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House Of Gucci: La dinastia della moda sembra una tragedia di Shakespeare girata dai Vanzina

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“Il Vaticano della moda”. Siamo negli anni Novanta e un ambizioso Maurizio Gucci, impersonato da Adam Driver, definisce così quelle che sono le nuove grandi aspirazioni del marchio Gucci. Che riuscirà ad arrivare in alto, forse grazie a lui, o nonostante lui, forse proprio perché senza di lui. Stiamo parlando del pirotecnico film House Of Gucci di Ridley Scott con un cast stellare – Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino, Jeremy Irons, Jared Leto, Salma Hayek e Camille Cottin – che arriva al cinema dal 16 dicembre. Eccessivo, grottesco, farsesco – e non si capisce quanto tutto sia voluto e quanto no – House Of Gucci è un film a suo modo irresistibile e divertente. In due ore e mezza non ci si annoia mai. A patto, ovviamente, di non prenderlo – e non prendersi – sul serio.

I Gucci. Chi davvero di noi può dire di conoscerli? Conosciamo molto probabilmente la storia che ha inizio dalla metà degli anni Novanta, quando, un po’ per rinunce (pare che Maurizio Gucci, una volta a capo del suo impero, volesse Armani e Versace a disegnare le sue linee, solo che loro avevano già le loro aziende) un po’ per intuizione di Domenico De Sole, uno sconosciuto stilista americano fu chiamato a disegnare le collezioni del gruppo. Si chiamava Tom Ford e cambiò per sempre la sua storia. Ma prima i Gucci erano dei sellai, e poi uno dei capostipiti, che faceva il fattorino a Londra, ebbe l’idea della pelletteria di lusso. A un certo punto della sua vita, Gucci era considerato un marchio elegante, ma superato. Domenico De Sole e Tom Ford ne fecero un impero, ma forse in pochi di noi si sono soffermati a pensare al fatto che, dopo la morte di Maurizio Gucci, nessuno della famiglia faccia più parte di un marchio che ormai vive di vita propria, fattura miliardi, e ha spiccato il volo proprio quando ha tagliato il cordone ombelicale con la famiglia da cui è nato. House Of Gucci racconta la storia dall’incontro tra Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci fino all’assassinio di quest’ultimo, di cui lei fu il mandante.

Lady Gaga è straordinaria nel ruolo di Patrizia Reggiani, una donna che non distingue un Klimt da un Picasso e che sente tutto il gap tra il mondo prosaico da cui proviene e il mondo nobile in cui sta entrando. Nei suoi occhi c’è tutto lo stupore di chi sente di entrare in un mondo da sogno, come le cenerentole delle favole che entrano nelle case dei principi azzurri. C’è, negli occhi della Patrizia di Lady Gaga, un senso di imbarazzo misto all’aspirazione di una vita più agiata ed elegante, e poi, man mano che il tempo passa, all’ambizione di poter arrivare fino a dove non avrebbe mai potuto immaginare. Fino allo sguardo inconfondibile di chi sente il suo amore tradito, quel sentimento di vendetta ineluttabile che arriva dalle tragedie greche, quelle elisabettiane, da Shakespeare ma anche dalla tradizione del nostro melodramma. Tutto il film, ma in particolare le scene con Lady Gaga, sono una continua sfilata di abiti incredibili, dal vestito rosso scollato che indossa la sera in cui incontra Maurizio Gucci, fino a un altro vestito di pizzo bianco che lascia le spalle scoperte. Ma sono centinaia gli abiti da antologia.

House Of Gucci alterna immagini patinate (il famoso uso della luce che Ridley Scott, regista pubblicitario negli anni Ottanta, qui ripropone in modo funzionale al racconto) ad altre a tinte forti, fino a immagini da cartolina e retrò di bei tempi e Belpaese, dorate e seppiate. Altrove le immagini virano in bianco e nero per poi fossilizzarsi in quelle delle foto che apparivano su giornali e rotocalchi. È così che Maurizio e Patrizia, dopo il loro matrimonio, da immagini in movimento diventano immagini fisse, perché è così che venivano immortalate le celebrità sulla carta stampata. E così è in divenire anche la musica: l’organo che introduce Patrizia all’altare sembra quello della marcia nuziale, ma non è che l’intro di Faith di George Michael, che dà alle nozze un aspetto rock, rétro, pop. È questa la chiave, perché in House Of Gucci tutto è tragico e tutto è pop, tutto è nero e rosso sangue, ma è anche tutto colorato, tutto è incredibilmente grave e tutto è farsesco e irresistibilmente divertente. House Of Gucci è una tragedia di William Shakespeare girata dai Vanzina – non quelli di Vacanze di Natale ma quelli di Via Montenapoleone e Sotto il vestito niente – e non è affatto una critica, quanto un modo di essere.

