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Due donne – Passing: Il bianco, il nero e le sfumature di grigio. Su Netflix

Nella vita non ci sono solo il bianco e il nero. Ci sono anche le sfumature di grigio. È una frase che usiamo spesso, ma che ci è tornata in mente assistendo a Due donne – Passing, l’opera prima dell’attrice Rebecca Hall, tratta dal romanzo di Nella Larsen, presentata al Sundance Film Festival e passata di recente alla Festa del Cinema di Roma, e ora disponibile in streaming su Netflix dal 10 novembre. Parliamo di bianco, di nero e di tutte quelle sfumature che ci stanno in mezzo perché il film di Rebecca Hall è girato in un elegante e luminoso bianco e nero. E perché si parla, ancora una volta, del colore della pelle in America. Siamo negli anni Venti. Ma la questione è sempre attuale.
Siamo ad Harlem, New York, negli anni Venti. Irene (Tessa Thompson), in una pausa in una sala da tè di un albergo, incontra Clare (Ruth Negga), una vecchia amica che non vede da tempo. In quella sala da tè sono le sole due donne di colore. Ritrovandosi, e parlando, viene fuori che le due donne, in realtà, hanno preso delle strade molto diverse. Irene è sposata con un afroamericano (André Hollande), ed entrambi sono degli attivisti per i diritti dei neri. Clare, invece, non solo non è impegnata in questo senso, ma si tinge i capelli di biondo e si imbelletta il viso per sembrare bianca. È sposata a un bianco (Alexander Skarsgård), e per lei che i suoi figli non siano neri è un sollievo. Mentre Irene ne è orgogliosa. “Temevo che i miei figli venissero neri” confessa Clare all’amica. “I miei sono neri” risponde Irene. “Tu non ci pensi mai a passare per bianca?” chiede poco dopo Clare. “No” risponde l’amica, non senza qualche imbarazzo. Clare comincia a frequentare la casa di Irene, conosce i figli e il marito, lega con loro suscitando anche qualche gelosia nella padrona di casa. Ma si muove su un filo molto sottile, dove chi cammina è destinato a cadere da un momento all’altro. Il marito di Clare, che odia i neri e chiama la moglie “negraccia”, non sa che frequenta una casa in cui tutti sono afroamericani.
Due donne – Passing racconta una storia molto dura, lontana nel tempo eppure attuale, che parla di identità. È un discorso intimo, che ha a che fare con il capire, prima di tutto con se stessi, chi si sceglie di essere in questo mondo. È qualcosa che ha a che fare non con chi si è, ma con chi ci si sente. Ma è qualcosa che ha a che fare anche, e profondamente, con la società. Delle persone che si vergognano della loro etnia, della loro identità, fino a celarla, a rinnegarla, vuol dire che sono portate a farlo da una società che ha detto loro continuamente che sono feccia, un popolo di ladri e criminali. Con il risultato di vergognarsi di quello che sono, di non voler appartenere più a quella comunità, a voler apparire qualcos’altro. Ad aspirare ad essere qualcun altro, qualcuno che, tanto è il condizionamento della società, considerano migliore di loro. È un tema interessantissimo, che sinceramente abbiamo visto trattato in pochi film. E che la sceneggiatura ci tiene a raccontare in modo chiaro, tanto da eccedere in certi passaggi in cui le cose sono dette in modo troppo esplicito, con il risultato di raccontare la storia in modo forse davvero troppo didascalico. È come se lo script non si fidasse del pubblico, e dovesse spiegare per filo e per segno di cosa stiamo parlando.
