Eventi TV
La ballata di Buster Scruggs. I fratelli Coen ritornano nel Vecchio West con Netflix

In principio doveva essere una serie tv, la prima esperienza televisiva per Joel e Ethan Coen. Per un attimo abbiamo creduto che fosse arrivato il momento anche per i fratelli più rappresentativi dell’autorialità hollywoodiana contemporanea di avvicinarsi al piccolo schermo e di ridurre ancora di una tacca la distanza tra settima arte e televisione. In un battibaleno invece ecco che La ballata di Buster Scruggs compare tra i titoli dei film in concorso a Venezia 75, prodotto da Netflix.
Un’occasione ghiotta per il colosso streaming che vedeva così aumentare le sue possibilità di vincere uno fra i premi più prestigiosi del Festival (insieme a Roma, 22 July e Sulla mia pelle per la sezione Orizzonti). E infatti, facendosi beffa di tutte le critiche – inutili – sulla presenza di titoli prodotti da piattaforme come Netflix (tanto che il Festival di Cannes durante l’ultima edizione li aveva severamente banditi), la giuria presieduta da Guillermo del Toro oltre che aver premiato con il Leone d’oro Roma, ha assegnato un importante riconoscimento anche alla pellicola dei Cohen assegnandogli il premio per la miglior sceneggiatura. L’ennesimo di una lunga lista di successi che costellano la carriera dei due registi del Minnesota che – come da loro dichiarato – con il loro film hanno preso ispirazione dai “film antologici, in particolare quelli girati in Italia negli anni Sessanta che mettevano insieme opere di diversi registi incentrate su uno stesso tema”.
In La ballata di Buster Scuggs i registi sono sempre gli stessi ma, proprio come nei citati film antologici, anche qui c’è un fil rouge che lega tutti gli episodi: non solo l’ambientazione western ma anche, e soprattutto, il tema ricorrente della morte.
Non è la prima volta che i Coen si confrontano con il genere western (Il Grinta) e non è di certo la loro prima sceneggiatura che prevede la dipartita dei suoi personaggi (Fargo) ma qui i due fratelli si sono presi la libertà di mettere in mostra – anche se non c’era bisogno di ulteriori conferme – la loro grande dote autoriale.
Ci sono tutti gli elementi distintivi del genere cinematografico statunitense per antonomasia, dai duelli ai manifesti “Wanted – Dead or alive”, dalle diligenze ai Nativi americani fino ai saloon e alla ricerca dell’oro, uniti e portati sullo schermo con un’efficace commistione di toni narrativi condita dalla poetica tipica coeniana. L’umorismo scanzonato si alterna ad un profondo dark humor senza mancare anche di profilarsi in alcune profonde riflessioni più o meno esplicite.
La ballata di Buster Scurggs si presenta sia metaforicamente che attraverso le immagini sullo schermo come un grande libro polveroso, di quelli simili ai racconti per bambini dove il testo è corredato da un disegno di bella fattura rappresentativo di quanto verrà raccontato. Attraverso un gioco di dissolvenze questo disegno convergerà nel primo frame del nuovo episodio con personaggi e vicende differenti.
Il primo capitolo è quello che dà il titolo all’intero film: in The ballad of Buster Scruggs uno strepitoso Tim Blake Nelson interpreta un pistolero canterino dissemina il panico nelle cittadine a suon di pallottole, canzoncine e rime pronunciate con il sorriso stampato in faccia. Un protagonista che ricalca una parodia non proprio velata dei classici pistoleri dal sangue freddo impassibili davanti al pericolo e ad ogni sorta di emozione.
In Near Algodones troviamo James Franco che abbandona qualsiasi verve da sfrontato bandito e, dopo un tentativo fallito di rapinare una banca, sconta sulla sua pelle le conseguenze di una giustizia frettolosa e discutibile.
A partire dal terzo capitolo la pellicola compie una svolta, abbandonando il lato comico per addentrarsi in introspezioni più profonde senza risparmiarsi critiche che possono essere trasposte anche ai giorni nostri. In Meal Ticket Liam Neeson è un impresario viandante che sfrutta la capacità oratoria (e il corpo menomato senza arti) del viagiatore che lo accompagna per racimolare qualche soldo in spettacoli in giro per il west. Tom Waits in All Gold è un cercatore d’oro il quale, pur di trovare il prezioso metallo, rovina la natura incontaminata che lo circonda.
