Serie TV
Breaking Bad compie dieci anni. Ode a un mito che non tramonterà mai

È un caldo pomeriggio di inizio agosto. Dalla finestra filtra una luce che fa male agli occhi e l’asfalto bollente rende l’orizzonte tremolante. La vita si svolge al riparo, rinchiusa nella penombra tra mura di cemento e ventilatori mentre le strade sono deserte.
Tra poche ore farà il suo debutto mondiale il primo episodio della quarta stagione di Better Call Saul, show acclamato dalla critica e dal pubblico che nel corso delle stagioni precedenti è riuscito nell’arduo compito di non deludere le aspettative.
Due elementi all’apparenza scollegati – il caldo e il ritorno di una serie tv – ma che mi fanno entrambi ritornare in un luogo in cui ho vissuto per un po’ di tempo, pur senza esserci stata di persona. Le strade deserte, la luce gialla, le case in penombra e Saul Goodman mi riportano ad Albuquerque, la città del New Mexico che fa da sfondo a Breaking Bad.
Tutti almeno una volta hanno sentito parlare della creatura di Vince Gilligan, soprattutto quando ci si imbatte in discussioni impegnate a decretare la serie tv più bella; in questi casi Breaking Bad è quasi sempre al primo posto. È come se fosse diventato un sottotitolo connaturato: Breaking Bad – la miglior serie televisiva di tutti i tempi. Alcuni (non pochi) si dilettano anche a decantarne la perfezione, e gli elementi a supporto di tale ipotesi si possono trovare in abbondanza.
È indubbio che lo show della AMC abbia disegnato una netta linea di demarcazione: c’è un prima e un dopo, e solo i grandi riescono nell’intento. Questo lo sanno bene soprattutto i fan i quali, se una volta trovatisi davanti alle scorribande di Walter White e soci non hanno resettato tutto ciò che avevano visto in precedenza, di sicuro avranno faticato a trovare qualcosa di pari livello qualitativo. Perché Beaking Bad – da qualsiasi punto la si voglia analizzare – è un concentrato di qualità espressa in ogni singolo fotogramma.
Partiamo dai personaggi: tutti, dai protagonisti assoluti ai comprimari sono costruiti ad hoc in modo da risultare tanto complessi quanto completi. Aldilà delle simpatie, ognuno di loro si fa portatore di una sfumatura specifica dell’animo umano e la fa diventare il proprio carattere distintivo. Non per questo però i personaggi “dormono sugli allori” ma anzi intraprendono un percorso di cambiamento che se da un lato permette al corso degli eventi di progredire verso una conclusione tanto inevitabile quanto fenomenale, dall’altro accompagnano l’evoluzione di Walter White (Bryan Cranston), il main character che abbiamo imparato non ad amare o ad odiare ma ad osservare, affascinati e al contempo sbalorditi da quanto un individuo sia in grado di nascondere la sua vera natura sotto una mole di abitudini e perbenismo.
Quando la bolla in cui vivi scoppia (per Walt il punto di non ritorno è stato la scoperta di avere un cancro ai polmoni incurabile) non c’è più tempo per fingere, bisogna vivere al massimo ogni singolo secondo, ed è proprio qui che White intraprende la sua trasformazione in Heisenberg: quello che all’inizio sembrava essere il suo alter ego, alla fine risulterà essere la manifestazione più cruda e spietata del suo essere, e tutti quelli che hanno a che fare con questa figura non potranno uscirne fisicamente o emotivamente illesi. Tutti ad un certo punto devono fare i conti con White/Heisenberg, e nel farlo mostreranno anche i propri lati oscuri. I concetti di “buono” e “cattivo” sono troppo semplicistici per una serie tv di questo calibro, dove sono gli antieroi a farla da padrone.
Il grande lavoro di scrittura di Vince Gilligan, Peter Gould e della quadra di fidati sceneggiatori non è sorretto solo da interpretazioni magistrali (tutti gli attori coinvolti sono al massimo della forma) ma anche da un sapiente lavoro di messa in scena.
Sotto il profilo narrativo, il concetto di attesa in Breaking Bad è amplificato al massimo: dalla scelta di iniziare ogni stagione con un fotogramma dell’ultimo episodio della stagione stessa (anticipando e nello stesso momento incuriosendo) fino a quella di dilatare il momento della scoperta, ogni scena – anche quella in apparenza più inutile – è decisiva per la costruzione dell’universo della serie, senza mai correre il rischio di alterare i ritmi della narrazione.