Due donne – Passing è girato in un eccezionael bianco e nero con pochi contrasti, luminosissimo, con una fotografia (di Eduard Grau), che a tratti ricorda quella di Manhattan di Woody Allen, Ed è girato nel formato 4:3, il formato quadrato di un tempo. È come se, a livello formale, Due donne – Passing volesse essere il più possibile coerente con l’epoca che racconta, gli anni Venti. Ma in quel bianco e nero c’è anche molto altro. È una scelta in qualche modo funzionale al racconto e al messaggio del film. Perché quel bianco e nero ammanta tutta la scena di luce, livella e mitiga le differenze del colore della pelle, lo sfuma. In questo modo riesce a rendere credibile che delle donne possano nascondere il colore della loro pelle e la loro etnie, da un lato. Dall’altro, con i (non) colori scelti, prova a creare sullo schermo quell’uguaglianza a cui qualcuno aspira a livello esteriore, provando a nascondere il suo colore e a conformarsi, e qualcuno nella sostanza, provando a lottare invece per il riconoscimento dei propri diritti. Il bianco e nero di Rebecca Hall prova a fare questo, a creare con le immagini quell’uguaglianza che nella società allora non c’era. E ancora non c’è.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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La legge di Lidia Poët: Matilda De Angelis è un’eroina senza tempo

Published
1 mese agoon
15 Febbraio 2023By
DailyMood.it
Gli occhi blu di Matilda De Angelis brillano, sempre in primo piano, nelle scene de La legge di Lidia Poët, la serie in 6 episodi, prodotta da Matteo Rovere e la sua Groenlandia. La serie creata da Guido Iuculano e Davide Orsini è disponibile in streaming dal 15 febbraio su Netflix La serie è diretta da Matteo Rovere e Letizia Lamartire e scritta da Guido Iuculano, Davide Orsini, Elisa Dondi, Daniela Gambaro e Paolo Piccirillo. Matilda De Angelis è Lidia Poët, la prima donna in Italia ad entrare nell’Ordine degli Avvocati. Ed è la protagonista assoluta di una di quelle serie che non ti aspetti.
Siamo Torino, alla fine del 1800. Lidia Poët ha studiato legge ed è un bravo avvocato. Ma, proprio mentre è alle prese con un caso scottante, una sentenza della Corte d’Appello di Torino dichiara illegittima la sua iscrizione di all’albo degli avvocati, impedendole così di esercitare la professione, Il motivo? È un lavoro che per sua natura non si addice ad una donna. Senza lavoro, Lidia torna alla casa della sua famiglia e inizia a lavorare presso lo studio legale del fratello Enrico, mentre prepara il ricorso per ribaltare le conclusioni della Corte. Intanto Jacopo, giornalista e cognato di Lidia, le passa informazioni e la guida nei mondi nascosti di Torino magniloquente.
Quando, molti mesi fa, avevamo letto del progetto di questa serie, avevamo pensato a qualcosa di completamente diverso da quello che è. Ci aspettavamo un biopic classico e ben ancorato nel tempo in cui è ambientato. Ma La legge di Lidia Poët, è chiaro fin dalle prime immagini, e sempre di più man mano che si vedono i vari episodi, è tutt’altro. La storia vera di Lidia Poët, la prima avvocata d’Italia, è soltanto lo spunto per creare una serie moderna, accattivante, pop, con una serie di anacronismi creati ad arte. La serie, che è un period drama, e non può essere altrimenti, nelle mani di Matteo Rovere diventa anche un light procedural. Cioè un vero e proprio racconto poliziesco, con una serie di casi che vengono risolti nel giro di ogni episodio.
L’architettura de La legge di Lidia Poët, infatti, è perfetta. C’è una struttura verticale, che permette di seguire ogni episodio come qualcosa di autoconclusivo, un caso nato e risolto nell’arco dei circa 50 minuti di ogni puntata. E poi c’è una struttura orizzontale, che permette di seguire la lotta di Lidia per l’affermazione del suo diritto a fare il suo lavoro, indipendentemente che si pensi che non sia adatto a una donna. In questa storia c’è gran parte della modernità del personaggio di Lidia. Lidia non è solo una donna che vuole fare il lavoro per cui crede di essere portata. È un’anticonformista, che vuole decidere per se stessa, che non vuole per forza essere legata ad un uomo né farsi mantenere da lui. Che può decidere liberamente di andare a letto con un ragazzo per il piacere di farlo, senza definirsi la sua fidanzata. Guido Iuculano è tra gli sceneggiatori di Romulus, sempre prodotta da Matteo Rovere: un’altra serie che, ambientata in tempi lontani (lontanissimi da noi) prova a raccontare delle storie con dei riferimenti attuali.