The Gat who got rattled presenta una narrazione più complessa rispetto ai capitoli precedenti in quanto le vicende seguono tre personaggi distinti (interpretati da Zoe Kazan, Bill Heck e Grainger Hines) che si incontrano fortuitamente durante un viaggio verso l’Oregon all’insegna di colpi di scena.
Nell’ultimo episodio, The mortal remains, cinque sconosciuti molto diversi da loro si trovano costretti a viaggiare con la stessa carrozza e la convivenza forzata li porterà a scambiarsi le loro visioni sulla vita e sull’umanità.
Quando ci si trova davanti ad un film antologico viene naturale fare confronti tra i capitoli che lo compongono. La ballata di Buster Scruggs è un lavoro omogeneo nonostante la suddivisione ma è doveroso ammettere che alcuni capitoli funzionano più di altri. A nostro parere i più efficienti sono i primi due – durante la proiezione stampa a Venezia la sala intera non smetteva di ridere – e l’episodio con protagonista Tom Waits, dove spicca maggiormente anche la potenza visiva della magnifica fotografia del pluricandidato all’Oscar Bruno Delbonnel, già collaboratore dei Coen in A proposito di Davis. La regia c’è, la recitazione pure e i dialoghi sono zeppi dello sguardo sagace dei due cineasti, tuttavia in alcuni casi il ritmo è appesantito da lungaggini che rendono la visione altalenante.
Seppur non del tutto all’altezza delle loro opere più riuscite, è indubbio che La ballata di Buster Scruggs sia il film che raccoglie in sé tutte le anime della filmografia dei registi. Noi siamo sicuri che gli Oscar non ignoreranno la pellicola (leggi le nostre previsioni) e anche voi non dovete lasciarvela sfuggire.
di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it
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Eventi TV
Blitzed: Quando a Londra nacque il New Romantic (su Netflix)
Published
2 mesi agoon
30 Marzo 2023
Gli Spandau Ballet, Boy George, Steve Strange, Mide Ure e Rusty Egan dei Visage, Adam Ant, Marilyn, che sarebbero diventati tutti, chi più chi meno, delle popstar. Princess Julia, dj e promoter. Le stiliste Fiona Dealey, Darla-Jane Gilroy e Michele Clapton. C’era un mondo che, negli anni Ottanta, stava nascendo a Londra. Si chiamava New Romantic e il posto dove è nata quella moda è il Blitz. Un locale che durò solo 18 mesi. Ma che tutti ricordano. La sua storia, e quella di una moda, di un genere musicale, è raccontata da un documentario, Blitzed, che trovate su Netflix.
Il big bang: David Bowie a Top Of The Pops
Prima che tutto cambiasse, con il punk e poi con il New Romantic, Londra era una città totalmente diversa. Un posto desolato, una città razzista, omofoba e sessista. La Gran Bretagna, sentiamo dire nel documentario, era come un vecchio paio di calzini sporchi e maleodoranti. Ma Londra, e la Gran Bretagna, erano destinati a cambiare. Tutto, in realtà, partì molto prima di quegli anni. Il big bang che tutti raccontano fu l’esibizione di David Bowie a Top Of The Pops. Era il 1972, e la canzone era Starman. I capelli arancioni, scalati e alzati davanti, una tuta androgina dai mille colori. Fu una deflagrazione, l’inizio dell’ispirazione per tanti. Fu visto da un quarto della popolazione britannica: qualcosa come 12 o 15 milioni di persone. Al concerto alla Wembley Arena di David Bowie del 1976 c’erano molti proto-punk e molte delle persone che sarebbero poi state al Blitz.
Il punk e il negozio Sex di Vivienne Westwood
Poi arrivò il punk. Che all’inizio era incentrato soprattutto sui vestiti, era una questione di moda. Era il negozio Sex di Vivienne Westwood a King’s Road. Lì dentro c’erano i Sex Pistols, Boy George, Adam Ant, “il cast di una soap opera britannica che stava per svolgersi”. Ma c’era anche un altro negozio, PX, a Covent Garden, che aveva i vestiti più strani dopo quelli di Sex. Lì dentro si potevano comprare maglie da “cosacco spaziale”, come le definiva Steve Strange: spalle imbottite e una specie di fascia diagonale di diamanti sul davanti.
