo” che riprende un suo dipendente) ma che scatena delle reazioni inaspettate nel gruppo: le ragazze si dimostrano unite e solidali nei confronti della collega che fino a quel momento non aveva riscosso molta simpatia, Debbie si impone e riesce a diventare una produttrice diventando l’unica donna al comando, e Sam e Ruth nonostante i contrasti riescono alla fine a sviluppare una profonda e sincera sintonia.

glowGià lo scorso anno era chiaro che i personaggi di GLOW rinchiusi all’interno di una palestra fatiscente ad allenarsi nel wrestling fossero in realtà delle personalità alle prese con le difficoltà di emergere e con il bisogno disperato di trovare un proprio posto nel mondo. Così, se da una parte sul ring si scontravano rappresentazioni di cliché ben scalfiti nell’immaginario collettivo (la sovietica Zoya the Destroyer nemica del capitalismo, la biondissima e giunonica Liberty Belle specchio degli ideali Usa, la seria e intelligente Britannica), fuori dal set Ruth e gli altri cercavano di allontanarsi da quegli stereotipi che la vita aveva incollato loro addosso. Ed è proprio questa loro insoddisfazione e perenne ricerca dell’autorealizzazione che fa scattare nello spettatore un forte senso di immedesimazione, perché per quanto i personaggi siano talvolta sopra alle righe, il tratto che più li caratterizza è quello di essere delle persone estremamente normali.

Con la seconda stagione GLOW riesce a crescere sotto il profilo narrativo e sviluppa una propria identità riconoscibile. La serie infatti conta tra i suoi produttori Jenji Kohan, una delle artefici di un altro contenuto di punta di Netflix – Orange is The New Black – e da subito era balzata all’occhio la somiglianza tra i due show di ambientare una storia con un cast al femminile in contesti da sempre considerati “per soli uomini” (il carcere e il wrestling). Tuttavia, con i nuovi episodi GLOW è riuscito a trovare la sua voce personale e la scelta (a lungo andare inevitabile con un numero di personaggi così corposo) in fase di scrittura di dare più spazio solo ad alcuni protagonisti ha permesso allo show di raggiungere una maggiore profondità e di affrontare tematiche più complesse, come la difficoltà glowdell’essere madre, l’AIDS e l’omosessualità, senza dimenticarsi però di essere anche una serie che ruota attorno alla messa in onda di un programma televisivo alle prese con i modi più disparati di accaparrarsi l’attenzione di pubblico di investitori.
È proprio questo perfetto equilibrio tra ribalta e retroscena il punto vincente di GLOW che, pur essendo ambientato negli anni 80, riesce persino ad essere attuale quando parla di molestie sessuali da parte dei produttori nei confronti delle aspiranti attrici, mostrando da un lato come il sistema fosse marcio molto prima del recente del caso Weinstein, e dall’altro la diversa reazione che un evento del genere poteva scatenare in un’epoca diversa dalla nostra.

In GLOW c’è posto anche per le risate, ma c’è soprattutto un Girl Power vincente, brillante e lontano da ogni tipo di moralismo. E questa volta posso dire di aspettare con trepidazione l’arrivo della terza stagione!

di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it

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Dark Matter: Le vite che non abbiamo mai vissuto… con Joel Edgerton e Jennifer Connelly, su Apple Tv+

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“E se quel giorno, invece di aver fatto quella scelta, avessi…”. Quante volte nella vita ci siamo fatti questa domanda? E quante volte, al cinema, abbiamo visto personaggi in qualche modo sdoppiarsi in due, tra quella che è la loro vita e quella che sarebbe potuta essere? Dark Matter, la nuova serie Apple Original, disponibile dall’8 maggio su Apple Tv+, con i primi due episodi (seguiti da un nuovo capitolo settimanale fino al 26 giugno) ripropone ancora una volta questo tema, ma lo fa con un thriller oscuro e misterioso, intrigante ed ipnotico che tiene incollati allo schermo. Forse è il nuovo Lost, forse non lo è, perché siamo in territori, colori e interrogativi, ma è dalla serie di J.J. Abrams (e, volendo, dalla prima stagione di Westworld) che una serie non ci emozionava in questa maniera. Definito come uno dei migliori romanzi di fantascienza del decennio, Dark Matter è una storia sulla strada non percorsa. La serie Apple lo rende in una forma visiva sublime e con delle prestazioni attoriali estremamente intense. Dark Matter è una delle serie dell’anno.

