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Licorice Pizza: Paul Thomas Anderson e quei ragazzi nati per correre

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Licorice Pizza, se proviamo a tradurre le parole, suona più o meno come “pizza alla liquirizia”. Potrebbe sembrarci un gusto assurdo, qualcosa impossibile da immaginare e raccontare. E, detto che con la pizza, come vi spiegheremo dopo, non c’entra nulla, Licorice Pizza è il titolo del nuovo film di Paul Thomas Anderson, finalmente nelle sale italiane dal 17 marzo, dove arriva forte di 3 nomination agli Oscar (miglior film, miglior regista e migliore sceneggiatura originale). Licorice Pizza ha invece un sapore che per tanti di noi è conosciuto, è un sapore deciso, quello della nostra adolescenza e quello degli anni Settanta. Eppure qui è ancora qualcosa di nuovo, di sorprendente, con nuove spezie e tanti retrogusti. È un film che, per quanto ci si provi, non si può raccontare. È un film da vedere.

Licorice Pizza, a raccontarlo, vive su una storia semplicissima. Siamo nel 1973, nella San Fernando Valley, California. Un ragazzo e una ragazza si incontrano a un set fotografico per l’annuario della scuola. Lui, Gary Valentine, ha 15 anni, lei, Alana Kane, ne ha 25. A quell’età, lo sapete, è una differenza enorme. Ma, a vedere questi due ragazzi muoversi sullo schermo, a volte non si sente. Gary sogna di fare l’attore, e in qualche modo è nel mondo dello spettacolo, visto che la madre si occupa di management in quel settore. Alana fa parte di una famiglia ebrea molto tradizionalista. La strada di Gary passa anche per altre idee, come quella di lanciarsi nel commercio di materassi ad acqua, che tra gli anni Settanta e Ottanta erano la novità del momento (ricordate la scena a letto de La signora in rosso?).

Siamo nella San Fernando Valley, la terra degli studi cinematografici e televisivi, la terra dove Paul Thomas Anderson è cresciuto e dove ancora vive. Licorice Pizza è nato passeggiando per quei luoghi. Il regista ha visto dei ragazzi di una scuola che si preparavano per la foto annuale e parlavano con la fotografa, che era giovane ma più grande di loro, e in qualche modo flirtavano con lei. E allora Anderson ha cominciato a immaginare che cosa sarebbe successo se uno di quei ragazzi e la fotografa avessero iniziato a frequentarsi. Così è nata una storia di fantasia, non un vero e proprio film autobiografico, che però ha dentro tanti ricordi e sensazioni dell’adolescenza del regista. Il titolo, Licorice Pizza, viene invece da una catena di negozi di dischi nella Valley dove andava sempre con i suoi amici.

Licorice Pizza è il nuovo film di Paul Thomas Anderson, cineasta dalla classe immensa, capace di costruire un cinema rigoroso e doloroso, come quello de Il filo nascosto e Il Petroliere, ma anche di regalarci un cinema più sfrenato e spensierato, non privo di malinconia, come quello di Boogie Nights e Ubriaco d’amore. È a questo tipo di cinema, solo apparentemente più leggero, a suo modo nostalgico, che appartiene Licorice Pizza. Come vi abbiamo spiegato, non è autobiografico – è ambientato nel 1973 e Paul Thomas Anderson è del 1970 – ma è un’opera in cui l’autore ha probabilmente messo molto del se stesso quindicenne. Ci ha messo quel senso di desiderio, la magia dell’incontro con l’altro sesso, i sogni, le aspirazioni, la voglia di crescere in fretta. L’insicurezza e al contempo la sfrontatezza, la fame di vita, quella sensazione, come cantava Bruce Springsteen, di essere nati per correre. Un po’ come il Paolo Sorrentino di È stata la mano di Dio. Solo che il regista italiano ha messo tutto questo nella sua storia personale e autobiografica, mentre PTA ha sublimato tutto in una storia di fantasia. Ma le sensazioni che ci arrivano, almeno in parte, sono le stesse.

Licorice Pizza è sì un romanzo di formazione, la storia di un incontro, ma è anche un racconto che vive profondamente dentro un mondo ben preciso, che è quello del cinema e della televisione di quegli anni. A tratti è come se venissimo trasportati dentro la tivù che guardavamo da ragazzini, che era quella degli anni Ottanta, ma trasmetteva molte cose di qualche anno prima. È qualcosa che magari non abbiamo fissato completamente e in modo conscio, ma che nel nostro inconscio è rimasta sedimentata e che, alla visione di Licorice Pizza, scatena qualcosa, come una sorta di madeleine proustiana.