Matteo Rovere, artista che si divide ormai tra cinema e serialità televisiva, ha ormai ben chiaro il mercato dove andare ad inserire i propri prodotti. Così se Romulus, a suo modo, andava a inserirsi nel filone del fantasy, La legge di Lidia Poët si va ad inserire in un target vicino a quello di film come Enola Holmes. I due film dedicati all’investigatrice sono anch’essi legati a qualcosa di classico, una figura letteraria d’epoca come Sherlock Holmes, e hanno come protagonista una giovane donna. La Lidia di Matilda De Angelis è un po’ come Enola Holmes: giovane, indipendente, sveglia. E con una grande dote: la deduzione. È proprio questa, insieme all’intraprendenza, la grande qualità di Lidia Poët. La capacità, proprio come una Holmes nostrana e al femminile, di vedere indizi che gli altri non vedono, e di giungere a conclusioni e soluzioni a cui altri non arriverebbero. Per questo assistere alla risoluzione degli enigmi raccontati nella serie è particolarmente divertente.
Ma è piacevole soprattutto perché c’è lei, Matilda De Angelis, che ormai seguiamo con piacere dal primo film in cui l’abbiamo vista, Veloce come il vento. Sì, anche in quel film diretta da Matteo Rovere, che di fatto l’ha scoperta, anche lì una giovane donne alle prese con un lavoro che si crede solo per uomini, il pilota automobilistico. Matilda De Angelis in questo ruolo è perfetta, e il suo personaggio contribuisce a definirlo. Il suo volto, al tempo stesso classico e modernissimo, le permette di disegnare un’eroina senza tempo. Che è proprio quello che deve essere la nostra Lidia. Un personaggio storico, legato alla propria epoca. E un personaggio attuale, moderno, in grado di coinvolgere un pubblico giovane, e di parlare alle ragazze dei nostri tempi. Matilda De Angelis incarna tutto questo: una buona dose di irriverenza, e un’altra di indipendenza. La sua Lidia è rock come lei.
Tutto questo è inserito in una cornice pop, quasi da graphic novel. La storia si svolge in una Torino affascinante e misteriosa, oscura e luminosa allo stesso tempo, un po’ come la Londra di From Hell (La vera storia di Jack lo squartatore nella versione italiana), un film che, non a caso, è tratto da una graphic novel. E a tratti questa serie sembra un romanzo a fumetti. Tra una scena e l’altra troviamo spesso colori accesi, costumi che sono d’epoca, ma sono anche quelli che potrebbe indossare una rock band, così come la musica rock interrompe spesso la storia come contrappunto anacronistico ed efficace. Accanto a Matilda De Angelis, spicca Eduardo Scarpetta (visto nella serie Le fate ignoranti), nel ruolo di Jacopo, sensuale ed espressivo. La macchina da presa di ferma spesso sui loro volti. Soprattutto su quello dell’attrice: per enfatizzarlo, illuminarlo, cercare, come dice Matteo Rovere, “di enfatizzare il rapporto tra il suo volto e il suo tempo”. E così Matilda De Angelis diventa un’eroina senza tempo.
di Marizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
La vita bugiarda degli adulti. Non ti scordare di Napoli e degli Anni Novanta… Su Netflix
Published
2 mesi agoon
11 Gennaio 2023
“Nun te scurda’, nun te scurda’. Nun te scurda’ pecché sta vita se ne va. Nun te scurda’ maje ‘e te”. Inizia con la musica degli Almamegretta, e la voce insinuante di Raiz, La vita bugiarda degli adulti, la nuova serie in 6 episodi prodotta da Fandango e tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, edito da Edizioni E/O, disponibile in streaming su Netflix il 4 gennaio. Nell’onirica sequenza di apertura, che vede la giovane protagonista fluttuare nell’acqua, come in un meccanismo di purificazione, di passaggio, di metamorfosi, ascoltiamo una canzone che è in grado di portarci subito in un mondo, di darci le coordinate, di dirci dove siamo. E siamo proprio dove crediamo di essere: Napoli, anni Novanta. È qui che si svolgono le avventure di Giovanna, e il suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
Tutto ha inizio un giorno, quando Giovanna sente i suoi genitori parlare di lei. “Sta mettendo la faccia di Vittoria”. Il che, nel loro gergo, vuol dire che sta diventando brutta, arrabbiata. Vittoria è la zia di Giovanna, la sorella del padre, con cui ha interrotto i rapporti da anni. Giovanna non ha mai conosciuto la zia. E, passato il dispiacere per quello che le è stato detto, comincia a provare curiosità per la figura di Vittoria. E chiede ai genitori di poterla incontrare. La ricerca di un nuovo volto, dopo quello felice dell’infanzia, oscilla tra due Napoli diverse: la Napoli di sopra, quella dalla maschera fine, e quella di sotto, che si finge smodata, triviale. Giovanna così oscilla tra alto e basso.
Come vi abbiamo detto all’inizio, quello che colpisce subito, ne La vita bugiarda degli adulti, è la cornice anni Novanta che il regista, Edoardo De Angelis (anche sceneggiatore insieme a Elena Ferrante, Laura Paolucci e Francesco Piccolo) riesce a costruire intorno alla storia. Il libro di Elena Ferrante, pur ambientato in quel periodo, lascia un po’ fuori le sensazioni legate all’ambiente e al periodo, concentrandosi molto sulla storia, i rapporti, l’interiorità di Giovanna. Il libro è scritto in prima persona, e spesso c’è il monologo interiore della protagonista. De Angelis invece ci mostra anche tutto quello che c’era intorno. E allora ascoltiamo gli Almamegretta, i Bisca, i 99 Posse, artisti che hanno segnato Napoli – e tutta la scena musicale italiana, e dire il vero – in quegli anni Novanta musicalmente indimenticabili. E con loro ci sono i centri sociali, che in quegli anni facevano cultura.
E poi c’è il Tutto Città. Che ci fa tenerezza, oggi che per qualsiasi cosa usiamo in navigatori sui nostri smartphone. Ma è importante anche per un altro motivo. Il Tutto Città è una mappa, un modo per orientarsi, per scoprire zone della città in cui non si è mai stati. E tutta questa avventura, in fondo, è una mappa, un percorso a alla scoperta di sé, della Giovanna che non lei stessa ancora non conosce. Un percorso fatto di svolte, curve, di discese. E in questo senso è bellissima quella sequenza, quella corsa in motorino che si svolge dall’alto verso il basso, in una serie gironi danteschi giù dalla collina del Vomero. Una discesa che non è una discesa agli inferi, ma nelle viscere di una città, in un cuore pulsante di vita. Che diventa un viaggio dentro di sé, alla scoperta di un io più profondo. Forse il suo vero io, forse una parte di sé che c’era, ma che ancora non sapeva di avere.
Gli interni borghesi, caldi, consueti, un po’ banali della casa di Giovanna sono quelli che ricordiamo degli anni Novanta, e anche degli Ottanta. Sono quelli delle atmosfere del libro, che sono ricostruite alla perfezione. Quello che De Angelis aggiunge, che nel libro non c’è, è la musica, intesa non come sottofondo, ma come scena culturale, come segno sei tempi. E poi aggiunge anche la vita di Giovanna fuori dalla famiglia, le amiche e i centri sociali, la scuola, le strade della città.
La protagonista, Giordana Marengo, è più bella di come la immaginiamo leggendo il libro. Anche se non abbiamo mai creduto alle parole “ha messo la faccia di Vittoria” e, anche leggendo il libro non l’abbiamo mai immaginata brutta, ci figuravamo Giovanna con dei tratti spigolosi, con un modo di essere brusco, scontroso. Giordana Marengo ha un viso molto bello. Ma, per fortuna, lo è in maniera insolita, fuori dalle mode e dal tempo, da ogni somiglianza. I capelli corti, gli zigomi alti, la forma del viso allungato. E poi quegli occhi verdi, quello sguardo penetrante. La sua Giovanna è interessante ed enigmatica.