Tre accordi e sei un musicista
Poi arrivò la musica: i Sex Pistols, i Buzzcocks e i Clash. Gary Kemp, nell’agosto del 1976, andò a un concerto in cui suonavano questi gruppi. Il giorno dopo lasciò la sua band. E a settembre, tornato a scuola, insieme a Steve Norman fondò gli Spandau Ballet (si chiamavano The Genrty, poi decisero di cambiare il nome: quello nuovo veniva da una scritta su un muro di una discoteca in Germania). Il punk durò poco, ma lasciò un messaggio: ce la puoi fare, non devi essere un musicista incredibile, uno scrittore famoso o un noto stilista di moda. Puoi farcela: tre accordi e sei un musicista. E, benché chi arrivò dopo sapeva suonare eccome, questo fu il messaggio che sostenne la cultura giovanile britannica da quel momento in poi.
Tutto ha inizio al Billy’s
Il via a tutto lo diede una festa organizzata da Steve Strange e Rusty Egan, che era il batterista dei Rich Kids, la band di Midge Ure, e che insieme a loro fondò i Visage. Egan diede una festa a casa sua e arrivarono 200 persone. E andò avanti fino alle 4 del mattino. Così si chiese: perché non portiamo tutte quelle persone in un locale? Perché non mettere per loro la musica che volevano? Era quella di Bowie, di Siouxsie And The Banshees, dei Roxy Music, dei Kraftwerk. Si trattava allora di trovare il locale, un posto dove portare 200 persone, che però erano tutti al verde. E fare l’happy hour tutta la notte, al martedì. Così, in una notte di novembre del 1979, in piena depressione, tutto ebbe inizio. Quel locale era il Billy’s, e si pagavano 50 pence per entrare. Lì dentro c’era un dj set con la musica che quelle persone amavano. Ma tutti sentivano che in quella musica c’era un messaggio artistico, e che gli abiti erano un tutt’uno con la musica. Ogni canzone aveva un messaggio per qualcuno.
Questa è la prossima ondata di cultura: nascono gli Spandau Ballet
Steve Strange, che sarebbe diventato il leader dei Visage, era all’ingresso del Billy’s, con un cappello a tamburello e una giacca a collo alto e molto corta in vita: una via di mezzo tra un portiere e un astronauta. In quelle serate c’era Gary Kemp degli Spandau Ballet. “Entrai e sentii una musica mai sentita in un club” racconta. “Non era rock, non era disco. Era un suon lento, palpitante, germanico”. Le influenze ritmiche della musica tedesca, del krautrock e dell’elettronica avrebbero dato un nuovo ritmo alla musica che stava nascendo dal punk. Gary Kemp ricorda che Steve Dagger, il manager degli Spandau Ballet, disse. “È quello che stavamo aspettando. È il nostro mondo”. “Questa è la prossima ondata di cultura” disse Dagger alla band. Non c’è ancora nessun gruppo, è troppo presto. Dovreste essere voi il gruppo. È l’opportunità di una vita”. Il giorno dopo Gary Kemp comprò un sintetizzatore. E il resto della storia è nota.
Il Blitz: decadente come un locale anni Trenta a Berlino
Ma il Billy’s voleva raddoppiare il prezzo dei drink. E allora la community New Romantic lo abbandonò. E Steve Strange trova il Blitz. È un locale decadente come quelli degli anni Trenta a Barlino. Era un bistrot con tavoli e tovaglie a quadretti rossi, candele sciolte e manifesti del periodo della guerra. Ma era completamente in contrasto con le persone che ci venivano, vestite in maniera estrosa e futuristica. Lì dentro tutti ballavano sulla musica sintetica dei Kraftwerk come dei manichini. Coppie dello stesso sesso danzavano insieme su questo ritmo lento come se fosse una riproduzione della Germania di Weimar. Era tutto molto decadente. Tutti giocavano con la propria sessualità, con il proprio abbigliamento, la propria identità.
Un posto per proteggere chi vuole essere se stesso
Lì dentro, la gente vestiva con abiti futuristi e rétro allo stesso tempo. Quando si entrava là dentro si voleva essere favolosi, creativi. “È il senso della discoteca: moda e immagine” ricorda Steve Strange. “Gli uomini vestono in stile edoardiano, dickensiano o qualunque sia il loro stile”. I ragazzi che vanno al Blitz si impegnano per vestirsi. “Ma non ci mettono mezz’ora, ci mettono tre o quattro ore” racconta Strange. “E quando entrano da quella porta, vogliono sentirsi al sicuro”. Il Blitz è questo: è un posto che vuole proteggere chi vuole essere se stesso.
