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Club Zero: Mia Wasikowska è come il Pifferaio di Hamelin. E ci parla di disturbi alimentari

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Mia Wasikowska, lo ricorderete, era stata Alice nel Paese delle Meraviglie per Tim Burton. Anche in Club Zero, il film di Jessica Hausner presentato a Cannes (e poi ad Alice nella Città, nell’ambito della Festa del Cinema di Roma) che arriva al cinema il 9 novembre, è qui per condurci in un mondo completamente nuovo. Non è la tana del Bianconiglio, ma è il mondo dell’alimentazione consapevole. In Club Zero, infatti, è Miss Novak, una nuova nutrizionista ingaggiata come insegnante da un’esclusiva scuola. La vediamo dalla prima lezione, con un ristretto gruppo di ragazzi. C’è chi è lì per ridurre la massa grassa e riuscire meglio nello sport, chi perché, con una nuova alimentazione, spera di migliorare l’ambiente, chi è lì per migliorare il curriculum scolastico e prendere una borsa di studio. Miss Novak apre a loro un mondo nuovo. Lo vedremo in questo film provocatorio, disturbante, controverso, ma che fissa uno dei nervi scoperti della società di oggi.

L’alimentazione consapevole consiste nel ridurre gradualmente la quantità di cibo che si mangia. Tagliare il cibo in bocconi molto piccoli, per farlo durare di più, respirare prima di ingoiare, masticare molto lentamente. Il passo successivo è mangiare, durante un pasto, cibo di un solo genere. Possibilmente, solo verdura. Il punto di approdo, lo si capisce man mano che avanza il film, è sempre più chiaro: arrivare a zero, a zero bisogno di cibo. La teoria si basa sull’autofagia: il concetto che, una volta non nutrite, le cellule si nutrano da sole ingoiandone altre. E questo, secondo Miss Novak, dovrebbe portare a una purificazione, all’eliminazione delle cellule malate, a meno stanchezza. E a una vita più lunga.

Ovviamente è un film. E come tale va preso. E la regista Jessica Hausner fa di tutto per rendere il racconto non realistico ma astratto, nella sua natura di metafora e iperbole. Vedere il film senza il giusto distacco sarebbe pericoloso. Ma è un film importante, che porta all’eccesso certe teorie che, in nome della salute, dell’ambiente (e anche, secondo i protagonisti, di una lotta al consumismo), arrivano a un punto di non ritorno finendo per essere nocive. Quella sorta di lavaggio del cervello che l’insegnante fa ai ragazzi, infatti, riesce a ribaltare completamente la realtà e lo stato delle cose. Mangiare non è necessario, è chi mangia che vuole convincere gli altri del resto.

Jessica Hausner con Club Zero tocca uno dei temi più sottovalutati di oggi, i disturbi alimentari tra i ragazzi, che, solo in Italia, hanno numeri impressionanti. Con questo film estremo, con questa iperbole, mette in relazione le abitudini alimentari con l’aspetto psicologico e con le imposizioni della società. Qui c’è una persona che dà ai ragazzi dei messaggi precisi e convincenti. Ma, nel mondo reale, i messaggi sono di vari tipi e condizionano molto delle persone, come gli adolescenti, che hanno una personalità ancora in via di formazione.

Come vi abbiamo detto, Jessica Hausner racconta tutto questo nella maniera più astratta possibile. Mette i ragazzi in una cornice particolare, una scuola scarna e asettica, con ambienti vuoti e arredi vintage, eleganti ma freddi, e fuori dal tempo. Illumina tutto con una luce chiara, come se fossimo in un edificio in cui le luci sono tutte accese, e sempre. E colora i ragazzi con dei colori chiari, tenui: il giallo e il caki delle divise scolastiche, l’arancione e l’azzurro delle polo Ralph Lauren di Miss Novak. Siamo ai giorni nostri, ci sono i computer con le videochiamate su Zoom, eppure potremmo essere in qualsiasi tempo e luogo.