Licorice Pizza vive immerso nel cinema e nella musica di quegli anni. Mentre Gary e Alana si rincorrono, litigano, corrono, si riavvicinano, corrono, al cinema c’è lo 007 di Roger Moore, quello di Live and Let Die, cioè Vivi e lascia morire. Nel mondo in cui si muovono Gary e Alana c’è l’egocentrico Jon Peters, interpretato da un clamoroso Bradley Cooper con lunga e folta barba, nei panni del parrucchiere di Barbra Streisand diventato poi il suo compagno. E c’è Jack Holden, interpretato da Sean Penn, un attore che è ispirato a William Holden e che decide di ricreare, alla fine di una cena, una scena acrobatica in moto di un suo film, con esiti che non vi vogliamo anticipare. In Licorice Pizza c’è la musica di quegli anni, Peace Frog dei Doors, Let Me Roll It di Paul McCartney And The Wings, Life On Mars? di David Bowie. Un film dove c’è Life On Mars? già di per sé diventa bellissimo, figurarsi un film come questo.

Quegli anni Settanta in cui ci trasporta Paul Thomas Anderson sono colorati con toni caldi – i gialli, i marroni, i rossi ma non troppo accesi – proprio come ce li ricordiamo, o come li abbiamo visti molte volte, e sono spesso scaldati da luci bianche. Licorice Pizza è un film che a suo modo scalda il cuore, e rende bellissimi anche due ragazzi che tutto sono tranne che perfetti. Gary è un ragazzo corpulento e con i brufoli, Alana ha il naso aquilino e i denti un po’ storti. Eppure sono belli non solo perché è così che li disegna Anderson, ma perché sono vitali, appassionati e pieni di desiderio. Lui è Cooper Hoffman, il figlio del compianto Philip Seymour Hoffman, e sembra davvero la sua copia, con quel volto morbido da ragazzo mai cresciuto che aveva il padre, e che era così mutevole da poter assumere qualsiasi forma. Lei è Alana Haim, chitarrista del gruppo rock al femminile della Haim, di cui fa parte con le sue sorelle e per le quali Anderson aveva girato dei videoclip. Guardateli, sul grande schermo, e vi sembrerà di vedere due amici che conoscete da sempre. E vi verrà voglia di correre con loro E correre, correre, correre…

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Cine Mood

Sanctuary: Margaret Qualley, la figlia di Andie MacDowell è diventata grande

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L’avevamo conosciuta vestita da hippie, canotta colorata, shorts e gambe lunghissime. E quei piedi messi con nonchalance sul cruscotto di Brad Pitt in C’era una volta a… Hollywood. Parliamo di Margaret Qualley, attrice in rampa di lancio e figlia d’arte: la madre è Andie MacDowell. È proprio Margaret Qualley il motivo migliore per vedere Sanctuary, il film che la vede protagonista assoluta, e in una veste inedita, in uscita al cinema il 25 maggio. La vedrete come non l’avete mai vista, con i capelli biondi, a caschetto. E anche cattiva, dura, sboccata. Ma sarà solo l’inizio di una serie di trasformazioni.

In Sanctuary Margaret Qualley è Rebecca, una dominatrice, una professionista del sesso. Hal (Christopher Abbott) è il suo cliente. Man mano che la storia procede, e svelano le verità, veniamo a sapere che fa parte di una ricca famiglia di cui sta per ereditare le fortune. Non può più permettersi di avere una pericolosa relazione con una donna che conosce i suoi segreti e le sue perversioni. Così decide di vederla per un’ultima volta e dirle che tra loro è tutto finito. Ma il suo tentativo di tagliare i legami gli si potrebbe ritorcere contro. Rebecca ha una reazione inaspettata.

