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The Bowie Years: il boxset con 7 cd ci racconta l’incredibile storia di Iggy Pop a Berlino

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È lunedì sera, siamo lungo le strade di Berlino, e David Bowie sfreccia su una Mercedes Ponton Coupé. Accanto a lui c’è Iggy Pop, l’ex leader degli Stooges: siamo a metà degli anni Settanta ed entrambi sono in fuga da Los Angeles, dalla dipendenza da cocaina di Bowie e dal ricovero psichiatrico di Iggy. I due sono alla ricerca di qualcosa da fare, girano in tondo, arrivano sul Kurfürstendamm, un grande viale di Berlino, dove incontrano uno spacciatore che doveva averli fregati. Che fare? Con il radiatore della loro Mercedes vanno a sbattere sul retro dell’auto del pusher. Poi tornano indietro, e lo fanno di nuovo. E vanno avanti così per 5-10 minuti. Da questa esperienza nascerà Alway Crashing In The Same Car, che finirà su Low, il primo album “berlinese” di Bowie. Quella sera, i due finiranno a girare in tondo nel parcheggio sotterraneo del loro hotel, con l’idea di andarsi a schiantare contro un muro. Per fortuna la benzina finirà in tempo. È un episodio che racconta bene che cos’erano, all’inizio, gli anni di Bowie a Berlino. Che sono famosi per la sua “Trilogia Berlinese”, ma hanno dato vita anche a due grandi dischi di Iggy Pop. Il cofanetto di 7 CD The Bowie Years esplora gli album dell’era berlinese di Iggy Pop: ci sono le versioni rimasterizzate di The Idiot e Lust For Life e del live TV Eye, con registrazioni del tour del 1977 a Cleveland, Chicago e Kansas City, con ospite David Bowie alle tastiere. Ci sono inoltre altri tre dischi di registrazioni live del marzo 1977 che vengono pubblicate ufficialmente per la prima volta: al Rainbow Theatre di Londra, all’Agora di Cleveland e al Mantra Studio di Chicago. E poi una serie di rari outtake, mix alternativi ed un libro di 40 pagine. Dal 29 maggio Lust For Life e The Idiot sono stati pubblicati anche separatamente in edizione doppio CD Deluxe con un CD live bonus.

 DAVID E IGGY NEL CASTELLO.
Alla fine dello Station To Station Tour, Bowie e Iggy si trasferirono allo Château d’Hérouville, un antico castello in Francia diventato uno studio di registrazione, dove Bowie aveva registrato il suo disco Pin Ups nel 1973. Bowie, innamorato del posto, decise che il primo album di Iggy dopo tre anni sarebbe stato registrato lì. Laurent Thibault, ex bassista del gruppo prog rock dei Magma, e proprietario dello studio, sarebbe stato l’ingegnere del suono e avrebbe suonato il basso. Alla batteria ci sarebbe stato Michel Santangeli. Bowie e Iggy arrivarono nel castello alla fine di giugno del 1976. Bowie entrava in studio con delle tracce di canzoni, degli arrangiamenti molto scarni. Si sedeva al piano elettrico e dava delle indicazioni piuttosto vaghe a Santangeli. Una volta che la parte ritmica lo aveva soddisfatto, passava a un altro pezzo. Fu un lavoro piuttosto veloce, giusto un paio di giorni. The Idiot, quello che sarebbe diventato il nuovo disco di Iggy Pop, nacque così. E questo sarebbe stato il metodo di lavoro di tutti gli altri dischi del periodo berlinese (che iniziò proprio qui, in Francia) di David Bowie, Low, “Heroes” e Lodger, vennero registrati con questo metodo. Una volta registrata la sessione ritmica, Bowie suonò la chitarra (anche se poi chiamò Phil Palmer per risuonare alcune parti). The Idiot è uno dei dischi dove è più presente il Bowie musicista: oltre alla chitarra suonò i sintetizzatori, il piano elettrico, il sassofono e realizzò anche i cori. Poi fu la volta di Thibault al basso, le cui parti furono registrate, ancora una volta, con poche indicazioni da parte di Bowie. Il sound che avrebbe avuto The Idiot era quasi pronto. Arrivarono poi due fidati collaboratori di Bowie, George Murray e Dennis Davis, per registrare la sezione ritmica di Sister Midnight, che avevano già suonato con Bowie nello Station To Station Tour, e che per questo suona diversa rispetto alle altre del disco: più funky e rilassata, è stata definita “una Golden Years più scura e inquieta”. L’altro brano a cui suonarono i due è Mass Production, che chiude l’album.