È come se fossimo in una rappresentazione teatrale. Jessica Hausner ci tiene a farci capire che questa non è la realtà, anche per evitare atti di emulazione, ma è un simbolo, un caso limite, un’operetta morale. Per farci arrivare il suo messaggio passa anche da scene forti e provocatorie. E usa uno stile piuttosto radicale: l’inquadratura è spesso fissa, centrale (o ripresa dall’alto, e di lato, come se fosse quella di una camera di sorveglianza). Di tanto in tanto alcuni lenti zoom ci avvicinano alla persona che stiamo guardando. È una regia che, in questo modo, ci costringe a guardare, a vedere, in modo che non si possa non porre l’attenzione sui protagonisti e i loro comportamenti. Non abbiamo un campo/controcampo in cui distogliere lo sguardo e porlo su un’altra persona.

E torniamo a Mia Wasikowska. La nostra Alice stavolta è diventata una perfida Regina di Cuori che, è chiaro, sta giocando con la vita delle persone, come se fossero i propri sudditi. È come una sorta di Pifferaio di Hamelin che, con i suoi modi incantati, distoglie i più giovani dai loro genitori e li allontana per sempre da loro. L’attrice ha in sé un che di inquietante, con la sua pelle diafana, i tratti duri, il contegno inespressivo e raffreddato che, come a tutti gli altri attori, Jessica Hausner le ha chiesto. Ma non siamo in Alice nel Paese delle Meraviglie. Club Zero non è il Sottomondo dal quale si può tornare indietro. Dal Club Zero non si torna più.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Napoleon: The Rise And Fall Of Napoleone Bonaparte. Firma Ridley Scott, con Joaquin Phoenix

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Inizia con la salita al patibolo di Maria Antonietta, e con la sua testa bionda mozzata da una ghigliottina, Napoleon, il film di Ridley Scott con protagonista il premio Oscar Joaquin Phoenix nella parte dell’imperatore francese Napoleone Bonaparte, nelle sale italiane dal 23 novembre distribuito da Eagle Pictures. Tra la folla esaltata ed esaltante c’è anche lui, Napoleone Bonaparte, militare corso arrivato ai vertici dell’esercito francese, ma destinato a qualcosa di ancora più grande. È il 1793. Da quella prima immagine capiamo tante cose. Che il Napoleon di Ridley Scott sarà un film duro, cruento, come erano i tempi in cui è ambientato e come i quadri dell’epoca, che in alcune sequenze sembrano prendere vita, non riuscivano a raccontare completamente. Che sarà un film che ci metterà di fronte ad alcune svolte della storia. E, soprattutto, sarà un film che proverà a sondare il mistero di Napoleone, personaggio famosissimo eppure enigmatico e controverso. Il Napoleon di Ridley Scott è, pare banale dirlo, un kolossal d’altri tempi, un grande affresco storico, con grandi attori e sequenze spettacolari.

The Rise And Fall Of Napoleon Bonaparte
Napoleon racconta l’epica ascesa e caduta dell’imperatore francese Napoleone Bonaparte, interpretato dal premio Oscar Joaquin Phoenix e diretto dal leggendario regista Ridley Scott. Il film ripercorre l’inarrestabile scalata al potere di Bonaparte attraverso la burrascosa relazione con il suo unico vero amore, Giuseppina di Beauharnais, mostrando le visionarie strategie politiche e militari del grande condottiero in alcune delle scene di battaglia più realistiche e spettacolari mai realizzate.

Ridley Scott nel segno (e nel sogno) di Stanley Kubrick
Girare un film su Napoleone era il grande sogno mai realizzato di Stanley Kubrick. Ed è anche nel nome del grande Maestro, senza voler ovviamente fare paragoni, che Ridley Scott ha dato vita a questo progetto. Il suo desiderio era proprio quello di riprendere in mano quell’idea dove Kubrick si era fermato. E allora il film di Ridley Scott parte da alcuni tratti che erano propri del Barry Lindon di Kubrick: dipinti d’epoca che sembrano prendere vita, ed esplodere in quella brutalità e quel movimento che un quadro per sua natura non può avere. Di quel capolavoro di Kubrick, talvolta, Scott prende anche l’idea di usare, o almeno questo è l’effetto, la luce naturale per l’illuminazione di alcune scene, vedi le candele per gli interni nel teatro dove, per la prima volta, Napoleone incontra Giuseppina. Ma anche Scott con il suo primo film, I Duellanti, parlava di Napoleone, anche se Napoleone non c’era.

