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Moonage Daydream: Chiedi chi era David Bowie

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“Chi è? Da dove viene? È una presenza aliena?”. Così una voce introduce David Bowie sul palco prima di un concerto, in una delle prime scene di Moonage Daydream, il film di Brett Morgen dedicato al Duca Bianco, in esclusiva IMAX dal 15 al 21 settembre e dal 26 al 28 settembre al cinema. Il film prova a rispondere alla domanda “chi è David Bowie”, ma non nella maniera che chiunque si aspetterebbe, con il classico documentario fatto di interviste, testimonianze e ricostruzioni esatte e cronologiche dei fatti. Prova a rispondere alla domanda facendoci provare le emozioni profonde che la sua musica, i suoi video, le sue idee ci suscitano. Moonage Daydream è un viaggio nel mondo – anzi nei tanti mondi – di David Bowie, un film emotivo e immersivo, irresistibile e stordente. È un’esperienza totalizzante, a cui abbandonarsi, assolutamente in sala, un flusso di coscienza fatto di musica, immagini e parole da cui farsi travolgere. Probabilmente l’esperienza più vicina a un concerto di David Bowie che possiate vivere oggi.

Chi è allora David Bowie? È stato un simbolo, un modello per molte persone che avevano bisogno di trovare se stesse, la loro identità, il loro posto nel mondo. Il periodo di Ziggy Stardust, quel vestirsi in modo così personale, “vistoso”, come lo definisce lui, è servito a tante persone per liberare il proprio io, la propria personalità, per apparire ed essere chi davvero sentivano di essere. Ognuno, finalmente, poteva essere un “individuo” e non solo parte di una massa. Il suo Ziggy Stardust era nato per raffigurare una rockstar aliena, che riunisse maschile e femminile in sé, come alcune divinità del passato. Ma ognuno poi ci ha trovato dei significati, ognuno si è fatto la sua idea di Ziggy “Era un miscuglio di tante idee. Ci siamo presi la responsabilità di creare il XXI secolo nel 1971”. Le esibizioni dal vivo del periodo di Ziggy Stardust, le foto di Mick Rock prendono lo spazio per tutta la prima parte del film. Assistiamo anche alla famosa posa in cui, simulando una fellatio, Bowie si avvicinava alla chitarra di Mick Ronson e fingeva di suonarla con la bocca.

David Bowie ha scelto di diventare una rockstar anche per quell’aura di mistero che un tempo aveva il mondo della musica. “Ascoltavo Fats Domino senza capire una sola parola dei testi che ha scritto. Rendeva tutto più misterioso. Volevo far parte di quel mondo magico”. E magico David Bowie lo è stato davvero, il mistero delle star del rock è qualcosa che in lui è convissuto con la continua voglia di cambiare e sperimentare. “Molti cambiamenti della mia carriera musicale sono stati una sfida con me stesso”. Tutto questo è evidente in tutta la sua vita artistica, ma soprattutto nella parte che riguarda la “Trilogia Berlinese”, i suoi album Low, “Heroes” e Lodger. Così come si sente la sorpresa per la mancanza di sperimentazione nel periodo di Let’s Dance, che però Brett Morgen, che ammette di non aver compreso appieno quel periodo, qui ci fa capire le sue ragioni, quella voglia di fare una musica più semplice e diretta di diventare semplicemente un performer.

Brett Morgen racconta tutto questo accostando immagini di epoche diverse, mescolando versioni diverse, eseguite in diversi periodi, della stessa canzone. Così una Space Oddity eseguita negli anni Novanta sfuma in una eseguita negli anni Settanta. Il montaggio di Brett Morgen non è mai scontato, non segue una logica prettamente cronologica, ma segue suggestioni, affinità elettive, influenze. A volte sembra che, grazie al montaggio, il Bowie più giovane e quello più maturo si guardino tra loro, si scambino dei cenni di intesa. È come se assistessimo a un Big Bang con migliaia di frammenti, quelli che formano l’eclettico universo di Bowie, a viaggiare sullo schermo per poi riunirsi, Le tante anime di Bowie, e le sue influenze musicali, cinematografiche, artistiche, alla fine si legano tra loro per dare vita a un artista unico e irripetibile.