CHINA GIRL.
In tutto questo, Iggy Pop stava ancora partecipando poco a quello che, a tutti gli effetti, sarebbe stato il suo nuovo album, anche se tutta la musica era di Bowie. Iggy girava per lo studio, si sedeva in regia ad ascoltare e prendere appunti per i testi. Ma spesso li improvvisava al momento, davanti al microfono. È una modalità che affascinava Bowie, tanto che avrebbe lavorato così in uno dei dischi seguenti, il famoso “Heroes”. Spesso i testi nascevano su suggerimento di Bowie: Dum Dum Boys, ad esempio, era il racconto delle giornate di Iggy con gli Stooges. Ma il testo più famoso nacque proprio in quel castello, che era anche un rifugio per le celebrità. E dove Iggy incontrò la ragazza dell’attore Francese Jacques Higelin, Kuelan Nguyen, vietnamita, con cui scattò un’immediata intesa e nacque una relazione. La loro storia finì presto, ma diede a Iggy l’idea per una canzone d’amore romantica e apocalittica. È così che prese vita China Girl. Finita l’esperienza al castello, Bowie e Iggy si spostarono al Musicland di Monaco, lo studio di proprietà di Giorgio Moroder, dove vennero registrate le voci e dove vennero messi a punto alcuni brani. Per Mass Production, ad esempio, Thibault creò un nastro gigantesco, grazie al quale mandava in loop ondate di suono, in modo da ricreare l’effetto della sirena di una fabbrica: un’anticipazione di quella che, anni dopo, sarebbe diventata la musica industrial.

AVVOLTO DA UNA NEBBIA E UNO STORDIMENTO ALCOLICO.
The Idiot, che uscirà nel marzo del 1977, è da molti considerato una sorta di prototipo per Low, il primo disco della nuova vita di Bowie. In un certo senso lo stesso Bowie lo ammise, dicendo di aver usato Iggy “come cavia per il suono che volevo ottenere”. È comunque un grande disco, spesso sottovalutato, che segna un momento di passaggio per entrambi gli artisti. Se Low sarà il disco con cui Bowie riemergerà dalle sue dipendenze, The Idiot è ancora “avvolto da una nebbia e uno stordimento alcolico e di droghe, ma proprio per questo è più ostico e sicuro di sé” come scrive Thomas Jerome Seabrook nel libro Bowie – La Trilogia Berlinese. Per Iggy è il primo disco in quattro anni, ed è un nuovo inizio a tutti gli effetti, lontanissimo dal suono grezzo e furibondo, dalla “raw power” degli Stooges. The Idiot è gelido, controllato, notturno, è un suono fatto di bassi rimbombanti, batteria motorik e di sintetizzatori. È, in tutta la carriera di Iggy, il disco più distante dai suoni a cui viene associato. E in cui Iggy, su richiesta di Bowie, rinuncia alle sue urla, e canta su un registro baritonale, quasi da crooner. The Idiot sarebbe uscito qualche mese dopo il prossimo disco di Bowie, Low. Con una mossa astuta, Bowie scelse di far uscire prima la sua opera, in modo che non si pensasse che, in qualche modo, fosse lui a seguire la scia di Iggy.