Quadri antichi che prendono vita e ti avvolgono
E così quei quadri antichi prendono vita, ti risucchiano dentro e ti avvolgono. Merito anche di un’affascinante fotografia (di Darius Wolski) fumosa, polverosa, che sa di quella carta ingiallita di certe foto e carte d’epoca. Quelle di Ridley Scott sono immagini che colpiscono. Come quei fuochi e quelle esplosioni che squarciano il buio della notte. Colpiscono alcune scene sanguinose, come quel cavallo squarciato da una palla di cannone. È quasi una regola non scritta che il film storico, in costume, abbia una sua eleganza, una staticità, come se si dovesse leggere un libro di storia. Ma il Napoleon di Ridley Scott invece vive della crudeltà di quei tempi che, in una storia fatta soprattutto di nozioni, a noi non era mai davvero arrivata.

Joaquin Phoenix, un Napoleone imperturbabile
Al centro di un universo in continuo movimento c’è lui, spesso fermo, come il sole intorno a cui tutti ruotano. È colui che fa muovere le cose, l’uomo che volle farsi re, il condottiero che si fece imperatore, come Giulio Cesare, non a caso uno dei modelli di Napoleone. Joaquin Phoenix impersona Bonaparte con quegli inconfondibili occhi a mezz’asta, le profonde occhiaie. Ha quel particolare tratto delle labbra, che è tipico del suo volto, che nel personaggio di Napoleone sembra quasi un ghigno di sdegno, di superiorità verso il resto del mondo. E quell’espressione quasi impassibile, imperturbabile, che non lascia trasparire nulla, mentre dentro quella testa sai che si sta agitando un mondo.

Vanessa Kirby è Giuseppina, ghiaccio e saette
Se si sta agitando un mondo è per via delle sue idee, la sua sete di conquista. E anche per le pene d’amore. Napoleon è la storia di un uomo che ha conquistato il mondo ma è in balia di una donna, Giuseppina Bonaparte, da cui è completamente dipendente. Che sia in Egitto, che sia in Russia a combattere, il suo pensiero va a lei. Vanessa Kirby, nel ruolo di Giuseppina, entra in scena con i capelli castani, corti, che oggi ci sembrano un anacronistico taglio punk ma che erano l’effetto dei mesi passati in galera. Il trucco pesante, la profonda scollatura, fanno di Giuseppina una donna immediatamente sensuale, di una bellezza sfrontata, come è il suo carattere. Come quegli occhi blu ghiaccio, che un attimo sono freddi e un attimo sembrano mandare saette. Un ghiaccio che si scioglie in lacrime, dopo l’ira di Napoleone. Per tornare, poco dopo, ad essere uno sguardo dominante.

Napoleone e le fake news
L’immagine dei quadri d’epoca, la struttura del romanzo epistolare, con la voce narrante che legge delle lettere, la patina della fotografia fanno di Napoleon un film che sembra un classico uscito da altri tempi. Eppure ha un messaggio anche molto moderno. Pensiamo alla scena in cui Napoleone e i suoi mettono in atto un colpo di stato, destituendo gli attuali organi di rappresentanza e di governo. C’è ovviamente una controreazione di chi è stato destituito, ma Napoleone, uscendo e rivolgendosi ai militari, dice che è stato aggredito, e quello è stato un attentato alla libertà. È qualcosa che anticipa le fake news e la manipolazione dei media e della politica di oggi. Un motivo in più per vedere un film che, pensato per essere un’opera molto più lunga (dopo le sale uscirà su Apple Tv+) e che è stata ridotta per il cinema, a momenti dà l’idea di andare veloce, di sorvolare su alcune cose. Ma è un’opera che, finita la visione, resta impressa a lungo. Abbiamo ancora negli occhi quell’uomo, alla guida di un esercito, che dà il segnale e si tappa le orecchie per non sentire il frastuono dei cannoni.

Di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente: Sorridete… è per questo che abbiamo i denti!