Brett Morgen ha avuto accesso a un enorme archivio e ha scrutato per anni il materiale a disposizione, cercando di regalare ai fan il materiale più inedito, quello meno scontato, quello che probabilmente non avevano mai visto. Il risultato è strepitoso, è un’opera monumentale in cui ognuno di noi può scegliere il momento preferito, quello da cui farsi sorprendere. Ci sono dei frammenti del famoso documentario Cracked Actor, che coglie David Bowie, intervistato in un’auto, nel massimo della sua paranoia nel periodo americano, negli anni Settanta, da cui è stata tratta ispirazione per alcune scene de L’uomo che cadde sulla Terra (vediamo molte sequenze di quel film, insieme agli altri in cui ha recitato). Vediamo una straordinaria versione di “Heroes” dall’Isolar Tour, quello che seguì l’album in questione. Ascoltiamo World On A Wing mentre la voce di Bowie, da interviste di repertorio, racconta il suo incontro con Iman. È l’unico accenno alla sua vita privata, della prima moglie e del primo figlio non c’è menzione.

La sua vita si è tinta di rosa, racconta Bowie. Proprio lui che, fino a qualche anno prima, nelle interviste diceva di evitare l’amore per evitare distrazioni nella sua arte, di essersi costruito una corazza contro l’amore. Lui che aveva raccontato di non aver mai avuto un orsacchiotto da piccolo, che non gli erano mai piaciute le cose da bambini. Anche se non si racconta la sua vita privata, conosciamo comunque un Bowie intimo, spirituale, profondo. “Crede in Dio?” “Credo in una forma di energia a cui non vorrei dare il nome. Amo la vita, tanto”. In Moonage Daydream ci sono l’immagine, la musica, ma anche la spiritualità di David Bowie, la sua visione personale della fede e di Dio.

Ma David Bowie crede anche nel caos. “Il mondo ha deciso di rifiutare il caos, che invece fa parte delle nostre vite”. Il caos come ispirazione, come spinta creativa. E, se ci pensate, è quello che accade proprio in Moonage Daydream, un caos di immagini e di spunti dove, però, tutto trova magicamente senso, unità, coesione. È davvero un nuovo modo di raccontare i grandi della musica (l’idea di Morgen di un film di questo tipo inizialmente era destinata ai Beatles), senza racchiuderla negli stereotipi del biopic con le storie di caduta e redenzione, senza attori destinati a “imitare” e non “essere” gli artisti in questione, senza regole e paletti. Con Moonage Daydream Brett Morgen ha trovato il modo perfetto per raccontare David Bowie. E di film come questo ne vorremmo tanti altri.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Academy Awards 2023: Michelle Yeoh, Jamie Lee Curtis, Ke Huy Quan e Brendan Fraser, volti da Oscar

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Gli Academy Awards, per tutti noti come i premi Oscar, del 2023, verranno ricordati come il trionfo di Everything Everywhere All At Once, partito in sordina nella stagione cinematografica e arrivato a vincere per 7 statuette, tra cui quasi tutte le categorie principali. Everything Everywhere All At Once, diretto da The Daniels, “il film sul multiverso” è la storia di un’immigrata cinese che si trova a salvare il mondo. Il nostro racconto sugli attori da Oscar, allora, non può che partire da questo film. Michelle Yeoh ha vinto l’ambita statuetta come miglior attrice protagonista, Jamie Lee Curtis è stata giudicata la migliore attrice non protagonista e Ke Huy Quan il miglior attore non protagonista. Unico “intruso” – ma che intruso – è stato Brendan Fraser, miglior attore protagonista per il toccante The Whale di Darren Aronofsky.