L’estetica di Breaking Bad invece comprende una perfetta alternanza di primissimi piani e campi lunghissimi, intervallati da inquadrature di dettagli con la macchina da presa spesso collocata in angolazioni inusuali le quali, creando un contrasto con la linearità, mantengono viva la curiosità di chi guarda. Anche la fotografia contribuisce a portare avanti il processo di trasformazione della sceneggiatura. Impossibile non notare il forte contrasto dell’utilizzo delle luci dalla prima all’ultima stagione con un graduale passaggio dei personaggi nella penombra, tanto che il loro volto non viene mai totalmente illuminato, ma rimane nascosto in una zona buia. Come nei film western, anche in Breaking Bad gli ambienti agiscono come protagonisti e così, se una parte di questi viene anch’essa risucchiata nella penombra (la casa di Walt ben illuminata nei primi episodi viene avvolta sempre più nell’oscurità fino ad essere “distrutta”), un’altra (quella assolata e statica delle distese desertiche e aride di cui parlavo all’inizio) agisce da contrasto alla solerzia degli ambienti “chiusi” in cui per esempio Walt prepara meth con Jesse, Gus Fring aleggia come una presenza oscura e minacciosa o la famiglia White si sgretola. Questo contrasto tra ambienti rappresenta metaforicamente il contrasto tra ribalta e retroscena, tra la maschera e i turbamenti interiori dei personaggi, accentuando quello che è il tratto distintivo della serie, ovvero la caratterizzazione psicologica dei protagonisti che prevale rispetto alla storia, che già basterebbe comunque a far parlare di sé.
Tra tute gialle e teste mozzate, pizze sui tetti e pollo fritto, “Say my name” e “I’m the danger”, con i suoi momenti iconici Breaking Bad è riuscita a raggiungere il punto più luminoso dell’olimpo grazie alla sua capacità di trovare sempre la giusta misura: non ha stravolto i linguaggi, non ha ideato nulla di nuovo ma ha semplicemente preso ciò che già esisteva e – attraverso la cura e l’attenzione minuziosa dei dettagli – lo ha innalzato ad un livello qualitativo eccellente e unico rimanendo fedele a sé stessa dall’inizio alla fine. Con un perfetto equilibrio tra voglia di stupire senza mai cadere in facili sensazionalismi nulla viene lasciato al caso ed ogni elemento risulta indispensabile per la chiusura del cerchio.
E se a distanza di 10 anni (il 20 gennaio 2008 andava in onda il primo episodio) il fenomeno Breaking Bad non si è ancora dissolto – vedere l’entusiasmo scatenato dalla reunion degli attori in occasione dell’intervista a Entertainment Weekly o del panel dedicato all’ultima edizione del San Diego Comic Con – viene da pensare che forse non smetterà mai di esistere. Perché che sia la serie tv perfetta o una vera esperienza di vita, Breaking Bad rimarrà impressa per sempre nella storia del piccolo schermo.
di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it
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Serie TV
Iniziano oggi le riprese della quarta stagione di MARE FUORI

Published
2 settimane agoon
22 Maggio 2023By
DailyMood.it
Dopo lo straordinario successo che ha segnato le prime tre stagioni della serie prodotta da Rai Fiction e Picomedia, iniziano oggi le riprese della quarta stagione di MARE FUORI.
Il cast torna a girare a Napoli, diretto nuovamente da Ivan Silvestrini.
La serie, una coproduzione Rai Fiction – Picomedia e prodotta da Roberto Sessa, è nata da un’idea di Cristiana Farina scritta con Maurizio Careddu.
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Serie TV
La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton: Tra Marie Antoinette e Lady Diana
Published
4 settimane agoon
4 Maggio 2023
Come sapete, La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton, la nuova serie in arrivo in streaming su Netflix dal 4 maggio, non è la terza stagione di Bridgerton, cioè la serie che continua le vicende della famiglia del titolo, ma uno spin-off e allo stesso tempo un prequel. La nuova serie targata Shondaland, la casa di produzione fondata da Shonda Rhimes (Scandal, Grey’s Anatomy, Private Practice) è la storia della Regina Carlotta, che abbiamo visto reggere le fila della società londinese ai tempi della Reggenza in Bridgerton. Ma è raccontata dall’inizio: è la sua origin story, per usare un termine caro ai supereroi. La Regina Carlotta, quella matura, che abbiamo conosciuto nelle prime due stagioni di Bridgerton, appare spesso in scena. La vediamo mentre è alla ricerca di un erede: nessuno dei suoi figli ha procreato, e il timore è l’estinzione del suo casato. Ma si tratta di un contrappunto, e di un legame con Bridgerton, che scorre accanto alla storyline principale. Questo prequel dell’universo Bridgerton racconta come il matrimonio della giovane Regina con il Re Giorgio abbia rappresentato non solo una grande storia d’amore, ma anche un cambiamento sociale, portando alla nascita dell’alta società inglese in cui vivono i personaggi di Bridgerton.
