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Nomadland: L’altro lato del Sogno Americano è da Oscar

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Dovrei paragonarti a un giorno d’estate? Tu sei più amabile e più tranquillo. Impetuosi venti scuotono le tenere gemme di maggio. E il corso dell’estate ha fin troppo presto una fine”. Frances McDormand, alla fine di Nomadland, il film di Chloé Zhao vincitore dell’Oscar 2021, declama il sonetto n. 18 di Shakespeare, noto anche come “Shall I compare thee to a summer’s day”. Nomadland ha trionfato agli Academy Awards vincendo come miglior film, miglior regia a Chloé Zhao e miglior attrice protagonista a Frances McDormand, dopo aver vinto il Leone d’Oro a Venezia e molti altri premi. Chloé Zhao ha fatto la storia, diventando la seconda donna, e la prima di origini asiatiche, a trionfare agli Oscar. E l’ha fatta anche Frances McDormand,  che ha vinto la sua terza statuetta diventando la seconda artista, dopo Katharine Hepburn, a ottenere tre volte l’Oscar come migliore attrice protagonista. Il film lo potrete vedere prestissimo: è in uscita il 29 aprile nei cinema aperti e il 30 aprile  sarà in streaming su Star su Disney+.

Dovrei paragonarti a un giorno d’estate? Tu sei più amabile e più tranquillo. Impetuosi venti scuotono le tenere gemme di maggio. E il corso dell’estate ha fin troppo presto una fine. Talvolta troppo caldo splende l’occhio del cielo, E spesso la sua pelle dorata s’oscura; Ed ogni cosa bella la bellezza talora declina, spogliata per caso o per il mutevole corso della natura. Ma la tua eterna estate non dovrà svanire, né perder la bellezza che possiedi, né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra, quando in eterni versi nel tempo tu crescerai. Finché uomini respireranno o occhi potran vedere, queste parole vivranno, e daranno vita a te.” I versi di Shakespeare rendono bene quel senso di contatto, di comunione con la natura che è Nomadland. Shakespeare è uno dei riferimenti letterari – un altro è il libro Nomadland: Un racconto d’inchiesta di Jessica Bruder, da cui è nata l’idea del film –  di una storia che è poetica, ma allo stesso tempo trasuda verità.

Frances McDormand è Fern, una donna matura che, dopo il collasso economico di una città aziendale nel Nevada rurale, e la scomparsa del marito, resta senza niente: non ha più la casa, il compagno di una vita, il lavoro. La sua vita com’era prima non esiste più. Così carica i bagagli sul proprio furgone e si mette in strada alla ricerca di una vita fuori dalla società convenzionale, come una nomade moderna. “I’m not homeless, I’m houselless. It’s not the same” dice Fern a dei conoscenti quando li incontra. Che suona un po’ come dire “non sono senza una casa, sono solo senza un’abitazione”. La casa di Fern è il suo furgone, ma è soprattutto dentro di lei, è tutto quello che si porta nell’anima.

Sarà banale dirlo, ma Nomadland è un affresco dell’altro lato del Sogno Americano, l’istantanea di una modalità di vita alternativa. Di un rifiuto, sereno e pacificato, del sistema precostituito. È un film da vedere accanto ad altre storie che hanno un’anima affine, come Into The Wild di Sean Penn e Below Sea Level di Francesco Rosi, solo per citarne alcuni.

Nomadland è un film che vive negli ampi spazi dei territori americani, è un viaggio verso Ovest che è simile a quello che fecero i pionieri secoli fa. Chloé Zhao, regista di origine cinese voluta da Frances McDormand dopo che aveva visto il suo film precedente The Rider – Il sogno di un cowboy, è cresciuta in città della Cina e dell’Inghilterra, e come tale è stata affascinata dalla strada, dagli spazi aperti, da questo viaggio senza fine alla scoperta di quello che c’è oltre l’orizzonte. Come spesso accade, chi non ha origini americane ha un modo di vedere l’America diverso, esterno, e riesce spesso a coglierne la natura intima, a fissarne i suoi aspetti iconici.