Essere favolosi senza soldi significa essere creativi
Spesso i vestiti venivano da mercatini dell’usato, dove venivano presi e completamente reinventati. “Uscivo e indossavo abiti e cravatte degli Anni Quaranta” ricorda Rusty Egan. “Foulard e blazer, un po’ come il cinema noir”. “Essere sempre favolosi senza avere soldi significa essere creativi” ricorda Fiona Dealey, costumista. “Mia nonna aveva dei bellissimi cappotti lunghi e neri, e li indossavo al contrario. Trasformavamo una cosa in qualcos’altro”.
David Bowie e Ashes To Ashes: un cerchio che si chiude
Lì dentro erano tutti fan di David Bowie. Erano nati da quel big bang che erano stati la sua apparizione a Top Of The Pops e il suo concerto del 1976. Così il cerchio si chiuse quando venne al Blitz. E tutti persero la testa. Stava per girare il video di Ashes To Ashes e cercava delle comparse. Arrivando prima di tutti, come al solito, aveva capito che in quella scena c’era qualcosa, c’era un’immagine, c’era un mondo. Volti pallidi, coperti di cerone, gli occhi truccati, i capelli vaporosi e dal taglio asimmetrico. Strani cappelli con il velo o cilindrici, vestiti scuri. O tutù di tulle. Il mondo del New Romantic entrò nel video di Bowie ed ebbe la prima consacrazione. “Il punk era come un’uniforme, è diventato vecchio e noioso” racconta un ragazzo del Blitz. “Invece qui l’idea è di un cambiamento totale, continuo, nella musica, nei vestiti e negli stili”. Bisognava far parte di quel mondo per entrare al Blitz. Mick Jagger, che una sera venne al club, evidentemente non era abbastanza cool. Così Steve Strange lo lasciò fuori. “No, non sei vestito abbastanza bene”.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Eventi TV
Causeway: Jennifer Lawrence, la vita dopo la guerra, su Apple Tv+
Published
7 mesi agoon
7 Novembre 2022
È tutto bigio, tra il grigio e l’azzurrognolo, il mondo che avvolge Jennifer Lawrence nelle prime scene del suo nuovo film, Causeway, presentato alla Festa del Cinema di Roma e ora disponibile in streaming su Apple Tv+. È tutto grigio e opprimente come un giorno di pioggia. Come un mondo dove, da tempo, non si vede un raggio da sole. È così che vive Lynsey, ingegnere militare tornata negli Stati Uniti dall’Afghanistan con una lesione cerebrale debilitante in seguito all’esplosione di un ordigno. Lynsey vive una condizione di stress post traumatico, e prova a riprendersi, a ottenere l’ok per tornare, un giorno, a fare il suo lavoro, nell’esercito. Perché?
È una Jennifer Lawrence catatonica, afasica, quasi immobile quella che vediamo nelle prime scene di Causeway, il film diretto da Lila Neugebauer, di cui è produttrice. Non riesce nemmeno ad alzare un braccio per spogliarsi, per prendere un bicchiere d’acqua, per lavarsi. Deve fare una dura riabilitazione, fisioterapia, e una cura media, con quattro tipi diversi di pillole. Ma il vero film comincia dopo che ha concluso la riabilitazione. I colori tornano ad essere più caldi, ma non troppo. Torna a casa, nella sua città, New Orleans, dove sembra non ci sia ad aspettarla nessuno. La madre (Linda Emond) crede che sarebbe arrivata un’latro giorno. Ma, in realtà, è troppo occupata dalle sue cose.
Non appena Lynsey ritorna a casa, sappiamo da dove viene. Da uno di quei quartieri poveri delle grandi città, che sembrano tutti uguali, con quelle case in legno un po’ invecchiate. Ma capiamo che quella casa è soprattutto la famiglia, la madre, il fratello. Situazioni non facili da cui è voluta andare via una volta, e per questo ha scelto l’esercito. Ed è per questo che vuole tornarci, nonostante il trauma. Perché forse i traumi avvenuti prima della guerra erano ancora più forti. E allora l’idea fissa è andare via. Ma, come le dice il medico che la monitora costantemente (Stephen McKinley Henderson): lei “potrebbe” tornare nell’esercito. Ma “dovrebbe”? In un film fatto di piccole cose, di silenzi e parole dette a denti stretti, il cuore è l’amicizia con il meccanico a cui porta un giorno l’auto, James Aucoin (Brian Tyree Henry), un uomo che ha anche lui un grosso trauma.