PARLANDO CON DRACULA E LA SUA CIURMA.
Se Sister Midnight, la canzone che apre il disco, è ancora debitrice del suono precedente di Bowie, ed è nata durante il tour di Station To Station, con il suo stile kraut funk, ma con un nuovo testo di Iggy che le fa assumere un nuovo significato edipico, Nightclubbing è il primo brano nella storia di Bowie, e anche in quella di Iggy, in cui viene usata la batteria elettronica, probabile influenza del lavoro negli studi di Moroder. Il testo è autobiografico, e sarà un’influenza importante nelle future composizioni di Bowie, che si sposteranno verso uno stile di racconto più crudo e diretto. Funtime è forse il pezzo del disco più vicino al suono degli Stooges, ma è carico di effetti spaziali e ricorda alcuni suoni che ritroveremo su Fashion, la canzone di Bowie che uscirà su Scary Monsters. Anche questo è un brano autobiografico: cantato in prima persona plurale, come Nightclubbing, è evidentemente il racconto di due persone: e rievoca gli ultimi, inquietanti, giorni di Bowie e Iggy a Los Angeles (“parlando con Dracula e la sua ciurma”). E poi c’è China Girl. È il brano più famoso del disco: la conosciamo tutti per la rilettura pop che ne fece Bowie negli anni Ottanta (per far guadagnare all’amico qualche diritto d’autore) con quelle chitarre funky finto-orientali create da Nile Rodgers, i cori dolciastri e quel famoso “shhh”. Senza tutto questo, la canzone che appare su The Idiot, con quella “chitarra raddoppiata ed esuberante, quei sintetizzatori che sbucano fuori dal nulla”, di cui parla Seabrook nel suo libro, riesce a catturare e a ipnotizzare a ogni ascolto. È una canzone disperata e struggente. Iggy canta, declamando (Bowie gli chiese di cantare “come se fosse Mae West”), una storia d’amore e rinuncia, conscio che, la sua ragazza orientale, in fondo, dovesse stargli lontano perché i suoi costumi occidentali avrebbero finito per corromperla. Bowie disse che China Girl è una canzone che parla di “invasione e sfruttamento”.

QUEL RIFF SCRITTO ALL’UKULELE, SUL SUONO DI UN TELEGRAFO.
Dopo un tour di successo di Iggy Pop in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove Bowie rimase in disparte a suonare le tastiere (ma in cui almeno metà del pubblico accorreva per vedere lui), Iggy Pop e David Bowie si misero a lavorare al nuovo disco di Iggy. The Idiot non era andato oltre il 30esimo posto delle classifiche inglesi, ma era esploso il punk, e Iggy, che con gli Stooges suonava quella musica molti anni prima, era diventato per tutti il capostipite del punk, uno dei re del rock’n’roll. Ma era anche vero che, ovunque andasse, il nome di Bowie alleggiava sempre intorno a lui. Lust For Life, il disco che avrebbe seguito The Idiot, sarebbe stato un disco molto diverso. Ai due, nell’appartamento berlinese di Iggy, si unì Ricky Gardiner, un chitarrista che tirò fuori il riff di The Passenger, che diventerà uno dei più famosi degli anni Settanta, e di tutta la storia del rock. Un altro celebre riff, quello tambureggiante di Lust For Life, lo scrisse Bowie all’ukulele, seguendo il ritmo del messaggio su un telegrafo morse ascoltato nel tema del network televisivo dell’esercito.

IGGY SI LIBERA DALLE CATENE.
Lust For Life è stato registrato agli Hansa Studios di Berlino, dove ai tre musicisti si unirono Carlos Alomar, alla chitarra, e Hunt e Tony Sales: la batteria e il basso dei due fratelli sono trascinanti, danno una marcia in più, un tocco inconfondibile al suono di Lust For Life. Che è a tutti gli effetti un disco rock, in cui ogni strumento suona come se fosse stato appena collegato all’amplificatore, diretto e senza effetti. In The Idiot Bowie aveva lavorato a lungo ad atmosfere e sovraincisioni, ma stavolta tutto questo non serviva. Lust For Life è il disco rock che tutti si sarebbero aspettati da Iggy Pop nel 1977, quello più vicino a Funhouse e Raw Power degli Stooges. È il disco che lui voleva fare, quello con cui prendersi quel successo che sentiva di meritare. È Iggy che si libera delle catene. È un disco diretto, registrato in due settimane, lontano dai lavori di Bowie dell’epoca. Iggy non fa più il crooner ma tira fuori il suo “urlo”. Per vari motivi, ma soprattutto per il bisogno di Iggy di camminare con le sue gambe, non ci sarà un terzo disco dei due insieme, anche se era previsto. Iggy e Bowie non lavoreranno più insieme fino a metà degli anni Ottanta. Lust For Life sarebbe uscito il 9 settembre del 1977 per la RCA, in un periodo molto delicato: Elvis Presley, il Re del Rock, era morto da tre settimane e la casa discografica era presa da altri pensieri per dedicarsi alla promozione del disco. Anche la stampa, che aveva acclamato Iggy in occasione di The Idiot, era stata piuttosto tiepida con Lust For Life.