Vittoria, evocata per tutto l’inizio della storia, arriva piuttosto presto, dopo mezz’ora del primo episodio. La regia non ce la mostra subito. Con una piccola ellissi, ci fa vedere Giovanna uscire dalla sua casa. Poi ritorna subito indietro, nei suoi ricordi, e ci racconta come è andato quell’incontro. Anche Vittoria è molto più bella di come appare nel libro. Ci mancherebbe, direte: a interpretarla è Valeria Golino. De Angelis è bravo a “sporcarla” un po’ quella bellezza, con un trucco un po’ pesante, i capelli arruffati, con un abbigliamento che smorza l’eleganza della Golino. Lei ci mette la scontrosità, movenze che contrastano con la sua grazia. E crea un personaggio credibile. Gli occhi verdi, poi, sono il legame naturale, l’affinità elettiva con la nipote Giovanna, e con Giordana Marengo.
Così come De Angelis è bravissimo a “sporcare” anche l’immagine. Il sopra e il sotto di Napoli sono girati rispettivamente al Vomero e a Poggioreale. Ed è soprattutto quest’ultimo aspetto, a colpire. Come aveva fatto nel suo film Indivisibili, De Angelis è bravissimo ad accentuare il degrado e le ferite di certi ambienti. In questo modo, il contrasto tra alto e basso è più accentuato rispetto al libro. La serie di De Angelis segue il libro ma aggiunge molto. È un viaggio nell’interiorità di una persona, ma anche in un’epoca, in un sogno. Tocca il privato, ma anche il pubblico, la politica, la religione. Per tutti questi motivi La vita bugiarda degli adulti è una serie da vedere.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Glass Onion – Knives Out: Daniel Craig, c’è vita dopo Bond
Published
4 mesi agoon
23 Novembre 2022
Il suo nome è Blanc, Benoit Blanc. A interpretarlo è un fantastico Daniel Craig, ed è un investigatore. Ma è molto lontano da James Bond, l’iconico – e ingombrante – personaggio con cui Craig ha convissuto per gli ultimi 15 anni. E la libertà di poter essere finalmente qualcun altro si vede tutta in Glass Onion – Knives Out, il nuovo film con Daniel Craig, diretto da Rian Johnson, al cinema per una sola settimana dal 23 novembre e su Netflix dal 23 dicembre. Guardare Daniel Craig è un vero e proprio film nel film che merita di essere visto su grande schermo per essere goduto appieno, e poi rivisto in piattaforma. Ma Daniel Craig è solo una delle attrattive di un film delizioso. È il seguito di Knives Out, da noi arrivato con il titolo Cena con delitto.
Benoit Blanc (Daniel Craig) si trova in una lussuosa proprietà su un’isola greca, ma come e perché ci sia arrivato è solo il primo dei tanti misteri da scoprire. Blanc incontra presto un gruppo poco omogeneo di amici giunti su invito del miliardario Miles Bron (Edward Norton) per la loro riunione annuale. Tra gli ospiti ci sono l’ex socio di Miles Andi Brand, la governatrice del Connecticut Claire Debella, l’innovativo scienziato Lionel Toussaint, la stilista ed ex modella Birdie Jay con la coscienziosa assistente Peg, l’influencer Duke Cody e la fedele fidanzata Whiskey. Come in tutti i gialli che si rispettino, ogni personaggio ha i propri segreti, bugie e motivazioni. Alfred Hitchcock diceva che, quando in scena c’è una pistola, si sa che sparerà. E quindi…
C’è un gruppo di disruptors, quei creatori di nuove imprese che hanno rotto le regole del mercato, i creatori di app e social network, al cento della storia. E il miliardario Miles Bron di Edward Norton è un mix tra Elon Musk e Mark Zuckerberg, con i vezzi e le idiosincrasie di questi personaggi, che sono i nuovi dominatori del mondo. Glass Onion – Knives Out è una satira tagliente di certi ambienti e certi personaggi, e il primo livello di divertimento è qui.