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In una città devastata, rasa al suolo, si muore di fame. Due bambini si aggirano tra le macerie in cerca di cibo, come cani randagi. Uno di loro, lo capiamo non appena torna a casa, è Coriolanus Snow, il dittatore che abbiamo conosciuto, ormai anziano, con il volto di Donald Sutherland, nella saga di Hunger Games. Quella guerra civile che, come sappiamo, ha distrutto gli Stati Uniti d’America e l’ha resa una dittatura, con una città egemone e 12 distretti lasciati a morire di fame, ha portato via il padre a Coriolanus. Una volta cresciuto, dovrà farcela da solo. Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente, prequel della fortunata saga tratta dai libri di Suzanne Collins che arriva al cinema il 15 novembre, è questo: la storia dell’ascesa di Coriolonanus Snow, il suo romanzo di formazione, il suo passaggio al Lato Oscuro. E proprio per questo promette di essere interessante. Lo è davvero?

Anni prima di diventare il tirannico presidente di Panem, il diciottenne Coriolanus Snow (Tom Blyth) è l’ultima speranza per il buon nome della sua casata in declino: un’orgogliosa famiglia caduta in disgrazia nel dopoguerra di Capitol City. Con l’avvicinarsi della decima edizione degli Hunger Games, il giovane Snow teme per la sua reputazione poiché nominato mentore di Lucy Grey Baird (Rachel Zegler), la ragazza tributo del miserabile Distretto 12. Ma quando Lucy Grey magnetizza l’intera nazione di Panem cantando con aria di sfida alla cerimonia della mietitura, Snow comprende che potrebbe ribaltare la situazione a suo favore. Unendo i loro istinti per lo spettacolo e l’astuzia politica, Snow e Lucy mireranno alla sopravvivenza dando vita a una corsa contro il tempo che decreterà chi è l’usignolo e chi il serpente.

Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente, allora, ci riporta indietro nel tempo, per capire cos’erano gli Hunger Games, per che motivo erano stati creati e che cosa sono diventati. I giochi erano nati come una punizione, una sorta di sacrificio umano, per i distretti che si erano ribellati a Capitol City, un monito a non provarci più. Ma, nel corso dell’edizione che ci viene raccontata, c’è chi intuisce che gli Hunger Games possono diventare uno spettacolo. È per questo che, quando c’è chi suggerisce che i “tributi” vanno visti come esseri umani, c’è chi pensa che sia una buona idea. Ma non per un fatto di diritti umani. Se il pubblico terrà ai “tributi”, vedrà volentieri gli Hunger Games. Da punizione, a oppio dei popoli, panacea per accettare la dittatura. L’evoluzione degli Hunger Games è iniziata qui.

Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente è quindi un prequel e, soprattutto, è un’origin story. Ma è l’origin story di un villain. E questo, come si può immaginare, rende tutto più interessante. In questo senso, il nuovo film della saga è vicino al racconto che era alla base della trilogia “prequel” di Star Wars di George Lucas, gli episodi I, II e III, che vedevano un giovane Anakin Skywalker, un eroe positivo, scivolare verso il Lato Oscuro e diventare l’opposto di quello che era. Coriolanus Snow sembra essere molto simile ad Anakin: è giovane, bellissimo, biondo, e animato da nobili sentimenti. Ma, già nel corso di questa storia, nei suoi ideali, nelle sue azioni, cominciano a crearsi delle crepe, delle ombre. Coriolanus sta cambiando. E avrà bisogno di altri film per compiere questo arco narrativo.

C’è un momento in cui, all’inizio dei giochi, viene detto alla giovane Lucy Grey di sistemarsi, per rendersi più “vendibile”. E, come gli altri film della saga anche qui si ragiona sul valore delle apparenze, dell’immagine. Siamo in un altro tempo e in un altro luogo, un’America di un medioevo prossimo venturo che riparte da zero, ma è chiaro che ancora una volta il mondo di Hunger Games vuole parlarci del qui e ora. Della società dell’immagine, di qualsiasi elemento, anche la guerra, che diventa spettacolo. Dell’intrattenimento elargito alle masse per obnubilarle e renderle disposte ad accettare tutto. E anche – questo è il cuore della saga degli Hunger Games – del difficile passaggi all’età adulta dei giovani d’oggi (in realtà di già due o tre generazioni) lasciati senza speranze, a sgomitare l’uno contro l’altro in un’eterna contesa alla ricerca del proprio, ristretto, posto nel mondo.