CHI È IL PASSEGGERO?
Ma il responso definitivo sul disco lo avrebbe detto la Storia. Lust For Life è il disco che contiene le canzoni più famose del repertorio di Iggy, quelle che dureranno per sempre. La title-track, nata da quell’intuizione di Bowie all’ukulele, seguendo il messaggio in codice morse di un bollettino dell’esercito americano, sarebbe tornata in auge vent’anni dopo la sua uscita, grazie a Danny Boyle e al suo Trainspotting, e al famoso monologo “choose life” di Ewan McGregor. Quel giro di ukulele, con l’apporto di Hunt Sales e Tony Sales, sarebbe diventato un magnifico pezzo di stomp rock’n’roll, una versione punk e devastata di You Can’t Hurry Love delle Supremes, che ricorda molto per il suo incedere ritmico. Iggy, improvvisando al microfono come nel suo stile dei tempi, canta della sua nuova vita, dell’addio alle vecchie abitudini sue e di Bowie (“basta spaccarsi con liquori e droghe”) e si lancia in riflessioni su striptease e film di tortura. I cori di Bowie e dei fratelli Sales arrivano ad arricchire il ritornello. Ma Lust For Life è anche il disco di The Passenger, una canzone che non uscì come singolo – avrebbe fatto venire giù il mondo – ma solo come lato b di Success: sarebbe entrata nella leggenda con il tempo, grazie alle cover di Siouxsie And The Banshees e di Michael Hutchence, allo spot di una nota casa automobilistica e, da noi, alla sigla di Tempi moderni, storica trasmissione di Daria Bignardi. Ricky Gardiner, autore di uno dei riff di chitarra più famosi della storia del rock, ricorda di averlo composto in un momento di ispirazione “wordsworthiana” (il riferimento è al poeta romantico inglese William Wordsworth, secondo cui la poesia nasce dai ricordi rielaborati in momenti di tranquillità) mente era in giardino, circondato da un muro. Appena sentì il riff, Iggy Pop ne intuì subito il potenziale. E allora cominciò immediatamente a cantare la prima strofa, presa dalla poesia di Jim Morrison, Notes On A Vision, in cui la vita moderna viene descritta nel contesto di un viaggio in macchina. C’è che dice che “il passeggero” sia lo stesso Iggy, intento a percorrere su e giù Berlino in metropolitana, lungo la S-Bahn, altri che sia proprio David Bowie, passeggero intento a scovare nuove influenze musicali ovunque andasse. Il fascino della canzone, oltre all’irresistibile riff di Gardiner e al monologo di Iggy Pop, è in quel coro del ritornello, quel “la la la”, che Seabrook definisce “nihilista e incredibilmente accattivante allo stesso tempo”.

ANDRÀ TUTTO BENE.
Tra i brani di Lust For Life c’è anche Tonight, che arriva dopo 4 brani uptempo, un brano cupo in cui, tra lamenti di chitarra, Iggy racconta la storia di un’amante eroinomane che aveva trovato nel suo letto mentre stava diventando blu. Quando entra in scena la melodia, tra chitarre funky alla Sound And Vision, e quel ritornello “Andrà tutto bene stanotte”, il tutto suona beffardo, una presa in giro, un po’ come le parole del testo di “Heroes” di Bowie. Sette anni più tardi, come accadde con China Girl, diventata una hit pop, Bowie trasformò anche questa canzone in un pezzo reggae dolciastro e plastificato, che diede il titolo al suo album del 1984. Bowie chiamò, secondo la moda del periodo, anche Tina Turner a duettare con lui, togliendo però la parte iniziale del monologo di Iggy, che rendeva così cupa la canzone, e di fatto, togliendole tutto il significato. I “Bowie Years” di Iggy Pop si sarebbero fermati qui, ma solo per il momento. Bowie avrebbe suonato con quasi tutti i componenti della band di Lust For Life: Carlos Alomar sarebbe diventato uno dei chitarristi principali della sua band, Hunt e Tony Sales sarebbero diventati la sezione ritmica dei Tin Machine alla fine degli anni Ottanta. Bowie avrebbe scritto una canzone per il successivo album di Iggy, Soldier, del 1980, Play It Safe. Ma, soprattutto, sarebbe venuto in soccorso dell’amico incidendo le sue versioni pop di China Girl, Neighbourhood Threat e Tonight, e producendo e co-scrivendo il suo album del 1986, Blah Blah Blah. Si è trattato ogni volta di una mano tesa da Bowie verso il suo amico, per salvarlo dal baratro, dargli un po’ d’ossigeno con i diritti d’autore e rimetterlo in pista. E contribuendo così a farlo diventare una leggenda. Una delle ultime grandi leggende viventi del rock’n’roll.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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DE ANDRÉ – LA STORIA 25mo anniversario