Rebecca, come lavoro, fa la dominatrice. È la donna sicura di sé (o recita quel ruolo?), la donna che non deve chiedere ma solo ordinare. Lo dimostra con il suo abito, un tailleur pantalone, e con la sua postura. Mentre dà gli ordini è seduta su una sedia, a gambe divaricate, proprio come si siederebbe un uomo. Ma il look con cui l’attrice appare in scena, all’inizio, ci colpisce ancora di più. I capelli biondi, lisci, a caschetto, che cadono sul suo volto e lo incorniciano, in qualche modo ne cambiano la fisionomia. Il viso da cerbiatto, nelle prime scene di Sanctuary, è ancora più evidente. I tratti del viso sembrano ancora più perfetti, la pelle levigata, le labbra rosse che lasciano intravvedere il più bel paio di incisivi visti dai tempi di Naomi Watts. L’appellativo per la Watts era di Woody Allen. Chissà che ne pensa di Margaret Qualley… La parrucca, una volta tolta, lascia spazio a quei riccioli neri e a quell’aria da bambina, come direbbe quella canzone, che abbiamo visto in film e serie precedenti. Quando quei capelli se li raccoglie in una coda alta a tratti sembra proprio di guardare sua madre.

Sanctuary non è solo un’altra prova della bellezza di Margaret Qualley, ma è soprattutto una grande prova di bravura. Mentre negli altri film in cui l’abbiamo vista in scena manteneva lo stesso tono per tutta la durata, qui Margaret Qualley è un caleidoscopio. Riesce ad essere ogni cosa: dura, complice, suadente, perfida, urticante.  Guardate, e ascoltate, attentamente il momento in cui pronuncia le parole “giuro fedeltà alla costituzione degli Stati Uniti”: lo fa con un tono di voce sensuale e languido che sembra voler dire tutt’altro. Intonazione, espressività: è il lavoro dell’attore. E in Sanctuary Margaret Qualley dimostra di essere una grande attrice.

Occhi piccoli e brillanti, blu, sorriso disarmante, i capelli ribelli, lunghi e ricci, il fisico slanciato, Margaret Qualley è stata suadente e maliziosa in C’era una volta a… Hollywood, in una breve apparizione che però ha lasciato il segno. È stata tenera, ferita e determinata nella serie Maid (disponibile su Netflix), di cui era protagonista assoluta nella parte di una donna vittima di abusi che lasciava il compagno e provava a farcela da sola con una bambina piccola. Una serie da vedere assolutamente. Ma la Qualley ha lavorato anche nelle serie tv The Leftovers e Fosse/Verdon e nei film The Nice Guys e Un anno con Salinger. È stata legata all’attore Shia LaBeouf e oggi è fidanzata con il musicista Jack Antonoff, leader dei Bleachers. Sanctuary è un altro tassello della sua crescita. È un film forse pretestuoso, troppo cerebrale, forzato. È un film che finisce come una commedia da Guerra dei Sessi anni Quaranta, senza esserlo mai stata. Il motivo per vederlo, però, ce lo avete. È Margaret Qualley.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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La Sirenetta: Halle Bailey, una giovane che perde la voce per ritrovarla

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Il canto delle sirene, come vuole la leggenda, è ammaliante e seducente. Vuole così anche la storia de La Sirenetta, fiaba di Hans Christian Andersen, diventata poi un famoso film d’animazione della Disney, e ora un film live action che arriva al cinema il 24 maggio. La giovane protagonista, Halle Bailey, come racconta il regista Rob Marshall, è stata scelta anche per la sua voce bellissima, proprio come quella di una sirena. La cosa migliore del film è proprio lei, bella, brava e convincente. Anche se, con il doppiaggio in italiano, non abbiamo sentito la sua voce nelle canzoni. Che, ovviamente, sono molto belle anche con la voce italiana.

Ariel (Halle Bailey) è una sirena adolescente con una bellissima voce e continuamente alla ricerca di avventura. È la figlia più piccola di Tritone (Javier Bardem), il Re gli oceani, ed è la più ribelle. Ariel è affascinata dal mondo in superficie, dove vivono gli umani, con cui il popolo del mare non può avere a che fare: è la volontà di Tritone. Ariel allora, con il suo amico, il pesciolino Flounder, colleziona oggetti del mondo degli umani che sono caduto sul fondale del mare e li conserva nella sua grotta segreta. Un giorno, andando contro le regole di suo padre e i consigli di Flounder e Sebastian, il granchio maggiordomo del Re, nuotando arriva in superficie. E si trova a salvare un principe da un naufragio. Ma questo lo sapete già.