L’iconografia di questo nuovo Hunger Games è leggermente diversa da quella della saga principale. Lì c’era un misto di iconografia dell’antica Roma e di abiti futuristici ed eccessivi, irreali, a suggerire una dimensione leggermente fantasy e astratta dall’oggi che è un classico di certe saghe young adult. Perché l’astrazione rende le cose lontane dal mondo di oggi e facilita la metafora. Qui ci sono molti richiami al Nazismo e alla Seconda Guerra Mondiale: guardate soprattutto quegli elmi e quelle uniformi dei soldati di Capitol City, o quei treni su cui arrivano in città i “tributi”, che sembrano tanto quelli delle deportazioni. Questo rende il mondo di Hunger Games in qualche modo più vicino a noi, più tangibile. E questo ci fa più paura. Perché è qualcosa che l’umanità ha davvero vissuto.

Ed è proprio questo che ci lascia un po’ perplessi assistendo a questo Hunger Games – La ballata dell’usignolo e del serpente. Che è, certo, un film godibile e che intrattiene. Il fatto è che il tono ci sembra distante da quello che era la saga di Hunger Games. È più duro, più violento, molto più violento. Pur nella loro crudeltà, gli Hunger Games che avevamo visto finora erano più astratti, più “pop”. La competizione avveniva in campo aperto, in parte come uno sport, anche se si moriva. C’erano gli archi e le frecce di Katniss Everdeen. Qui invece siamo in una claustrofobica e fatiscente arena chiusa, e ci si uccide a mani nude, con coltelli, con lance, asce. Si viene impiccati. Tutto questo avrebbe anche un senso: siamo molti anni prima degli Hunger Games come li conoscevamo, subito dopo una guerra, in un mondo più primitivo, incattivito. In fondo questa, dai libri per arrivare ai film, è una saga young adult, quindi dedicata a un pubblico di giovanissimi. Se la saga cinematografica originale riusciva a sublimare in qualche modo la violenza e la morte, qui è tutto più esplicito, dichiarato. E per quel pubblico potrebbe essere troppo forte.

A non convincere è anche l’attrice principale. Rachel Zegler, la protagonista, è somaticamente agli antipodi di Jennifer Lawrence, che era la protagonista della saga originale. Minuta, dal viso spigoloso, i capelli corvini, la pelle ambrata, Rachel Zegler ha una voce strepitosa, che è una delle chiavi del suo personaggio. Ma ci sembra che sia continuamente in overacting, con troppe facce, troppe espressioni insistite. Accanto a lei, Tom Blyth è un Coriolanus Snow avvenente e affascinante. Il rapporto tra i due è sfaccettato, ambiguo. Ed è qualcosa che, molto probabilmente, continueremo a vedere nei prossimi film. Si esce dalla visione del film con alcune frasi impresse in mente. Una di queste, che racchiude tutto il senso degli Hunger Games e del film, è questa. “Sorridete… è per questo che abbiamo i denti”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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The Marvels: Dov’è l’epica dei film degli Avengers? Ma la Marvel tornerà grande

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Ricordate Carol Danvers, alias Captain Marvel? Il primo film standalone di Captain Marvel, eroina con il volto di Brie Larson, era arrivato trionfalmente qualche anno fa, proprio tra i due film finali degli Avengers, Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame, nel momento più alto raggiunto dal Marvel Cinematic Universe. Era quel momento magico in cui attendevamo ogni film della Marvel come il tassello di un mosaico, come il capitolo di un lungo romanzo che ci avrebbe portato a un entusiasmante finale. Captain Marvel era il penultimo capitolo, e la protagonista era il personaggio che a suo modo avrebbe fatto svoltare la storia, salvare gli Avengers, salvare il mondo. Un Captain Marvel 2, un altro film standalone sull’eroina, non c’è mai stato. E ora Carol Danvers ritorna in un nuovo film, The Marvels, al cinema dall’8 novembre, in cui è inserita in una piccola squadra tutta al femminile. Ma, nel frattempo, i tempi sono cambiati. I grandi personaggi Marvel se ne sono andati, quelli nuovi non hanno fatto breccia e le loro storie sono andate perdute come lacrime nella pioggia. E l’uscita di un film Marvel non è più quell’evento che era fino a qualche anno fa. E anche il box office ne risente.