Al centro c’è la storia di Carlotta. È una ragazza giovanissima, che arriva in Inghilterra da una cittadina della Germania, dopo che è stata scelta per unirsi in matrimonio al Re del Paese più importante del mondo, Re Giorgio d’Inghilterra. Arriva al matrimonio senza conoscerlo, da un Paese lontano, dopo un lungo viaggio, e viene catapultata in un mondo di cui non sa niente. Ci ricorda moltissimo la giovane Maria Antonietta, raccontata mirabilmente da Sofia Coppola in Marie Antoinette, che dall’Austria (certo, era la figlia della Regina e di un nobile qualsiasi) arrivava in Francia per sposare il Re.
Ma la Regina Carlotta ci ricorda anche molto la giovane Lady Diana Spencer. Una ragazza che, alla corte della Regina d’Inghilterra, ha sofferto spesso di solitudine, incomprensione, incomunicabilità. Guardate il primo episodio, e la prima notte di nozze. La giovane Carlotta, dopo un matrimonio combinato ma che, tutto sommato, ha mostrato di apprezzare, si trova accompagnata nella sua dimora, mentre il marito, Re Giorgio, le comunica che alloggerà in un’altra. Ricorda davvero la storia di Carlo e Diana che, una volta sposati, hanno vissuto a lungo in dimore diverse, facendo vite separate. È in questo che La Regina Carlotta: A Bridgerton Story, appare interessante e attuale.
L’altro lato dell’attualità è quello sforzarsi di rendere tutto inclusivo. Il fatto della regina di colore, che già aveva fatto molto discutere nella prima stagione di Bridgerton, qui viene risolta con un paio di battute e in un paio di scene. In più c’è l’omosessualità del servitore personale di Carlotta e di quello di Re Giorgio. Che non è ovviamente un problema, ma nel contesto della storia sembra inserita piuttosto forzatamente, con il solo scopo dell’inclusività.
Ovviamente Giorgio non è cattivo. È che lo disegnano così. Infantile, ingenuo, inesperto. Dedito alla sua passione, l’astronomia, come il Re Luigi XVI di Marie Antoinette era dedito alle chiavi. Certo, meglio le stelle delle chiavi, converrete tutti. E quello tra i due, al netto delle difficoltà, è un matrimonio d’amore. Ma la storia è scritta per raccontarci che i due giovani si amano e che c’è qualcosa tra loro che li divide. E allora, pur essedo una storia diversa, ritorna lo schema del primo Bridgerton: una giovane ingenua, la sua educazione sessuale, due persone che si amano ma che sono divise da qualcosa che rimane misterioso. È il romanzo di formazione di una ragazza che viene da altri tempi ma che in sé racchiude problemi della sua epoca, e anche della nostra. Come in ogni racconto della saga di Bridgerton, il racconto è brioso e piacevole, ma anche superficiale e a tratti eccessivo.
A brillare, nei panni di Carlotta, è la giovane India Amarteifio, un volto fresco, vispo, impertinente, un volto tipico da eroina dei nostri tempi: occhi allungati e una cascata ribelle di riccioli neri, potrebbe essere la protagonista di un film della Marvel. È un volto che istintivamente suscita simpatia e raggiunge il primo obiettivo, quello di farci parteggiare per lei. Corey Mylchreest, visto in The Sandman, è il giovane re Giorgio, e ha il volto e il fisico che il ruolo impongono. Guardate il loro primo incontro, con lei che è ignara di chi sia lui: un classico della commedia sentimentale. Colpisce anche Arsema Thomas, nel ruolo della la giovane Agatha Danbury, dama di corte della Regina e sua mentore. Nell’altra storyline, quella ambientata durante i fatti di Bridgerton, Golda Rosheuvel (Regina Carlotta), Adjoa Andoh (Lady Danbury) e Ruth Gemmell (Lady Violet Bridgerton) riprendono i loro ruoli di Bridgerton.
Per il resto, si sa, siamo in una storia di Bridgerton, e si tratta di stare al gioco, di fare il più grande sforzo di sospensione dell’incredulità possibile. E così, allora, si tratta di prendere o lasciare. Certo, gli anacronismi di Sofia Coppola in Marie Antoinette ci piacevano di più, perché i momenti di rottura, come le Converse accanto alle scarpe d’epoca, e la musica post punk (extradiegetica, ovviamente) erano degli squarci di vernice fluo su una tela classica, che però era rigorosamente e accuratamente costruita, e sempre coerente con la materia raccontata. Shonda Rhimes, invece, nella sua ricostruzione d’epoca si prende qualsiasi libertà a livello storico, visivo, concettuale. È uno di quei prodotti in cui vale tutto. E allora, va bene per intrattenere, ma siamo lontani da qualcosa di profondo, intenso, emozionante.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
Citadel: Una grande spy story in una serie tv? Non è una missione impossibile!