Michelle Yeoh: l’azione come una danza
Michelle Yeoh è stata la prima attrice asiatica a vincere un Oscar. Per chi segue il cinema asiatico e per chi ama i film d’azione Michelle Yeoh non è assolutamente una novità: la vediamo da anni, sui grandi schermi, a unire grazia e potenza, leggiadria e forza, gentilezza e decisione. “Float like a butterfly, sting like a bee”, “Vola come una farfalla, pungi come un’ape”, il motto coniato da Cassius Clay/Muhammad Ali, potrebbe essere benissimo stato scritto per lei. La prima volta che abbiamo visto Michelle Yeoh, attrice malese di origini cinesi, è stato in un film di James Bond, Il Domani non muore mai. Era una delle prime volte che una Bond Girl era una vera e propria eroina d’azione: volava letteralmente tra un edificio e un altro, combatteva da esperta di arti marziali, non aveva paura di niente. L’avremmo vista qualche anno dopo ne La tigre e il dragone di Ang Lee, un film in cui era nel suo ambiente naturale, in un wuxiapian cinese in cui i combattimenti sono una vera e propria danza. Non è un caso: Michelle Yeoh, ispirata dal film Saranno famosi (Fame) ha iniziato come ballerina, da bambina, e solo un incidente alla spina dorsale, avvenuto durante le prove, ha fermato la sua carriera, facendole pensare a dare vita una scuola di danza. La danza, in qualche modo è rimasta in lei. Perché Michelle Yeoh, in ogni sequenza d’azione, sembra davvero danzare. Da eroina a supereroina il passaggio è stato naturale. Michelle Yeoh è infatti entrata nel mondo della Marvel, in Guardiani della Galassia Vol. 2, del 2017, in cui interpreta Aleta Ogord, e poi con Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, in cui interpreta Ying Nan, la zia del protagonista, creatura regale, carismatica, abile nei combattimenti. In Everything Everywhere All At Once Michelle Yeoh, insieme alla sua Evelyn, la protagonista della storia, cambia pelle e tono in continuazione, visto che il concetto di Multiverso lo prevede. Una prova di versatilità, e di maturità, che le è valsa l’Oscar. E dal prossimo film, il terzo, entrerà anche nell’universo di Avatar.

Jamie Lee Curtis: nel nome dei film di genere
Matura e versatile lo è anche Jamie Lee Curtis, altro nome storico del cinema. Come Michelle Yeoh, Jamie Lee Curtis viene dal cinema di genere, dal cinema horror. È stata lanciata infatti da Halloween – La notte delle streghe, il film di John Carpenter del 1979. La sua Laurie Strode è diventata un’icona e ha consacrato l’attrice come vera e propria “scream queen” del cinema anni Ottanta. Quello di Laurie è un ruolo che ha ricoperto più volte, anche negli ultimi anni. Ed è per questo che è piaciuta la sua dichiarazione una volta ricevuta la statuetta. “A chi ha sostenuto i film di genere, che ho fatto in tutti questi anni, noi tutti insieme abbiamo vinto un Oscar!”. Ma è piaciuta anche un’altra frase. “Mia mamma e mio papà hanno avuto una nomination in categorie diverse: ho appena vinto l’Oscar!”. Jamie Lee Curtis, infatti, è figlia d’arte: il padre è Tony Curtis e la madre è Janet Leigh. In lei ci sono geni importanti, che l’hanno resa un’attrice unica: il corpo atletico, e il seno prorompente, che mantiene ancora a 64 anni, e un volto ricco di ironia e simpatia. Accanto al ruolo di regina dell’horror, infatti, Jamie Lee Curtis ha interpretato altri cult movie, tra cui la commedia Una poltrona per due di John Landis, e la commedia thriller True Lies di James Cameron, accanto ad Arnold Schwarzenegger: la scena dello striptease, sensuale e ironica allo stesso tempo, è entrata nella storia. Tra le commedie ricordiamo anche Un pesce di  nome Wanda e tra i thriller Blue Steel di Kathryn Bigelow. Nel film da Oscar interpreta Deirdre Beaubeirdre, capelli bianchi a caschetto e occhiali rossi, l’ispettrice del fisco con cui si trova ad aver a che fare la protagonista. Un altro ruolo memorabile nella galleria dell’attrice di Los Angeles, California.