Che cos’è allora questo The Marvels? Nel nuovo film Carol Danvers alias Captain Marvel (Brie Larson) ha recuperato la propria identità dai tirannici Kree e si è vendicata della Suprema Intelligenza. Ma a causa di conseguenze impreviste, Carol deve farsi carico del peso di un universo destabilizzato. Quando i suoi compiti la portano in un wormhole anomalo collegato a un rivoluzionario Kree, i suoi poteri si intrecciano con quelli della sua super fan di Jersey City, Kamala Khan, alias Ms.  Marvel (Iman Vellani), e con quelli della nipote di Carol, il capitano Monica Rambeau (Teyonah Parris), diventata ora un’astronauta S.A.B.E.R.. Insieme, questo improbabile trio deve fare squadra e imparare a lavorare in sinergia per salvare l’universo come “The Marvels”.

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Adesso possiamo dirlo. La Fase 4 del Marvel Cinematic Universe non ha funzionato. E anche questo film sembra seguire un filone un po’ stanco. Sembra quasi di non riconoscerla, la nostra Captain Marvel. Era il simbolo dell’empowerment femminile, era la più forte e potente di tutti, capace anche di sconfiggere Thanos, una prima volta, spezzandogli il collo. Qui viene inserita in una storia che, per gran parte della sua durata, procede con dei toni tra la sitcom e la farsa, tra gag, battutine, e un senso continuo di scherzo che, ben lontano da quell’ironia presente nel primo film, fa sì che non si entri davvero mai nella storia

Brie Larson è comunque una sicurezza. È affascinante, sinuosa, atletica e formosa, che sia in canotta bianca o nella sua tuta d’ordinanza che le fascia il corpo. Ha quel sorriso tipico, un po’ a denti stretti, con le labbra sottili che, da serrate, si schiudono appena. Ha la mascella volitiva di un’eroina, ma anche un volto che ha le guance di una bambina. Tutto questo la rende allo stesso tempo un’eroina perfetta, ma anche una persona molto terrena, vicina a noi. Un personaggio capace di empatia. Per questo vederla in un film così ci lascia perplessi. Sia Brie Larson che Carol Danvers, il suo personaggio, meritano di più.

Il film procede così nella storia di questo trio, in realtà un gioco di coppie che si avvicendano sulla scena. I duetti tra Carol e Monica sono quelli di due persone molto vicine, che si vogliono bene, è più intenso. Quelli tra Carol e Kamala sono quelli tra una star e la sua fan, tra maestro e apprendista, tra Jedi e Padawan, e sono più buffi, più comici. The Marvels sembra essere costruito per parlarci di integrazione: il trio è composto da una donna bianca, wasp, un’afroamericana e una ragazza di origine asiatica. E il personaggio di Kamala ci vuole dire che si può essere un supereroe anche con un corpo normale e non da atleta.

Tutto questo avrebbe anche un senso. Ma poi il film si perde tra gag improbabili, farsesche. Il pianeta in cui gli abitanti parlano cantando è una delle cose peggiori viste in un film Marvel, e anche il cattivo è uno dei peggiori villain di sempre del mondo Marvel: Zawe Ashton, per quanto sia truccata, ha un volto troppo buono, pacioso, simpatico. Geniale, invece, inserire Memory, la canzone scritta da Andrew Lloyd Webber per il musical Cats, in una scena con protagonisti i gatti. È una delle cose migliori di un film dove è andata perduta completamente l’epica dei film degli Avengers. Ma attenzione all’ultima scena e alla scena post credits, che come al solito sono una delle chiavi dei film Marvel. Sono in arrivo gli Young Avengers. E gli X-Men. Saranno loro a salvarci, allora. E la Marvel tornerà grande.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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