Tra inquadrature ampie e spazi smisurati, Chloé Zhao si sofferma anche sui dettagli. Alcuni sono più significativi di altri. Come quel primo piano su un cactus. È un’immagine della resilienza, di un essere vivente che si adatta a vivere con quello che ha, con la poca acqua che gli mette a disposizione il deserto. Vivere con poco si può, sembra dirci quell’immagine. ed è quello che sembra volerci dire anche Fern.

Sei da sola, lontano da tutti, potresti morire” dicono a Fern. Sì, ma da sola, lontano da tutti, può anche nuotare nuda nelle fresche acque correnti di un fiume. Può passeggiare sotto tramonti da brivido. Può pulire un parco insieme ad altre persone, e poi andare una festa di compleanno all’aperto. Può perdersi, come in un labirinto, tra le pareti alte delle montagne rocciose.

Gli uomini vanno e vengono, le città nascono e muoiono, intere civiltà scompaiono; la terra resta, solo leggermente modificata. Restano la terra e la bellezza che strazia il cuore, dove non ci sono cuori da straziare. A volte penso, senz’altro in modo perverso, che l’uomo è un sogno, il pensiero un’illusione, e solo la roccia è reale. La roccia e il sole”. Sono le parole tratte da Desert Solitaire, di Edward Abbey, un altro libro che è stato dato a Chloe Zhao mente stava girando. E così, lungo la strada, lungo quel set in movimento, i nomadi andavano e venivano mentre si stava girando il film. Alcuni conservavano rocce trovate durante le loro peregrinazioni, con le loro case su ruote alimentate dal sole. Dispensavano storie e saggezza davanti e dietro l’obiettivo della telecamera. Molti di quelli che vediamo nel film sono loro, persone che fanno veramente questa vita, e che danno al film un tocco di verità che ne fa qualcosa di unico. Accanto a loro, ci sono grandi attori. Come Frances McDormand e David Strathairn. “Dedicated to the ones who had to depart. See you down the road” recita la dedica finale del film. “Dedicato a tutti quelli che sono dovuti partire. Ci vediamo lungo la strada”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Spider-Man: Across the Spider-Verse: la pagina di un fumetto prende vita e ci tira dentro

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Voglio da sempre stare in una band, senza trovare mai quella giusta. In un lavoro come il mio si finisce sempre a fare un assolo”. È la voce narrante di Gwen, che, nel pieno di un assolo rock di batteria, apre a sorpresa Spider-Man: Across the Spider-Verse, da giovedì 1 giugno solo al cinema. L’attesissimo film di animazione Sony Pictures è il secondo capitolo della pellicola premiata con il premio Oscar, Spider-Man: Un nuovo universo, ed è diretta da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson. Gwen parla dal suo universo, dove è l’eroina di turno, ma dove, come è ormai chiaro a chi conosce i supereroi, è sola. Così come è solo, nel suo universo, Miles Morales, il protagonista, l’Uomo Ragno che abbiamo imparato ad amare nel primo film. Dopo qualche minuto entra finalmente in scena anche lui.

La storia di Spider-Man: Across the Spider-Verse è molto semplice, ma anche molto complessa. Possiamo dirvi che, dopo essersi riunito con Gwen Stacy, Miles Morales, l’amichevole Spider-Man di quartiere di Brooklyn, viene catapultato nel Multiverso, dove incontra una squadra di “Spider-Eroi” incaricata di proteggerne l’esistenza. Ma quando gli eroi si scontrano su come affrontare una nuova minaccia, Miles si ritrova contro gli altri “Ragni” e dovrà ridefinire cosa significa essere un eroe per poter salvare le persone che ama di più.

Iniziare a vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse è come la prima volta, come in quel giorno di dicembre in cui siamo entrati in un cinema per vedere Spider-Man: Un nuovo universo. È un’esperienza unica, stordente, totalizzante. Questa nuova saga d’animazione di Spider-Man, indipendente dai film live action del Marvel Cinematic Universe, ha uno stile unico. Non è il classico cinecomic con attori, non è il film d’animazione più “infantile”, con i personaggi curiosi (ma ai bambini piace tantissimo), non c’è il fotorealismo di tanta animazione di oggi.  C’è invece, in quelle immagini, un vero senso del fumetto, del disegno, del tratto imperfetto ma pieno di personalità. I disegni del film sono funzionali alla storia, ma hanno un loro senso anche come disegni a sé stanti, come se fossero opere d’arte. Hanno il tratto di un graffito, o di un acquerello. E non solo.