Ke Huy Quan: il bambino di Indiana Jones e I Goonies
In tanti hanno gioito, con sincero affetto, per l’Oscar come miglior attore non protagonista vinto da Ke Huy Quan, sempre per Everything Everywhere All At Once. Sì, perché Ke Huy Quan, attore americano di origine vietnamita (è nato a Saigon, nel Vietnam del Sud) è stato un nostro amico d’infanzia. È stato infatti il bambino (Short Round) di Indiana Jones e il tempio maledetto, prima di diventare uno de I Goonies, Richard “Data” Wang. E per questo ha commosso tutti quando ha ringraziato pubblicamente e abbracciato Harrison Ford, che è stato importantissimo per la sua carriera. In uno dei film in cui ha lavorato, con un cameo, Il mio amico scongelato, ha anche incrociato Brendan Fraser, con cui ha diviso il palco dei premiati in questa edizione degli Oscar. È stato assente dagli schermi per qualcosa come 19 anni (ma, essendo maestro di taekwondo, ha coreografato i combattimenti di film come X-Men e The One). Poi è tornato sulle scene nel 2021 con Alla scoperta di ‘Ohana, e quindi eccolo nel ruolo di Waymond Wang, il marito della protagonista, in Everything Everywhere All At Once. Vederlo premiato è come rivedere un tuo vecchio amico e vedere che gli è andata bene.

Brendan Fraser: il corpo, rappresentazione esteriore del trauma
Che è un po’ la stessa cosa che potremmo dire di Brendan Fraser, l’attore con cui ci siamo divertiti negli anni Ottanta, guardando La Mummia e Tarzan. Brendan Fraser è l’unico tra i quattro attori premiati che non arriva dal film Everything Everywhere All At Once, ma che è stato premiato, come miglior attore protagonista, per l’interpretazione in The Whale, di Darren Aronofsky. The Whale è la storia di Charlie, un uomo obeso, che pesa 270 chili e vive fermo sul divano di casa. La morte del compagno per suicidio è una delle cause del suo stato. E ora quest’uomo tenta di recuperare il rapporto con la figlia teenager, che, dopo aver lasciato la moglie, ha trascurato. A dare corpo, anima, e soprattutto lo sguardo, dolcissimo e ferito, al protagonista, è Brendan Fraser. Aronofsky ha aspettato dieci anni per trovare l’interprete giusto per il suo Charlie, e l’ha trovato in Fraser, un attore che può inaugurare così la seconda fase della sua carriera. “Charlie ha un superpotere; sa vedere il meglio negli altri. Il suo corpo è la rappresentazione esteriore del trauma” aveva dichiarato l’attore al Festival di Venezia. Per entrare nel ruolo di Charlie, l’attore di Indianapolis ha dovuto indossare una tuta prostetica da 136 chili, ma la sua storia è stata davvero fatta di problemi di peso e psicologici. Che lo hanno fatto scomparire per molto tempo dai radar delle grandi produzioni cinematografiche. Lo avevamo ritrovato nella serie Doom Patrol, e ora in questo commovente film, dove ha tirato fuori emozioni che ha portato dentro di sé da anni.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

 

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Scream VI: Tutti i colori di Jenna Ortega, oltre Mercoledì