Causeway è un film dominato costantemente dalla presenza dell’acqua. Quella delle piscine che Lynsey pulisce, come primo lavoro trovato appena tornata a casa, alla piscinetta in plastica dove passa un po’ di tempo con la madre, fino alla piscina pubblica, dove, restia, si tuffa finalmente. L’acqua aveva a che fare con il suo lavoro di ingegnere in Afghanistan. L’acqua è stata un nervo scoperto nella storia di New Orleans (l’uragano Katrina). Ma, soprattutto, nell’acqua c’è il tentativo, costante, e poi riuscito sempre meglio, di trattenere il fiato e gettarsi. Che è quello che Lynsey deve fare con la sua vita.
È una scelta molto forte, quella di far interpretare Lynsey a Jennifer Lawrence, una delle attrici che, dentro e fuori dallo schermo, è sempre stata sinonimo di vitalità, energia, solarità, sex appeal. Un’attrice che, sullo schermo, è stata Katniss Everdeen, la protagonista di Hunger Games, una guerriera, un simbolo di rivolta e autoaffermazione in grado di cavarsela da sola, e di sovvertire il sistema vigente. Qui, invece, Jennifer Lawrence è stritolata dal sistema, un ingranaggio di una macchina perversa, di una nazione che l’ha quasi mandata a morire, che ha rovinato la sua vita per sempre. Diversamente da tanti altri film, qui è ferita, spaurita, costantemente affaticata. In quella che è la confezione di un tipico film indipendente americano, il classico film da Sundance, Jennifer Lawrence, per la prima volta, lavora di sottrazione, sui mezzi toni, sul sospeso e sul non detto. Il volto di Jennifer Lawrence è sempre quello, adorabile, che abbiamo imparato ad amare in questi anni. Ma quasi mai, su quel viso, sembra apparire il sorriso, se non per pochi istanti: accennato, un po’ tirato, mai pieno. La sua è una grande prova d’attrice, in un film che ha fortemente voluto.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Eventi TV
KNTNR supporta i giovani di Sanremo

Published
2 anni agoon
20 Ottobre 2021By
DailyMood.it
La startup per i talenti italiani guidata da Katia Simionato sarà sponsor DI AREA Sanremo, mettendo inoltre a disposizione 10 borse di studio dal valore di 2500 euro ciascuna
Dopo il lancio del contest Tomorrow e la creazione di numerose iniziative durante l’ultima edizione della Milano fashion week, KNTNR prosegue nella mission di realizzare progetti sostenibili, che mettano al centro la creatività di talenti e artisti attraverso un approccio innovativo. La startup guidata dal ceo Katia Simionato a fianco di Christian Nucibella, Founder & Chairman FiloBlu, società di consulenza che affianca le aziende nel percorso di crescita digitale, sarà sponsor di AREA Sanremo. Oltre a sostenere il concorso, metter a disposizione 10 borse di studio dal valore di 2500 euro ciascuna per i cantanti partecipanti al concorso, aspiranti AL FESTIVAL DI SANREMO. AREA SANREMO, che ha aperto le iscrizioni a fine settembre, è infatti l’unico contest che dar la possibilità a quattro artisti emergenti di poter accedere alla serata finale di Sanremo Giovani, in calendario il 15 dicembre in diretta su Rai1, in prima serata dal Teatro del Casinò di Sanremo. La manifestazione, dedicata agli artisti di età compresa tra i 16 anni compiuti e i 30 non ancora compiuti al 1 gennaio 2022, vanta la direzione artistica di Massimo Cotto, dj radiofonico, autore televisivo e teatrale, giornalista e scrittore, che ha anche avuto un ruolo primario delle selezioni di Tomorrow KNTNR.
Per iscriversi necessario scaricare il bando ufficiale dal sito area-sanremo.it, compilare la domanda online e inviare il materiale richiesto entro il 21 ottobre.
L’obiettivo dell’area è la promozione e valorizzazione dei giovani talents nel settore della musica leggera, in stretta connessione con il Festival della canzone italiana, per fornire agli stessi occasioni di incontro con figure professionali del settore, anche mediante appositi corsi. Nella commissione di valutazione, presieduta da Franco Zanetti e dal Maestro Giuseppe Vessicchio, saranno presenti Piero Pelù, Mauro Ermanno Giovanardi e Marta Tripodi. I vincitori avranno la possibilità di sostenere un’audizione davanti alla commissione artistica della Rai, che decreterà i 4 artisti partecipanti alla serata finale di Sanremo Giovani, da cui poi verranno selezionati due artisti che gareggeranno al FESTIVAL DI SANREMO direttamente tra i big.
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