Una delle idee geniali del film è che, in una realtà dove sono possibili infiniti universi, e che in qualche modo siano comunicanti tra loro, ogni universo, ogni mondo, ogni epoca abbia il suo tratto grafico, il suo stile. Così vediamo l’Avvoltoio arrivare da universo dove la grafia è quella dei disegni di Leonardo Da Vinci. Ma vedremo anche uno Spider-Punk arrivare da un mondo in cui la grafica è quella “cut-up” e caotica delle copertine dei Sex Pistols e delle t-shirt di Vivienne Westwood, e ancora un mondo in cui l’immagine è quella dei mattoncini Lego.

Ma quello che conta è che questa versione animata dell’Uomo Ragno è proprio la pagina di un fumetto che prende letteralmente vita, si anima, ti avvolge e ti tira dentro. È un’esperienza immersiva, senza bisogno di essere in 3D o in realtà virtuale. Basta la potenza delle immagini, la loro profondità, la fantasia, la varietà delle soluzioni che regalano sorprese a ogni fotogramma. Allo stesso tempo il nuovo Spider-Man animato è puro cinema, essendo ricco di scene, per quanto stilizzate, che prendono ispirazione dagli stilemi del cinema poliziesco, noir e azione.

Ma la cosa che ci piace di più è che Spider-Man: Across the Spider-Verse racchiude in sé tutto il senso di quello che dovrebbe essere il cinema d’animazione oggi. Va bene che continui a fare le storie e i personaggi da “cartoon”, e che dall’altra parte insegua la realtà con personaggi creati al computer così fotorealistici da sembrare veri. Ma le possibilità che ha il cinema d’animazione sono quelle di essere “larger than life”, più grande della vita. Di andare cioè oltre i limiti della realtà, oltre le leggi della fisica, oltre quello che possono fare gli attori in carne ed ossa. E nel nuovo Spider-Man accade finalmente proprio questo.

Come il secondo Spider-Man di Sam Raimi, anche qui l’Uomo Ragno di Miles Morales è diviso tra la sua vita privata e il destino di essere un eroe e tutto quello che comporta. Come in quel film, anche questo Uomo Ragno d’animazione è capace di creare immagini iconiche. Come quelle in cui Miles e Gwen sono a testa in giù, ribaltati e attaccati al soffitto con i piedi, e l’immagine si capovolge mostrandoci i due eroi dritti, e tutto il mondo – lo skyline di New York – capovolto. Ci sarà anche un’immagine in cui Gwen è dritta e Spidey a testa in giù, come nell’iconica immagine di quel film con Raimi.

Certe sequenze d’azione riescono a creare un senso di vertigine da antologia. E la storia, dopo un inizio molto ironico – pieno di gag, battute, riferimenti ai social media – diventa più solenne e tragica, toccando temi come il libero arbitrio, il destino e la nemesi di ogni eroe. Temi da cinecomic adulto. Cosa che questo nuovo Spider-Man è. È un film epico, ambizioso, magniloquente. Forse, per essere un film d’animazione, è troppo lungo nei suoi 140 minuti, e a tratti anche troppo complicato e macchinoso, visto l’ambizione di raccontare una storia nuova e intricata. Non finirà qui, e arriverà un terzo capitolo. Le premesse ci sono. Come dice Gwen: “Non ho mai trovato la band giusta. Così ne ho creata una mia”. È una band di amici. Sono i suoi amici. E ormai sono anche i nostri.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Sanctuary: Margaret Qualley, la figlia di Andie MacDowell è diventata grande

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L’avevamo conosciuta vestita da hippie, canotta colorata, shorts e gambe lunghissime. E quei piedi messi con nonchalance sul cruscotto di Brad Pitt in C’era una volta a… Hollywood. Parliamo di Margaret Qualley, attrice in rampa di lancio e figlia d’arte: la madre è Andie MacDowell. È proprio Margaret Qualley il motivo migliore per vedere Sanctuary, il film che la vede protagonista assoluta, e in una veste inedita, in uscita al cinema il 25 maggio. La vedrete come non l’avete mai vista, con i capelli biondi, a caschetto. E anche cattiva, dura, sboccata. Ma sarà solo l’inizio di una serie di trasformazioni.