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Un telefono squilla, come in ogni film della serie di Scream, iniziata da Wes Craven nel 1996. È l’inizio di Scream VI, al cinema dal 9 marzo, e siamo in un locale, dove una ragazza bionda e affascinante sta aspettando un ragazzo per un appuntamento al buio. Lei è docente di Storia del Cinema all’università, e la telefonata dopo poco comincia a spaziare sul cinema horror. Se conoscete i vari Scream potete immaginare come proseguirà quella scena. Ma non è che l’inizio. Perché, in giro, c’è un nuovo Ghostface. E un anno dopo i fatti del quinto Scream, sta facendo nuove vittime. Sta prendendo di mira Samantha e Tara Carpenter, le due sorelle che erano al centro dei fatti di Woodsboro. Scream VI segue Scream, quinto film della saga, e “requel” che ha rilanciato la franchise. Con due nuove protagoniste: Sam è Melissa Barrera, e Tara è Jenna Ortega. Dopo Scream ha girato Mercoledì ed è diventata un’icona e una star a livello mondiale. Dopo il bianco e nero di Mercoledì Addams, qui la vediamo esprimersi in molti altri colori diversi. E Scream VI è un modo per conoscere tutte le sfumature di questa attrice.

Siamo a New York, manca qualche giorno ad Halloween. È passato un anno dai fatti di Woodsboro raccontati in Scream (il quinto film della saga si chiamava proprio così), e Tara Carpenter (Jenna Ortega) si è trasferita qui per studiare. Ci sono i suoi amici, c’è una nuova coinquilina. E c’è la sorella Sam (Melissa Barrera), che fa due lavori per stare vicino a lei e proteggerla. Nel frattempo, va in terapia da un analista, per elaborare i fatti di Woodsboro dell’anno prima. E per esorcizzare il fantasma del padre, Billy Loomis, che era stato l’assassino del primo Scream, nel 1996. Quando un nuovo assassino con le sembianze di Ghostface, con quella maschera che ricorda L’Urlo di Munch, si fa vivo e comincia a uccidere la gente a coltellate, Sam si avvicina ancora di più a Tara. Le due ragazze riusciranno a trovare in sé, ancora una volta, una grinta insospettabile.

Nel ruolo di Tara Carpenter, Jenna Ortega può esplorare tutti i registri che non poteva sfoggiare in Mercoledì, un ruolo che ha interpretato alla perfezione. Per tutta la prima parte del film la vediamo finalmente ridere, ridere in continuazione, in tanti modi. Gli occhi grandi e neri brillano, contornati da quelle lentiggini che il trucco in bianco e nero di Mercoledì nascondeva, come la sua pelle ambrata. Con quel sorriso si muove molto anche il suo nasino all’insù. Dopo che, in Mercoledì, aveva dato vita a un’interpretazione tutta basata sul controllo, sul divieto di sorridere, sul celare tutte le emozioni dietro a un volto il più possibile fisso e fermo, in Scream VI è l’opposto. Vediamo finalmente tutti i suoi muscoli facciali in movimento. L’effetto su chi ha ancora negli occhi la Jenna Ortega in Mercoledì è eccezionale.

Il sorriso di piacere e soddisfazione, a bocca chiusa, che le si stampa sul volto nel momento in cui si accorge che un ragazzo è attratto da lei, è di quelli da antologia. Ma quella bocca si aprirà anche a risate più grasse. O a un mezzo sorriso, solo accennato, ironico, quando, parlando con Gale Weathers (Courteney Cox), le dice che le dispiace di averle dato quel pugno, e poi che no, non è vero, non le dispiace. Ma quella bocca riesce anche a trasmettere paura. Guardate la scena del drugstore, il primo incontro con Ghostface, e quel labbro inferiore che trema per il terrore, mentre lei è nascosta dietro a uno scaffale.

Il volto di Jenna Ortega, in Mercoledì, era in qualche modo celato. Da quel controllo di cui abbiamo detto sopra, ma anche da un trucco che doveva restituire a Jenna Ortega un certo tipo di pallore tipico dell’iconico personaggio de La famiglia Addams. Qui i colori di Jenna Ortega sono liberi di risplendere nella loro nuance naturale. Il trucco è soprattutto sugli occhi. E quando quel trucco cola, in seguito a un pianto, il nero solca le guance dell’attrice. Jenna Ortega, in Scream VI, è lacrime e kajal.