L’altro, e quello principale, è senza dubbio il giallo, un genere classico della letteratura e del cinema che Rian Johnson, con il suo Cena con delitto (Knives Out) ha riportato in auge e allo stesso tempo ha rinnovato. In questo nuovo Glass Onion – Knives Out bisogna che tutto cambi perché tutto resti uguale. Il divertimento del giallo è lo stesso, ed è godibilissimo. Ma, allo stesso tempo, tutto è nuovo. Cena con delitto era classico, statico, paludato. Era una riedizione del tipico giallo alla Agatha Christie, in una casa borghese, un luogo chiuso e visto molte volte. Glass Onion – Knives Out inizia con un mosaico di luoghi diversi, con un montaggio frenetico tra tutti i “concorrenti” che parteciperanno al gioco. Per poi riunirli in un unico posto. Ma stavolta è un luogo bizzarro, inedito, mai visto: è una villa sul mare, in Grecia, con un attico a forma di cipolla di verto. È la Glass Onion del titolo. Che prende il nome dalla famosa canzone dei Beatles, dal White Album, che sentiamo sui titoli di coda.
E non è la sola canzone che Rian Johnson sceglie di mettere nel film. Nella colonna sonora troviamo anche i Bee Gees e ben due brani di David Bowie, Star e Starman, segno che il regista, reduce dal successo del primo film, può davvero permettersi di tutto. Come un cast stellare che, oltre a Daniel Craig ed Edward Norton, annovera Janelle Monáe, Kathryn Hahn, Leslie Odom Jr., Jessica Henwick, Madelyn Cline, Kate Hudson – strepitosa – e Dave Bautista. Johnson può permettersi anche di schierare in campo – e con un ruolo non banale nel film – la Gioconda. Sì, proprio la Monna Lisa, il capolavoro di Leonardo Da Vinci. Che cosa ci fa in un film così lo lasciamo scoprire a voi.
Ma alla fine arriva Blanc, Benoit Blanc, il protagonista, la vita dopo Bond di Daniel Craig. Che, smessi lo smoking e gli abiti eleganti, la Walther PPK e l’Aston Martin di James Bond, qui sembra davvero libero di volare alto, di divertirsi. Il Craig che impersona Benoit Blanc è espressivo come non mai: ci sono i suoi occhi blu ghiaccio, che qui ama sgranare come non aveva mia fatto prima. C’è il suo broncio, le labbra arricciate. Se riuscite a vedere il film in lingua originale potrete anche gustarvi la sua voce profonda. Daniel Craig qui è libero nelle espressioni, libero nei movimenti, e anche negli abiti. Indossa vestiti di lino chiari e camicie azzurre o rosa, l’ascot al posto della cravatta o del papillon che erano il marchio di fabbrica del look di James Bond. E poi quel buffo costume “intero”, a righe bianche e blu che indossa per tuffarsi in piscina, lui che è famoso per il suo fisico statuario e per quella apparizione in boxer in Casino Royale, il suo primo 007.
Ironico, e soprattutto autoironico, il Benoit Blanc di Daniel Craig è un Hercule Poirot con un fisico da James Bond e una vis comica fuori dal comune. E con il tempismo di Jessica Fletcher – alias La signora in giallo – per come appare sempre dove sta per essere commesso un delitto. A proposito, nel film c’è un cameo di Angela Lansbury, che rimarrà la sua ultima apparizione sullo schermo prima della sua scomparsa. La recitazione di Craig, e quella di tutti gli attori, è sopra le righe, ma non troppo. Quel tanto che basta per rendere il film scoppiettante e sorprendente, ma rimanendo nell’ambito di una storia credibile.
Con Glass Onioon – Knivers Out Rian Johnson porta il giallo classico alla Agatha Christie in una nuova era. E, da quello che ci sembra, questa nuova franchise, alla seconda puntata, è solo all’inizio. Glass Onion – Knives Out è un film spassoso, caleidoscopico, bizzarro, un perfetto film da guardare al cinema, e poi, tutte le volte che volete, in streaming. Ricordate questo nome, perché nei prossimi anni vi ritroverete a ripeterlo spesso. Blanc, Benoit Blanc.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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