Jason Dessen (Joel Edgerton) è un fisico, un professore e un padre di famiglia che vive una vita serena e felice a Chicago. Una notte, mentre torna a casa per le strade della città viene rapito da un misterioso uomo con una maschera bianca sul volto. Quando si risveglia, si rende conto di avere a che fare con delle persone che conosce. Tutti lo riconoscono, lui non riconosce tutti. Non riconosce il posto in cui si trova: sono stanze e corridoi grigi, ambulatori e laboratori di quella che sembra essere una grande azienda. Presto si rende conto di trovarsi in una versione alternativa della sua vita. Cerca di tornare alla sua realtà, ma non è affatto facile. Non ce n’è solo una, ma una serie di vite che avrebbe potuto vivere. Nel frattempo vediamo Jason tornare a casa, seppure in ritardo, dall’amata moglie Daniela (Jennifer Connelly). Come è possibile? Presto Jason capisce che dovrà salvare la sua famiglia dal nemico più terrificante e imbattibile che si possa immaginare: se stesso.

C’è una scatola. Dentro c’è un gatto. E un meccanismo che potrebbe farlo morire. Secondo una teoria c’è una possibilità, che il gatto sia vivo e morto allo stesso tempo. È il paradosso del gatto di Schrödinger che, tramite un disegno alla lavagna, Jason spiega ai suoi studenti. Secondo un’affascinante teoria di fisica quantistica le nostre scelte possono scatenare ogni volte infinite vite parallele, infiniti mondi. Proprio come quei videogame a scelta multipla, in cui, a ogni svolta, prende vita una strada diversa. La teoria al centro di Dark Matter è che questi mondi alternativi non siano teorici ma reali. E che qualcuno abbia trovato il modo per muoversi tra di essi. Sì, Dark Matter parla di multiverso. Ma non nella maniera in cui il cinema ne ha parlato finora.

Si tratta di fare una grande sospensione dell’incredulità e di farsi avvolgere dal racconto fino a precipitarvi inesorabilmente dentro. Non sarà difficile sospendere l’incredulità – in fondo non lo facciamo sempre di fronte a una serie o a un film? – e non vi preoccuperete molto di capire la teoria di fisica quantistica alla base del racconto. Perché Dark Matter è estremamente convincente sia per i mondi che costruisce, sia per la tensione e il dramma che provano i personaggi e arrivano dritti allo spettatore.

La regia e la fotografia disegnano un mondo grigio antracite, oscuro e misterioso. È un mondo di strutture metalliche fredde, levigate, di una tecnologia che ci sembra ostica, nemica. I toni dell’immagine poi cambiano, diventando più caldi o più freddi, a seconda della vita che stiamo seguendo. Il centro di gravità permanente della storia è quella scatola, quel cubo nero imponente come il monolite di Kubrick ed enigmatico come il cubo di Rubik. Lasciate ogni speranza voi che entrate, scriverebbe il poeta. Una volta dentro c’è un corridoio – sempre buio, sempre grigio – potenzialmente infinito. È un corridoio doloroso, perché dentro ci sono tutte le nostre occasioni perdute e forse quelle evitate. Ci sono i nostri rimorsi e i nostri rimpianti. Ci sono le nostre paure e le nostre incertezze. E anche le catastrofi.