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Location: Teatro Carcano – Milano
Data evento: 11 Gennaio 2024

Nell’anniversario della morte di Fabrizio de Andrè, al Tearo CARCANO di Milano, va in scena “De Andrè, la storia”, lo spettacolo-evento. De Andrè, La Storia è un vero e proprio viaggio musicale nell’universo di Fabrizio De André, il grande cantautore italiano scomparso l’11 gennaio del 1999, sempre presente nella memoria e nella cultura musicale italiana, che accompagna intere generazioni. “De André, La Storia”, è lo spettacolo sul cantautore più importante e influente della musica italiana che celebra, a 25 anni esatti dalla scomparsa, la sua opera. Lo spettacolo ha debuttato nel 2020 e, dopo una tournèè nazionale, approda a Milano, al Teatro CARCANO.

“Fabrizio De André è stato uno dei primi a portare la canzone italiana verso la modernità, ha cambiato le regole delle canzoni, ha mescolato la storia e l’intelletto con il canto popolare, il sacro e il profano, la cultura alta e bassa con una libertà di espressione senza pari – dice il direttore Musicale, Massimiliano Salani – poterne raccontare l’epopea musicale ed umana attraverso la sua musica, ma anche attrvaerso immagini e testi credo sia una grande sfida e un grande privilegio”.

Da Creuza de ma, a Non al denaro… da La buona Novella a Le nuvole, da Anime salve a l’Indiano, l’avventura musicale di De Andrè viene attraversata in uno spettacolo emotivo e coinvolgente, arricchito dalle immagini e dalle informazioni che lo rendono un vero e proprio concerto documentario.
Grazie a un grande interprete, una band eccezionale e video esclusivi, questo spettacolo ripercorre quindi quarant’anni di attività artistica di Fabrizio De André, raccontando un’epoca storica, il clima sociale e politico di un periodo, l’atmosfera e il sapore di un mondo e di come un visionario lo abbia attraversato, descrivendo magistralmente noi stessi, oggi.

La sua storia, la nostra storia.

“È una grande emozione poter lavorare e ideare uno spettacolo basato su una figura così imponente del panorama musicale e intellettuale italiano. L’arte e la musica svolgono nella vita delle persone un ruolo fondamentale, che Fabrizio ha saputo coniugare con una rara indipendenza e profondità di pensiero. Oggi De Andrè è più seguito ed amato che mai, le sue canzoni restano attuali, le nuove generazioni le assorbono e rimandano sui social, negli eventi.
Stiamo ricevendo un caloroso riscontro riguardo agli spettacoli che abbiamo in programma.
Abbiamo voluto dedicare questo spettacolo a un musicista e poeta visionario, proseguendo una ricerca che portiamo avanti dal 2003. Questo evento non è solo un modo per ascoltare i brani di Fabrizio ma anche una possibilità di celebrare la sua influenza storica e la sua continua conversazione con il tempo e con la contemporaneità.” afferma il regista e produttore Emiliano Galigani.

Uno spettacolo da non perdere! I biglietti sono acquistabili online (TicketOne).

Lo spettacolo è prodotto da Stage 11: il regista, Emiliano Galigani ha già realizzato, nel 2003 lo spettacolo musicale Circo Faber, con la collaborazione della Fondazione Fabrizio de André, di Dori Ghezzi e dello storico collaboratore di De André, Pepi Morgia.

Voce: Carlo Costa
Synth, minimoog, voce: Massimiliano Salani
Chitarra acustica, nylon, bouzouki, voce: Emmanuele Modestino
Chitarra elettrica, chitarra acustica, berimbeau, guitalele: Giacomo Dell’Immagine
Basso: Luca Santangeli
Flauto: Eanda Lutaj
Batteria: Alessandro Matteucci

Regia: Emiliano Galigani
Video: Domenico Zazzara
Prodotto da: Federica Moretti, Simone Giusti
Per Stage11

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Pronto, Raffaella?… ci mancherai!

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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.

E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.

La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.

Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.

Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.

Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.

Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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Duran Duran: Quei new romantic in cerca del suono della tv

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Some new romantics looking for a tv sound” recita, a un certo punto, il testo di Planet Earth, il primo successo dei Duran Duran, la band che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e, questo non lo immaginava nessuno, è ancora viva, vegeta e in ottima salute. E, a quarant’anni dall’uscita del primo album, Duran Duran (arrivò nei negozi proprio il 15 giugno del 1981) continua a fare tendenza. Se negli anni Ottanta Simon Le Bon, Nick Rhodes, John Taylor, Andy Taylor e Roger Taylor, da Birmingham, UK, idoli delle ragazzine per la loro bellezza, erano considerati alla stregua di una boyband, oggi tutti li considerano una grande band, gli artefici di un suono che ancora oggi è attualissimo, e che ha ispirato decine di gruppi che sarebbero venuti dopo di loro. I Duran Duran sono forse tra i più famosi esponenti del genere new romantic, una variante della new wave, il movimento che, in varie sfaccettature, seguì il punk.

I Duran Duran nascono già nel 1978. Sono tre studenti d’arte, John Taylor alla chitarra, Nick Rhodes ai sintetizzatori e Stephen Duffy alla voce e al basso. I tre sono compagni di scuola e amano gli artisti glam e synth pop. È proprio John Taylor a suggerire il nome per la band: si chiamerà Duran Duran ispirandosi a Durand Durand, il cattivo del film Barbarella, famoso film di fantascienza con Jane Fonda. E, se ascoltate certe linee di tastiera del primo album dei Duran, sentirete che una certa atmosfera fantascientifica c’è tutta. Nella band entrerà poi Simon Colley, al clarinetto e al basso. Ma, già dopo il terzo concerto, Duffy e Colley se ne andranno. John Taylor lascerà la chitarra per imbracciare il basso, lo strumento con cui darà un groove inconfondibile al suono dei Duran Duran. Alla batteria ci sarà il secondo Taylor, Roger. Il terzo, Andy Taylor (i tre non sono parenti) entrerà nella band come chitarrista. Alla voce ci proverà Andy Wickett, che registrerà con la band alcune demo. Ma non saranno i Duran Duran che conosciamo fino a che, con la sua voce inconfondibile, non prenderà in mano il microfono Simon Le Bon.

Il biglietto da visita con cui i Duran Duran si sono presentati al mondo è il singolo Planet Earth, quello in cui si parla di new romantic in cerca del suono della televisione. È una canzone trascinante che, ancora oggi, sembra arrivare da un altro pianeta. Ci sono i synth spaziali di Nick Rhodes, il basso incalzante di John Taylor, il ritmo sincopato della batteria di Roger Taylor che si sposa alla perfezione con i salti del basso, la chitarra ritmica rockeggiante di Andy Taylor. E poi quegli effetti sonori che sembrano evocare l’atterraggio di un elicottero, o qualsiasi altro veicolo vogliate immaginare. Magari un’astronave. È qui che sentiamo già tutte le influenze che hanno reso quello dei Duran Duran un suono unico. In quella ritmica c’è, ad esempio, il groove di Giorgio Moroder, quello, per capirci, di I Feel Love di Donna Summer. L’influenza dei Roxy Music, una band che aveva dato una propria interpretazione del glam rock, la sentiamo tutta in Girls On Film, il brano che apre l’album. Ascoltate Love Is The Drug dei Roxy Music e poi questa canzone, e capirete quanto siano importanti. E poi, ancora, ci sono gli Chic, ci sono i Japan di David Sylvian, idolo di Nick Rhodes, tanto che i due sembrano due gemelli separati alla nascita. E ovviamente David Bowie, che in qualche modo aveva lanciato il movimento new romantic nel suo video Ashes To Ashes, in cu apparivano alcune comparse prese da quella scena, tra cui Steve Strange dei Visage. Nelle linee melodiche orientaleggianti di Tel Aviv, lo strumentale che chiude il disco, ci sono degli echi di alcune canzoni del Bowie della trilogia berlinese. E nella versione Deluxe di Duran Duran, del 2010, c’è una cover di Fame (che i Duran incisero come lato B di Careless Memories), il brano, tratto da Young Americans, che Bowie registrò a metà anni Settanta insieme a John Lennon. A proposito, Duran Duran fu registrato, agli AIR Studios di Londra, proprio nel dicembre del 1980, quando da New York arrivava la notizia dell’assassinio di Lennon. Più tardi i Duran confessarono quanto fu difficile portare a termine le registrazioni dopo aver sentito quella notizia. Ma in quei giorni in quello studio c’erano proprio i Japan, i loro idoli, che stavano registrando Gentlemen Take Polaroids in fondo alla sala dello studio.