Anche l’abbigliamento di Jenna Ortega, nel ruolo di Tara Carpenter, può spaziare verso altri colori. La incontriamo ad una festa di Halloween, una di quei party delle confraternite, vestita da pirata. Una bandana colorata in testa, un bolerino nero, e una di quelle camice bianche a sbuffo che lasciano le spalle scoperte. Più tardi la vedremo indossare giubbini a coste rosa, jeans, t-shirt bianche. Anche in questo senso, Jenna Ortega ci sembra libera di indossare cosa vuole. A proposito, il successo di Mercoledì l’ha resa la testimonial perfetta per i brand della moda. Adidas l’ha appena scelta per  rappresentare la nuova linea Sportswear, complementare alle label Performance e Originals del brand.

È probabile che sarà la prima di una lunga serie di brand che vedremo associati all’attrice nei prossimi anni. Jenna Ortega tornerà sicuramente nella seconda stagione di Mercoledì, su Netflix. Ed è pronta (salutate le protagoniste storiche della saga, Neve Campbell e forse Courteney Cox) per reggere sulle sue minute spalle il peso di una saga come Scream. Che, però, si trova ormai una star mondiale che avrà un cachet molto più alto. Ma intanto, è nata una stella. Godiamocela tra i brividi di questo Scream VI.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Empire Of Light: Sam Mendes ci racconta il cinema, magia di luce

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Vi ricordate quando, da bambini, andavate per le prime volte al cinema, in quei grandi cinema che c’erano una volta? Tutto vi sembrava già magico, incantato, prima ancora di accedere alla sala, prima che si accendesse uno schermo. In Empire Of Light, il film di Sam Mendes al cinema dal 2 marzo, candidato a un premio Oscar (quello per la fotografia a Roger Deakins), viviamo davvero tutto questo, entrando in un cinema in cui ci sembra di respirare gli odori, di poter toccare con mano gli arredi, in cui ci sembra di essere, da tempo, clienti. Empire Of Light è un’esperienza immersiva. E allora eccoci nel cinema Empire, eccoci vivere il foyer, eccoci salire le sue imponenti scalinate, eccoci percorrere i corridoi, eccoci sfiorare il velluto delle poltrone. E vivere quel magico buio in sala prima che inizi lo spettacolo

Empire of Light è ambientato nei primi anni Ottanta, all’interno e nei dintorni di un vecchio cinema sbiadito ma ricco di fascino in una cittadina costiera dell’Inghilterra, Margate, nel Kent. Hilary (Olivia Colman) è una donna che gestisce il cinema ma, allo stesso tempo, deve anche gestire la sua salute mentale. A cambiare le cose è il suo incontro con Stephen (Micheal Ward), un nuovo dipendente, un ragazzo di colore, che sogna di fuggire da questa cittadina provinciale in cui deve affrontare ogni giorno tante avversità. È l’Inghilterra di Margaret Thatcher, destrorsa e un po’ razzista. Sia Hilary che Stephen trovano un senso di appartenenza attraverso la loro dolce e improbabile relazione e sperimentano il potere curativo della musica, del cinema e della comunità.

Empire Of Light è ancora una volta un racconto sul cinema e sulla sua magia. Arriva dopo Belfast, È stata la mano di Dio e The Fabelmans, e come questi film trasuda passione e arte. Ma, a differenza di Kenneth Branagh, Paolo Sorrentino e Steven Spielberg, il punto di vista non è quello di un bambino o di un ragazzo. Stavolta viviamo la storia attraverso l’anima di una donna matura, sola, depressa. Lo spunto autobiografico c’è anche qui: la madre di Sam Mendes lavorò davvero in un cinema. Quello di Hilary è un ritratto meraviglioso. È sovrappeso, è in cura dallo psichiatra che le prescrive il litio. Ma lei non lo prende, preferendo un bicchiere di vino rosso mentre, nel suo appartamento, ascolta a tutto volume It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding) di Bob Dylan. Al pomeriggio frequenta il centro anziani dove, poco convinta, balla con qualcuno. Ma si trova anche spesso nell’ufficio del suo principale, il padrone del cinema Empire, un Colin Firth per una volta viscido e lascivo, che la spinge a fare sesso in modo goffo e privo di passione. Olivia Colman, nel ruolo di Hilary, è eccezionale. Ha il trucco sbavato, lo sguardo spento e disilluso. È lontanissima dalla fierezza e dall’orgoglio della Regina Elisabetta che ha interpretato nella serie The Crown.