E dentro questo limbo ci sono le persone, con i loro legami, i nostri sentimenti. Un uomo che vuole tornare dalla donna amata, dal figlio, da quella storia costruita con fatica, compromessi e rinunce, ma che è diventata una casa solida. Torniamo ancora a Lost, sperando di non nominare la parola invano, perché le storie tra Penny e Desmond e Jack e Kate si inserivano nel contesto del mistero, contribuendo e renderlo tutto ancora più intenso e caldo. Se Dark Matter è una serie riuscita lo dobbiamo anche alla trama sentimentale e agli attori che la mettono in scena. Joel Edgerton non è mai stato così a fuoco, così perfetto in una parte in tutta la sua carriera, e questa serie è la sua consacrazione: volto duro, spigoloso, ferito, ma con due occhi che possono essere ghiaccio o sciogliersi in sguardi dolenti e teneri. A tratti sembra di vedere il miglior Kurt Russell. Jennifer Connelly è al solito affascinante, e diversa a seconda dei mondi in cui si trova: moglie semplice e intrigante, con i capelli corti a caschetto e vestiti comodi, o artista irresistibilmente sexy con abiti da sera e capelli lunghi. Un’altra attrice che abbina bellezza e intensità e che, più di vent’anni dopo l’Oscar per A Beautiful Mind, si ritrova in una storia fatta di labirinti della mente.

Che sia il nuovo Lost o meno (quello che scriviamo è rischiosissimo, e ne siamo consci) Dark Matter è una grande serie, una delle serie dell’anno. È un racconto potente, intenso, e originale, pur contenendo in sé una serie di rimandi. L’architettura tecnologica, la famosa scatola dove si muovono i protagonisti (non dimentichiamo la bravissima e affascinante Alice Braga), ci rimanda alla fantascienza di The Cube, non solo per il marchingegno al centro del racconto, ma anche perché la serie, come in quel film, si pone interrogativi chiave delle nostre esistenze, il fondamentale che ci facciamo in questo mondo e dove stiamo andando”. Tra i riferimenti di Dark Matter ci sono anche i film che hanno parlato di realtà parallele, come Smoking/No Smoking e Sliding Doors (per non parlare dei paradossi temporali da Ricomincio da capo a Questione di tempo che finiscono, a loro modo, per creare mondi paralleli), ma l’originalità di Dark Matter è togliere tutto quello che di pop e di commedia ci fosse in quei film per portarci in un mondo angosciante. È c’è anche Face/Off. Pensate all’idea di guardare un uomo in volto, sapendo che dietro quel volto, in fondo, c’è qualcun altro. Altro non possiamo dirvi, non vi resta che sprofondare nel buio di Dark Matter.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Loro: La paura, il terrore e il razzismo arrivano su Prime Video

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Pam Grier appare subito, in una delle prime scene di Loro: La paura (Them: The Scare), seconda stagione della serie antologica horror creata da Little Marvin, disponibile in streaming su Prime Video. La presenza della famosa attrice afroamericana ci vuole dire subito una cosa: la nuova stagione di Loro, ambientata nel 1991, è un omaggio al cinema Blaxploitation degli anni Settanta e a quel cinema degli anni Novanta che lo ha riportato in auge. Ricorderete tutti Jackie Brown di Quentin Tarantino, che aveva scelto Pam Grier come protagonista proprio per riprendere quel mondo. Per questo Loro: La paura è un viaggio tra i Settanta e i Novanta, una nuova storia che rimane perfettamente coerente con quella della prima stagione di Loro.

Loro: La paura è ambientato ancora una volta nella contea di Los Angeles. La prima stagione, Loro: Covenant, era ambientata a Compton nel 1952. Adesso siamo nel 1991. La detective della squadra omicidi di Los Angeles Dawn Reeve (Deborah Ayorinde) è alle prese con un nuovo caso: il raccapricciante omicidio di una madre affidataria che ha lasciato scossi anche i detective più esperti. Nel pieno di un tumultuoso periodo a Los Angeles, con una città sul filo del caos, Dawn è determinata a fermare l’assassino. Mentre si avvicina alla verità, qualcosa di sinistro attanaglia lei e la sua famiglia…

Il senso di Loro, sin dalla prima stagione, è stato quello di sublimare attraverso l’horror l’orrore. Il genere, il soprannaturale, lo spaventoso erano un veicolo per raccontare qualcos’altro di molto raccapricciante: il comportamento dei bianchi verso le persone afroamericane. Così, in Loro: Covenant, seguivamo, sconvolti, quello che accadeva a una famiglia di neri che si era appena trasferita in un quartiere benestante. L’horror arrivava in un secondo momento, era spaventoso, certo. Eppure a lasciarci sconvolti era il comportamento quotidiano delle persone.