Girls On Film, il terzo singolo estratto dall’album, è stato il salto definitivo dei Duran Duran verso la fama. Merito anche di un video ad effetto, arrivato proprio nel momento in cui, grazie a MTV, il videoclip diventava allo stesso tempo una forma ad arte a sé, e il miglior veicolo promozionale per lanciare un singolo e un artista in vetta alle classifiche. Girls On Film era uno di questi video: fatto per bucare lo schermo, scandalizzare, far discutere. Era stato girato dal duo Godley & Creme, musicisti e videomaker tra i più in voga al tempo, e due settimane dopo venne lanciato negli Stati Uniti da MTV. Nel video, i Duran Duran suonano di fronte a un ring, sul quale si avvicendano una serie di numeri da nightclub: una ragazza mima un combattimento con un lottatore di sumo, un’altra simula un salvataggio da parte di un bagnino, una un massaggio e una cowgirl cavalca un uomo con una testa di cavallo. La parte più spinta è quella in cui due donne, di cui una in topless, lottano nel fango. Il video fece scandalo e molte reti televisive finirono per mandare in onda la versione alleggerita, senza la scena incriminata. Ma il video integrale venne trasmesso nei nightclub dotati di schermi video, e sulle nostre tivù musicali spesso veniva tramesso. Ma è un video che ha una sua ironia e, nonostante sia spinto, non è mai volgare. A maggior ragione se visto oggi. La potenza del suono di Girls On Film e quel video così particolare portarono l’album la terza posizione nella Top 20 inglese.

La Duranmania doveva ancora iniziare, e le ragazze che avrebbero voluto sposare Simon Le Bon anche. Da lì a poco sarebbe arrivato Rio, il secondo album, e i video esotici girati da Russell Mulcahy. Sarebbero arrivate le loro canzoni più belle e più famose, quelle che avrebbero fissato per sempre nell’immaginario il suono e l’immagine dei Duran Duran. Ma il primo album aveva forse un suono ancora più sperimentale, coraggioso, innovativo. I Duran Duran, insieme a un’altra manciata di artisti, avevano lanciato il movimento dei new romantic. Un movimento fatto di musica, come detto, ma anche di look sgargianti e sfrontati. I Duran Duran, grazie alla collaborazione con stilisti come Perry Haines, Kahn & Bell e Anthony Price, a ogni video e ogni apparizione si distinguevano per il loro abiti. Se i pantaloni sono spesso quelli di pelle tipici del rock, a volte stretti, a volte più larghi e a vita alta, i nostri vestono spesso con camicioni dalle maniche larghe e dal collo a sbuffo che sembrano usciti da un film su Casanova. Hanno vistose sciarpe attorno al collo, o strette in vita a mò di cinture, e a volte portano delle fasce annodate sulla fronte. Nel loro guardaroba ci sono quelle giubbe militari che oggi vediamo molto spesso, e il tipico giubbetto del rock, il chiodo, magari è di colore bianco, come quello che indossa Simon Le Bon nel video di Girls On Film, o blu. Gli abiti sono speso di tinte pastello, ad esempio carta da zucchero. Un classico del periodo, poi, sono le t-shirt, colorate o bianche e nere, a righe orizzontali. Il trucco sul volto è spesso deciso, pesante. E i capelli sono colorati con meches, bionde o di altri colori, e spesso dalle forme molto voluminose.

Quelle parole di Planet Earth possono suonare come “qualche nuovo romantico in cerca del segnale della tv”, o “in cerca di una sigla per la tv”. Ma ci piace leggere, in quei versi, che quei new romantic stessero cercando il suono della tv, cioè il prodotto perfetto per le nuove tivù musicali che stavano nascendo, una forma d’arte che unisse musica e immagini, canzoni e videoclip perfetti e inscindibili da essere una cosa sole nell’immaginario collettivo, suoni all’avanguardia e un look all’altezza di essi. A quarant’anni da Duran Duran, se oggi vi guardate e attorno e tenete le orecchie aperte, vedrete ancora in giro tracce del look new romantic. E, se le hit dei Duran risuonano ancora, hanno lasciato anche molte tracce sonore in canzoni di oggi e in band che, da almeno vent’anni o forse di più, in qualche modo provano a recuperare il loro suono.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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