Published
1 mese agoon
28 Aprile 2023
Chi ha detto che ci sono prodotti per il cinema e prodotti per le piattaforme di streaming? Finora avevamo sempre pensato che i grandi film d’azione fossero fatti apposta per il grande schermo e i prodotti più piccoli, meno spettacolari, fossero naturalmente destinati alle piattaforme. Citadel, la serie che trovate in streaming su Prime Video dal 28 aprile, sembra fatta apposta per rompere questa distinzione. Non è la prima serie spettacolare che approda in streaming, ma è forse il caso più eclatante che dimostra il fatto che oggi non esistono più confini. Abbiamo visto i primi due episodi di Citadel su un grande schermo, al cinema The Space Moderno di Piazza della Repubblica a Roma. E su quello schermo ci stavano benissimo. Citadel farà un figurone anche in tv, chiaro, ma vedetelo comunque sullo schermo più grande che avete. Non è un’opera da vedere al cellulare o su un tablet.
L’inizio di Citadel è di quelli che lasciano il segno: siamo sulle alpi italiane, su un treno di ultima generazione, alta velocità ed extra lusso, come in una versione 3.0 di Intrigo Internazionale. Un’affascinante donna vestita di rosso, Nadia Sinh (Priyanka Chopra Jonas), viene avvicinata da un affascinante uomo vestito di nero, Mason Kane (Richard Madden). I due si conoscono già, si conoscono molto bene, hanno un grande feeling. Lo capiamo dal loro dialogo, dalla chimica in atto ogni volta che si avvicinano. Su quel treno ci sono altre persone, è una trappola. C’è una bomba. Un vagone del treno salta in aria e… La storia riprende otto anni dopo. E sta a voi scoprirla.
Vi diciamo solo che Mason non ricorda nulla. Sì, proprio come Jason Bourne, il protagonista di The Bourne Identity che, citato anche da una simpatica battuta in sceneggiatura, è uno dei modelli di Citadel. Modelli che sono tanti, sono chiari, sono i più nobili. C’è ovviamente molto di Mission: Impossible, che è il riferimento più evidente; c’è, ma in misura minore, James Bond. E ci sono, accennati perché l’atmosfera è diversa, i classici di Hitchcock. Tutto questo è per dire che le ambizioni sono alte, gli standard produttivi e visivi anche. Ma Citadel, pur ispirandosi e richiamando il meglio degli spy game cinematografici, non sembra mai qualcosa di già visto, non sembra somigliare ad altre cose. Era il rischio più grande. Ed è stato evitato.
Nel caso di Citadel è il caso di parlare di un vero evento, perché alza l’asticella delle produzioni seriali e del mondo dello streaming, e inaugura una nuova formula produttiva. Anche se siamo in tv possiamo dire tranquillamente che si tratta di grande cinema. E non è un caso: a dirigere infatti ci sono i Fratelli Russo, coloro che avevano già trasformato il cinecomic della Marvel in una spy story anni Settanta con Captain America And The Winter Soldier. Il cinema di spionaggio è il loro terreno e non deludono. Ma il loro ambiente, appunto, è anche il cinecomic, il cinema di supereroi. E, come ha detto qualcuno, Citadel è questo: è un film degli Avengers, ma con le spie. Spie e supereroi, ci hanno spiegato i produttori, in fondo, sono la stessa cosa: personaggi in grado di andare oltre le nostre capacità, con doti e poteri speciali.
Tutto questo è racchiuso nei due protagonisti. Richard Madden, già uomo d’azione ne Il trono di spade, ma soprattutto in The Bodyguard, ha il physique du rôle per essere una nuova spia, anche se l’espressività, in confronto a mostri come Daniel Craig, Tom Cruise e Matt Damon, non è completamente all’altezza. Priyanka Chopra Jonas è una vera sorpresa. Sensualissima nei primi piani, con uno sguardo e delle labbra in grado di far sciogliere che guarda, è anche eccezionale nelle scene d’azione. Bernard, il loro capo, interpretato da Stanley Tucci, dice che Nadia e Mason da soli sono dei grandi agenti, ma insieme sono una bomba. Ed è vero anche per gli attori. La chimica e l’affiatamento tra i due è eccezionale.
Citadel è un evento anche per la parte produttiva. Perché da questa serie verranno tratti alcuni spin off che saranno prodotti in altre parti del mondo. Una di queste è l’Italia. E la protagonista della Citadel italiana è Matilda De Angelis. Non vediamo l’ora di vederla come una nuova, sexy e tostissima spia. Siamo appena entrati nel mondo di Citadel, allora, e crediamo che ci resteremo molto a lungo.
Crediti: Courtesy of Prime Video
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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