House Of Gucci è questo. è un film eccessivo, teatrale, melodrammatico e pop. È La Traviata e Il Rigoletto, Caterina Caselli e gli Eurythmics, Blondie e Donna Summer (I Feel Love, prodotta da Giorgio Moroder, l’Italia che incontrava l’America, proprio come nella storia di Gucci) David Bowie e Tracy Chapman (Baby Can I Hold You nella versione con Luciano Pavarotti). Ridley Scott, evidentemente, vede così il mondo del lusso e della moda, vede così l’Italia, un po’ opera lirica, melodramma, un po’ il solito film di mafia con gli italiani stereotipati. Guardate l’interpretazione di Al Pacino, nel ruolo di Aldo Gucci, e diteci se non vi sembra uscita da qualche film di questo tipo. O quella di Jared Leto, nel ruolo di Paolo Gucci , che, in originale, lavora sulla lingua per un misto tra inglese e italiano che finisce per sembrare un accento russo, ma è un lavoro interessante. House Of Gucci va preso per quello che è, per l’intrattenimento che ci regala, e passando avanti sulle tante libertà che si prende Ridley Scott. Come quella sull’assassinio di Maurizio Gucci, che fu ucciso in via Palestro, a Milano, e nel film perde la vita nel suggestivo quartiere Coppedè, a Roma, nel mondo di Dario Argento.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Talk To Me: Lasciateli entrare, e non vi lasceranno più… l’horror del momento è al cinema

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Talk to me. Parlami. I let you in. Ti lascio entrare. Un gruppo di ragazzi si trovano ad un a festa molto alcolica. Un ragazzo arriva trafelato, preoccupato per il fratello. Lo trova, solo in una stanza, sconvolto: parla a vanvera, parla del padre, si rivolge al ragazzo come se non fosse il fratello. Che allora cerca di portarlo fuori da quella casa, lontano dalla gente, che intanto sta filmando tutto con il cellulare. Neanche il tempo di portarlo fuori, che accoltella prima il fratello, e poi se stesso. È così, con un inizio shock, che parte Talk To Me, regia di Danny e Michael Philippou, horror rivelazione dell’anno in arrivo dagli antipodi, dall’Australia, e in uscita in Italia il 28 settembre. L’horror dell’anno? Sicuramente è un horror da vedere. E da vedere al cinema. A casa, se e quando arriverà, i brividi non saranno gli stessi, come potete immaginare.

Come potete immaginare, quelle due morti sono solo l’inizio. La vera storia inizia poco dopo. E riguarda Mia (Sophie Wilde), un’adolescente che ha da poco perso la madre, e vive con un’amica e la sua famiglia. Spinta da alcuni video sconvolgenti che i suoi amici postano sui social, decide di partecipare a una serata molto particolare, a cui seguiranno altre. E ad una di queste porta anche il fratello minore della sua amica. Ma che cosa succede in queste serate? Toccando una mano (una statua? Un arto imbalsamato?) mentre si è seduti – e legati ben stretti con una cintura – su una poltrona, si devono dire due cose. La prima è “talk to me”, parlami. La seconda è “I let you in”, ti lascio entrare. E tramite queste parole, e quel braccio – che pare sia un braccio vero, appartenuto a una medium – si entra in contatto con un’anima trapassata. E la si lascia entrare nel nostro corpo. Ma, attenzione, l’esperienza non deve durare più di 90 secondi. Altrimenti…

Da “vedo la gente morta”, che era la frase chiave de Il sesto senso, a “incontro la gente morta”. I morti, grazie a questa connessione che si stabilisce, li sentono, li vivono, i protagonisti della storia. Ma li vediamo anche noi. E, sì, Talk To Me fa paura. Fa paura grazie a una serie di jumpscare, quelle apparizioni improvvise che, con il giusto suono, ci fanno saltare sulla sedia. Ma non sono mai quei sobbalzi gratuiti, messi lì solo per scuoterci. Sono inseriti in una situazione che già di per sé è carica di tensione. E in una storia che in qualche modo è già intensa, drammatica. E che, al di là della paura, ci ha già tirato dentro.