In Sanctuary Margaret Qualley è Rebecca, una dominatrice, una professionista del sesso. Hal (Christopher Abbott) è il suo cliente. Man mano che la storia procede, e svelano le verità, veniamo a sapere che fa parte di una ricca famiglia di cui sta per ereditare le fortune. Non può più permettersi di avere una pericolosa relazione con una donna che conosce i suoi segreti e le sue perversioni. Così decide di vederla per un’ultima volta e dirle che tra loro è tutto finito. Ma il suo tentativo di tagliare i legami gli si potrebbe ritorcere contro. Rebecca ha una reazione inaspettata.

Rebecca, come lavoro, fa la dominatrice. È la donna sicura di sé (o recita quel ruolo?), la donna che non deve chiedere ma solo ordinare. Lo dimostra con il suo abito, un tailleur pantalone, e con la sua postura. Mentre dà gli ordini è seduta su una sedia, a gambe divaricate, proprio come si siederebbe un uomo. Ma il look con cui l’attrice appare in scena, all’inizio, ci colpisce ancora di più. I capelli biondi, lisci, a caschetto, che cadono sul suo volto e lo incorniciano, in qualche modo ne cambiano la fisionomia. Il viso da cerbiatto, nelle prime scene di Sanctuary, è ancora più evidente. I tratti del viso sembrano ancora più perfetti, la pelle levigata, le labbra rosse che lasciano intravvedere il più bel paio di incisivi visti dai tempi di Naomi Watts. L’appellativo per la Watts era di Woody Allen. Chissà che ne pensa di Margaret Qualley… La parrucca, una volta tolta, lascia spazio a quei riccioli neri e a quell’aria da bambina, come direbbe quella canzone, che abbiamo visto in film e serie precedenti. Quando quei capelli se li raccoglie in una coda alta a tratti sembra proprio di guardare sua madre.

Sanctuary non è solo un’altra prova della bellezza di Margaret Qualley, ma è soprattutto una grande prova di bravura. Mentre negli altri film in cui l’abbiamo vista in scena manteneva lo stesso tono per tutta la durata, qui Margaret Qualley è un caleidoscopio. Riesce ad essere ogni cosa: dura, complice, suadente, perfida, urticante.  Guardate, e ascoltate, attentamente il momento in cui pronuncia le parole “giuro fedeltà alla costituzione degli Stati Uniti”: lo fa con un tono di voce sensuale e languido che sembra voler dire tutt’altro. Intonazione, espressività: è il lavoro dell’attore. E in Sanctuary Margaret Qualley dimostra di essere una grande attrice.

Occhi piccoli e brillanti, blu, sorriso disarmante, i capelli ribelli, lunghi e ricci, il fisico slanciato, Margaret Qualley è stata suadente e maliziosa in C’era una volta a… Hollywood, in una breve apparizione che però ha lasciato il segno. È stata tenera, ferita e determinata nella serie Maid (disponibile su Netflix), di cui era protagonista assoluta nella parte di una donna vittima di abusi che lasciava il compagno e provava a farcela da sola con una bambina piccola. Una serie da vedere assolutamente. Ma la Qualley ha lavorato anche nelle serie tv The Leftovers e Fosse/Verdon e nei film The Nice Guys e Un anno con Salinger. È stata legata all’attore Shia LaBeouf e oggi è fidanzata con il musicista Jack Antonoff, leader dei Bleachers. Sanctuary è un altro tassello della sua crescita. È un film forse pretestuoso, troppo cerebrale, forzato. È un film che finisce come una commedia da Guerra dei Sessi anni Quaranta, senza esserlo mai stata. Il motivo per vederlo, però, ce lo avete. È Margaret Qualley.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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La Sirenetta: Halle Bailey, una giovane che perde la voce per ritrovarla

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Il canto delle sirene, come vuole la leggenda, è ammaliante e seducente. Vuole così anche la storia de La Sirenetta, fiaba di Hans Christian Andersen, diventata poi un famoso film d’animazione della Disney, e ora un film live action che arriva al cinema il 24 maggio. La giovane protagonista, Halle Bailey, come racconta il regista Rob Marshall, è stata scelta anche per la sua voce bellissima, proprio come quella di una sirena. La cosa migliore del film è proprio lei, bella, brava e convincente. Anche se, con il doppiaggio in italiano, non abbiamo sentito la sua voce nelle canzoni. Che, ovviamente, sono molto belle anche con la voce italiana.