Loro: La paura continua sulla sua strada di denuncia sociale, ma l’horror vira più sul thriller. La protagonista, infatti, è un’investigatrice che segue il caso di un serial killer. L’atmosfera funziona, tra colori chiari e omogenei, che ci riportano allo stile di un certo cinema indie anni Novanta, accesi da toni di rosso e nero che sono indispensabili al racconto. C’è molto David Fincher in questa storia. Guardate l’arrivo della polizia sul primo luogo del delitto, e vi verrà in mente l’incipit di Seven, in cui la polizia squarcia il buio con la sola luce delle sue torce. Più tardi, parlando delle modalità di comportamento del killer, si fa riferimento al caso Zodiac, che era stato raccontato da David Fincher nell’omonimo film.

Gli anni Novanta in cui si muove Loro: La paura sono anche quelli del famoso caso di Rodney King, il tassista afroamericano che fu pestato violentemente della polizia nel marzo del 1991, mentre qualcuno stava riprendendo la scena per un video che fece il giro del mondo, denunciando il razzismo e gli abusi della polizia sui neri americani (un caso simile, tristemente, è accaduto di nuovo proprio pochi giorni fa). Il pestaggio a King scatenò violenti disordini a Los Angeles nei giorni successivi alla diffusione del video e ad una grande sommossa un anno dopo, quando i poliziotti accusati vennero assolti. È in questa atmosfera che vive la nuova stagione di Loro. Ed è una grande scelta, perché è un momento chiave del razzismo in America.

Un razzismo che, in Loro: La paura, viviamo però in ogni sequenza. Seguiamo Dawn, che è una donna realizzata, emancipata, una stimata detective del LAPD, ma che è continuamente sminuita in tutta una serie di modi. È razzismo se Dawn viene affiancata da un altro collega (maschio, bianco, più anziano) per un’indagine, e se non viene dato credito alle sue piste. È razzismo se, chiedendo di poter parcheggiare nel cortile del dipartimento, viene apostrofata con epiteti che potete immaginare. È razzismo se, a ogni sua mossa, viene liquidata con delle battute. Se anche una poliziotta viene discriminata, figuratevi chi è al di fuori della polizia.

Dawn è interpretata da Deborah Ayorinde (già nel cast della prima stagione, in un altro ruolo), una vera rivelazione: un volto fiero, un piglio orgoglioso, una personalità notevole e anche una dose di sex appeal che ne fa una protagonista perfetta, un personaggio definito a tutto tondo. L’attrice storica Pam Grier interpreta la madre Athena. I bianchi, e il loro razzismo, sono interpretati da Wayne Knight, caratterista visto in molti film di Hollywood, che è il capo della polizia, Schiff, e da Jeremy Bobb, che è il viscido detective Ronald McKinney, che segue le indagini insieme a Dawn. Ma l’altra rivelazione della serie è Luke James, nel ruolo di Edmund, un ragazzo che lavora in un ristorante – parco giochi per bambini, e che è un aspirante attore. Quando, per prepararsi al provino per il ruolo di un serial killer, comincia a entrare nel ruolo, assistiamo a una serie di trasformazioni, prima goffe e poi sempre più inquietanti.

Loro: La paura viaggia tra gli anni Ottanta e Novanta anche attraverso la musica, black e non solo. C’è il pop di Rockwell con Somebody’s Watching Me (la canzone che era nata come risposta a Thriller di Michael Jackson), il rap dei Run DMC con gli Aerosmith di Walk This Way, il cool jazz di Sade e Your Love Is King. E anche un po’ di sano hard rock, con i Guns’n’Roses e Welcome To The Jungle. Little Marvin, ancora una volta, riesce a colpirci con il perturbante, con la paura che nasce da quelli che dovrebbero essere i luoghi più sicuri, gli angoli della casa. Ma che cos’è dunque la paura? “La paura è il dolore che sorge dall’anticipazione del Male”. Lo diceva Aristotele.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

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La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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