E se lo ha fatto è merito di tante cose. L’intensità dell’attrice protagonista, Sophie Wilde e della storia del suo personaggio, quella di una perdita che l’ha lasciata indifesa, fragile, e quindi più facile preda. Ma a intrigare è il modo in cui è costruita la storia. Ha bruschi cambi di tono, visto che passa dal teen movie più caciarone e sboccato al drammatico, dalla commedia alla ghost story, dal thriller all’horror più vicino allo splatter. Ma anche la forma visiva è innovativa: usa molto la musica pop e la fonde in modo originale alle immagini, come quando usa una canzone come ellissi narrativa.

Tutto questo rende Talk To Me un horror sfrenato, libero, violento. Ma è un film che conquista, e trascina dentro, anche e soprattutto per la storia drammatica che sta alla base. La ghost story, completamente rinnovata e riletta, piacerà sicuramente a chi ama questo tipo di horror, quello a base di possessioni. Ma Talk To Me è girato in modo che possa piacere anche e soprattutto ai giovani, al pubblico che sta dimostrando di affollare le multisale in cerca di brividi e di emozioni forti.

A proposito di giovani, in qualche modo Talk To Me riflette anche sui media, come un certo tipo di cinema ha sempre fatto. C’era il terrore che corre sul filo, quello del telefono, e poi è passato attraverso la telecamera, le videocassette, le macchine fotografiche e i primi cellulari. Ora il terrore corre sugli smartphone. Ma corre soprattutto sui social. Oggi ognuno di noi davanti alla paura non scappa, ma inizia a filmare con il suo telefono. Oggi la paura viene filmata e soprattutto diffusa sui social media, mettendo in pericolo ancora più persone. È come un virus. In fondo, quando un video funziona e si diffonde velocemente, si dice che è virale.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Hit Man, la nuova esilarante commedia di Richard Linklater

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Senza dubbio una delle commedie più sorprendenti degli ultimi anni, Hit Man ha rappresentato una ventata di piacevolissima leggerezza alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film è ispirato alla figura di Gary Johnson, insegnante di filosofia che part-time lavorava con la polizia assumendo il ruolo di finto killer professionista. Una strategia geniale, quest’ultima, per incastrare i mandanti di omicidi. Ma da questo spunto, rivisto e corretto per la narrazione cinematografica, Richard Linklater tira fuori una black comedy esilarante, che procede per equivoci, dialoghi incalzanti e colpi di scena. Una vera e propria commedia ad orologeria, senza soste, originale, ricca di sorprese, con un protagonista eccezionale. Ad interpretare Johnson, troviamo infatti la rivelazione Glen Powell, che aveva già lavorato con Linklater nel 2016 in Tutti vogliono qualcosa, ma che qui, forse per la prima volta nella sua carriera, ci regala una performance esplosiva, dimostrando uno straordinario talento trasformista. L’attore infatti non solo è perfetto nel tratteggiare l’evoluzione del suo personaggio, da semplice e solitario professore di filosofia a sexy uomo d’azione, ma è anche sensazionale nel reinventarsi nelle varie tipologie di killer che il protagonista si ritrova ad impersonare per lavoro, dando vita a momenti di raro divertimento.

Il film procede inizialmente seguendo uno svolgimento episodico, travestimento per travestimento, e dopo l’entrata in scena di Madison (interpretata brillantemente da Adria Arjona), il film cambia struttura e si concentra sulla love story tra il protagonista e quest’ultima. Una storia d’amore, di passione, di bugie, di imprevisti che riserva un finale scoppiettante.

Hit Man, in uscita ad ottobre negli Stati Uniti e presto anche nelle sale italiane grazie a BIM Distribuzione, è intrattenimento allo stato puro, costruito su una sceneggiatura priva di sbavature (scritta da Linklater insieme allo stesso Powell) e confezionato da una regia che maneggia magistralmente tutti gli stilemi del genere. O meglio dei generi. Il film infatti rilegge con ironia il noir, il poliziesco, la commedia sentimentale, l’action, il thriller, il classico biopic. E in qualche modo diventa la cifra ideale di tutta la filmografia di Linklater, variegata, eterogenea, spinta su coordinate sempre differenti. Il regista di Prima dell’alba e Boyhood dimostra, anche dopo il convincente Apollo 10 e mezzo, di essere in una nuova ispirata fase della sua carriera. E speriamo che continui ancora a lungo.