Ariel (Halle Bailey) è una sirena adolescente con una bellissima voce e continuamente alla ricerca di avventura. È la figlia più piccola di Tritone (Javier Bardem), il Re gli oceani, ed è la più ribelle. Ariel è affascinata dal mondo in superficie, dove vivono gli umani, con cui il popolo del mare non può avere a che fare: è la volontà di Tritone. Ariel allora, con il suo amico, il pesciolino Flounder, colleziona oggetti del mondo degli umani che sono caduto sul fondale del mare e li conserva nella sua grotta segreta. Un giorno, andando contro le regole di suo padre e i consigli di Flounder e Sebastian, il granchio maggiordomo del Re, nuotando arriva in superficie. E si trova a salvare un principe da un naufragio. Ma questo lo sapete già.

Il canto delle sirene, dicevamo. Nella versione italiana de La Sirenetta ovviamente non ascoltiamo la voce angelica – così l’aveva definita il regista Rob Marshall – di Halle Bailey nelle canzoni. È normale, perché la canzoni, quelle note, soprattutto, vanno portata al pubblico in italiano, anche per il ruolo che hanno nella storia. È un peccato però non poter ascoltare la voce della giovane attrice. Che, in ogni caso, è bellissima. Ha un viso molto dolce, espressivo, un’aria ancora innocente, come prevede il personaggio, ma anche un sex appeal notevole. Il suo fisico slanciato, tonico, la rende credibile sia nelle evoluzioni marine come sirena che sulla terraferma, come ad esempio quando balla.

Le polemiche sulla questione dell’etnia speriamo siano ormai superate.  Scegliere una giovane donna di colore per un ruolo così iconico è stata una scelta semplice per Rob Marshall. “Il nostro obiettivo era trovare una persona che fosse incredibilmente entusiasta, brillante, vulnerabile, perspicace, e che avesse moltissima grinta e gioia”, ha dichiarato il regista. “Quando l’ho incontrata per la prima volta, Halle era così giovane e un po’ ultraterrena, e la sua voce era semplicemente angelica. In più, aveva un legame profondo con i temi delle canzoni che cantava”. “Stavamo semplicemente cercando l’attrice più adatta per questo ruolo, punto. Abbiamo provinato tantissime persone di qualsiasi etnia. Non c’erano secondi fini. Come regista, speri sempre di trovare un attore che sia capace di reclamare un ruolo e dire ‘questo ruolo è mio’. Questo è esattamente quello che è successo con Halle”.

Ed è proprio così. Dal primo momento che vediamo Halle Bailey nel ruolo di Ariel, non pensiamo più alla Sirenetta del cartone originale, ma vediamo lei come la Sirenetta in tutto e per tutto. L’attrice in questo ruolo è credibile, è simpatica. L’amore con la nuova Sirenetta scatta subito, alla scena – presa pari pari dal film d’animazione originale – dell’arricciaspiccia, quella in cui, parlando con il gabbiano Scattle, scambia una forchetta per un pettine. Ma ogni polemica sarebbe comunque stata inutile. Una sirena è una creatura fantastica, che appartiene a un mondo come quello del mare. E, come tale, può davvero avere qualsiasi aspetto, qualsiasi tratto. Così, tutto appare naturale quando, al cospetto di Tritone, appaiono le altre sorelle di Ariel, ognuna di un’etnia diversa. Come se il mare riunisse tutte le regioni della Terra in un unico mondo.

Ma Halle Bailey è anche, e soprattutto, una sirena in carne ed ossa. E per questo il suo personaggio è più tangibile, più reale. La sinossi ci dice che Ariel ha 18 anni. E questo nuovo film allarga il target, raggiunge e fa identificare non solo le bambine, ma anche le adolescenti. Ed è un bene. Perché la storia di Ariel è una storia di emancipazione e autodeterminazione femminile. La storia di una ragazza che perde la voce per ritrovare la sua voce. Per essere finalmente ascoltata. L’auspicio è che sia di modello a tante ragazze che provano a far uscire la loro voce: che questa voce possa arrivare forte e chiara.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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