Il canto delle sirene, dicevamo. Nella versione italiana de La Sirenetta ovviamente non ascoltiamo la voce angelica – così l’aveva definita il regista Rob Marshall – di Halle Bailey nelle canzoni. È normale, perché la canzoni, quelle note, soprattutto, vanno portata al pubblico in italiano, anche per il ruolo che hanno nella storia. È un peccato però non poter ascoltare la voce della giovane attrice. Che, in ogni caso, è bellissima. Ha un viso molto dolce, espressivo, un’aria ancora innocente, come prevede il personaggio, ma anche un sex appeal notevole. Il suo fisico slanciato, tonico, la rende credibile sia nelle evoluzioni marine come sirena che sulla terraferma, come ad esempio quando balla.

Le polemiche sulla questione dell’etnia speriamo siano ormai superate.  Scegliere una giovane donna di colore per un ruolo così iconico è stata una scelta semplice per Rob Marshall. “Il nostro obiettivo era trovare una persona che fosse incredibilmente entusiasta, brillante, vulnerabile, perspicace, e che avesse moltissima grinta e gioia”, ha dichiarato il regista. “Quando l’ho incontrata per la prima volta, Halle era così giovane e un po’ ultraterrena, e la sua voce era semplicemente angelica. In più, aveva un legame profondo con i temi delle canzoni che cantava”. “Stavamo semplicemente cercando l’attrice più adatta per questo ruolo, punto. Abbiamo provinato tantissime persone di qualsiasi etnia. Non c’erano secondi fini. Come regista, speri sempre di trovare un attore che sia capace di reclamare un ruolo e dire ‘questo ruolo è mio’. Questo è esattamente quello che è successo con Halle”.

Ed è proprio così. Dal primo momento che vediamo Halle Bailey nel ruolo di Ariel, non pensiamo più alla Sirenetta del cartone originale, ma vediamo lei come la Sirenetta in tutto e per tutto. L’attrice in questo ruolo è credibile, è simpatica. L’amore con la nuova Sirenetta scatta subito, alla scena – presa pari pari dal film d’animazione originale – dell’arricciaspiccia, quella in cui, parlando con il gabbiano Scattle, scambia una forchetta per un pettine. Ma ogni polemica sarebbe comunque stata inutile. Una sirena è una creatura fantastica, che appartiene a un mondo come quello del mare. E, come tale, può davvero avere qualsiasi aspetto, qualsiasi tratto. Così, tutto appare naturale quando, al cospetto di Tritone, appaiono le altre sorelle di Ariel, ognuna di un’etnia diversa. Come se il mare riunisse tutte le regioni della Terra in un unico mondo.

Ma Halle Bailey è anche, e soprattutto, una sirena in carne ed ossa. E per questo il suo personaggio è più tangibile, più reale. La sinossi ci dice che Ariel ha 18 anni. E questo nuovo film allarga il target, raggiunge e fa identificare non solo le bambine, ma anche le adolescenti. Ed è un bene. Perché la storia di Ariel è una storia di emancipazione e autodeterminazione femminile. La storia di una ragazza che perde la voce per ritrovare la sua voce. Per essere finalmente ascoltata. L’auspicio è che sia di modello a tante ragazze che provano a far uscire la loro voce: che questa voce possa arrivare forte e chiara.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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TOM CRUISE | MISSION:IMPOSSIBLE – Dead Reckoning – Parte Uno

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Tom Cruise torna al cinema con un nuovo capitolo di Mission:Impossible – Dead Reckoning – Parte Uno
Questa è la loro missione più pericolosa.
Nelle sale cinematografiche dal 12 luglio.

SINOSSI

In Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte Uno, Ethan Hunt ( Tom Cruise) e la sua squadra dell’IMF si trovano di fronte alla sfida più pericolosa che abbiano mai affrontato: trovare e disinnescare una nuova terrificante arma che minaccia l’ intera umanità.
Con il destino del mondo e il controllo del futuro appesi a un filo, la squadra inizierà una frenetica missione in tutto il mondo, per impedire che l’arma cada nelle mani sbagliate.
Messo di fronte a un nemico misterioso e onnipotente, tormentato da forze oscure del passato, Ethan sarà costretto a decidere se sacrificare tutto per questa missione, comprese le vite di coloro che gli stanno più a cuore.

Photo Credits: Paramount Pictures

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