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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Venezia 80, Rocío Muñoz Morales: “Dal mio romanzo presto un film”

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L’attrice e conduttrice presenta al Lido il documentario Time to Change, di cui è voce narrante e guida. Un progetto nato dall’urgenza di salvaguardare il futuro del pianeta.

Esattamente un anno fa le toccava aprire nei panni della madrina la 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, da allora sono successe molte cose, Rocío Muñoz Morales nel frattempo ha anche scritto un libro, Dove nasce il sole, e ora torna al Lido per rivivere la “magia” del festival e accompagnare il documentario di Emanuele Imbucci, Time to Change, di cui è guida e voce narrante sulle tracce del viaggio attorno al mondo del fotografo Stefano Guindani mentre documenta con i suoi scatti lo stato di realizzazione dei 17 obiettivi  dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Time to change è solo l’ultimo dei suoi progetti, in questi giorni è al cinema infatti con Uomini da marciapiede e nel 2024 sarà insieme al compagno Raoul Bova una delle concorrenti della quarta stagione del game di Amazon, Celebrity hunted. A breve tornerà a girare su un set, intanto ci dice “sto lavorando all’adattamento del mio libro per farne una storia per il cinema e ne sono felice, un pezzettino di cuore che sta prendendo vita”.

DAILYMOOD.IT: Torni a Venezia un anno dopo esserci stata da madrina. Che effetto fa? Hai visto qualche film?
ROJO MUNOZ MORALES:
Sì, ho visto Priscilla. Mi è piaciuto molto, soprattutto vederlo con lei (n.d.r. Priscilla Presley) presente in sala. Gli attori sono tutti brillanti, mi ha emozionata rivivere la magia della Sala Grande e l’amore per il cinema che si respira a Venezia. È stata una grande emozione e lo è anche essere qui oggi con un progetto nel quale credo profondamente. Time to change mi ha colpito, mi ha toccato in un modo delicato, sottile, mai furbo. È stato sincero, diretto, forse anche un po’ freddo ma proprio nella sobrietà e freddezza del racconto, l’ho trovato estremamente sincero. Mi ha smosso qualcosa dentro.

DM: In Time to change accompagni il giro intorno al mondo del fotografo Stefano Guindani. Che viaggio è stato?
RMM:
Non dobbiamo vivere il futuro come qualcosa di lontano, Time to change ci dice che è il momento di agire ‘ora’, ci troviamo in una situazione di urgenza e per questo non dobbiamo né arrabbiarci né urlare, ma solo fare, dobbiamo diventare concreti e essere consapevoli che tutti noi siamo responsabili di quello che accadrà domani o tra una settimana, di ciò che saremo tra due, dieci o quindici anni, di quello che saranno i nostri figli. Quindi è importante rispettare noi stessi, ciò che abbiamo intorno e vivere nel rispetto dei valori, nell’amore, senza perderci troppo in banalità.

DM: Il documentario di Emanuele Imbucci è anche un viaggio nella diversità. Quanto è importante vivere in un mondo che la accetti?
RMM:
La diversità è una realtà, dobbiamo essere coscienti del fatto che siamo tutti unici e diversi, il mondo è ricco in quanto diverso e quindi va curato anche nella diversità. Anzi, se non ci fosse la diversità sarebbe un mondo molto più piatto, abbiamo bisogno della diversità, curiamola e rispettiamola.

DM: Hai esordito a teatro con Certe notti, uno spettacolo sul terremoto che colpì L’Aquila nel 2009, poi hai proseguito con una commedia di denuncia sociale Di’ che ti manda Picone, nel 2020 hai condotto la maratona Telethon . I tuoi progetti sono accomunati da un fil rouge che è quello dell’impegno civile. Quanto sono importanti gli strumenti dell’audiovisivo in questo senso?
RMM: Il cinema, il teatro e le storie raccontate hanno un potenziale incredibile, quello di arrivare al pubblico in maniera delicata, poetica, educata, ma anche diretta. Ed è importante parlarne sempre, fare politica: è essenziale parlare di educazione e di sanità, di tutto quelle cose che ci appartengono e sono il nostro presente, se poi lo si fa con il tocco di magia che solo il cinema ti può dare, è ancora meglio. Il mio essere Rocio non è molto lontano dal mio essere attrice, quindi è fondamentale per me scegliere dei progetti nei quali credo anche nella vita.

di Elisabetta Bartucca per DailyMood.it

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