È il 1981, quando inizia la storia. E in quella cittadina balneare inglese la rivoluzione sembra non essere ancora arrivata. Non è Londra, non è nemmeno Manchester, e non è sembrano essere arrivati il punk, i Sex Pistols, Vivienne Westwood. Anche se una delle ragazze che lavorano al cinema con Hilary ascolta Love Will Tear Us Apart dei Joy Division e si trucca come una post punk. Quella cittadina inglese sul mare sembra essere rimasta agli anni Settanta, a quegli anni in cui, come racconta meravigliosamente Jonathan Coe nel suo romanzo La banda dei brocchi  (The Rotters’ Club), tutto era indefinitamente e completamente marrone. Ma da qualche parte il colore c’è, ed è quello degli esterni illuminati dalle luci al neon, che fa sembrare certi frame del film dei veri e propri quadri di Hopper. Ci sono dei rossi, dei bianchi e dei gialli accesi. Ci sono quei neon rosastri delle Roller Disco, le piste in cui si pattinava a tempo di musica. Roger Deakins, immenso artista della fotografia, dipinge tutto con la sua luce, ed è meritatamente candidato all’Oscar.

In fondo, questo è proprio il suo film, perché si parla di luce. Empire Of Light, il titolo del film, è un gioco legato al nome del cinema, l’Empire. Ma l’impero della luce è il cinema, inteso come arte. Sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio, dice uno dei personaggi. Ma, a 24 fotogrammi al secondo, non percepiamo il buio. Parole tecniche, che fanno sembrare tutto qualcosa di così semplice, che sembrano quasi sminuire, che non dicono (ma è chiaro che il regista lo pensi) che quel gioco tra luce e buio riesce a creare una magia. Nella sala del proiezionista ci sono due enormi macchine per proiettare i film. Ma è meglio non farle vedere, dice l’uomo. È meglio che il pubblico non lo sappia. Deve solo vedere un fascio di luce. Quel piccolo fascio di luce è una fuga, sentiamo dire. È una specie di magia, diceva quella canzone. Ecco, il cinema è questo: è la magia della luce.

A differenza dei film di Spielberg, Sorrentino e Branagh, qui vediamo pochissimo lo schermo illuminato, le sequenze dei film in questione. Vediamo invece il foyer, le scale, i corridoi, gli uffici, la sala del proiezionista. E quella sala al terzo piano, dove c’era un ristorante e un pianobar, abbandonata, con i piccioni che volano indisturbati, che è la protagonista di una serie di sequenze da antologia. Sam Mendes racconta non solo il cinema come arte, ma il cinema come luogo di socializzazione, di relazioni, come posto di lavoro. È il cinema come struttura, la sala, un mondo che sembrava essere sull’orlo della fine già allora, come si dice sia oggi. Il cinema è stato dato per morto già molte volte. Speriamo che non muoia mai.

Sam Mendes riesce a farci respirare cinema senza mostrare quasi mai una sequenza, ma parlando di cinema, facendo intravvedere qualche locandina, facendoci ascoltare le colonne sonore. E allora ecco evocati gli spiriti di Momenti di gloria, The Elephant Man, Toro scatenato. Alla fine, un film lo vediamo. Come Hilary, dipendente di un cinema che non è mai entrata in sala per vedere una pellicola, per la prima volta in Empire Of Light entriamo in sala e vediamo un film con lei. Si tratta di Oltre il giardino (Being There), di Hal Ashby, con Peter Sellers. Non è un caso che Hilary veda questo film. È così che capirà che, in fondo, “life is a state of mind”, “la vita è uno stato mentale”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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