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Mission Impossible Fallout. Tom Cruise, il numero uno dell’action

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Tom Cruise è il Cristiano Ronaldo del cinema. Come il calciatore portoghese, non si accontenta mai, vuole andare sempre oltre i propri limiti, dare il massimo, vincere. E, soprattutto, ha un’età che ormai non si può più definire. Se CR7 è un venticinquenne nel corpo di un calciatore di 33 anni, Tom Cruise, 56 anni, ha forse trovato l’elisir dell’eterna giovinezza. In Mission: Impossible – Fallout, sua ultima fatica – in tutti i sensi – cinematografica, sceglie ancora di girare tutte le scene d’azione senza controfigura. Anche a costo di slogarsi una caviglia, continuare a girare, e lasciare la scena nel montaggio finale. Mission: Impossible – Fallout è – mescolato con il thriller, la spy story, Alfred Hitchcock e James Bond – il miglior cinema d’azione che possiate trovare oggi. Girato in carne ed ossa, in una continua corsa, un interminabile salto e un finale in volo, in prima persona, senza, o quasi, effetti digitali. Alzando, ancora una volta, la posta rispetto ai film precedenti, e vincendo ancora. La vera missione impossibile, portata a termine, è questa.

La storia riprende da dove si era fermato Rogue Nation. C’è in giro una cellula impazzita di spie e terroristi in grado di destabilizzare qualsiasi stato, e di creare il caos nel mondo. Ma questa volta la posta in gioco è davvero altissima: hanno messo a punto tre bombe atomiche, basate su tre nuclei di plutonio, che potrebbero uccidere migliaia di persone. È un attacco all’ordine prestabilito per ricreare la pace, un piano folle. Ethan Hunt (Tom Cruise) dovrà sventarlo, districandosi in una trama ordita da CIA, MI6 e la sua MIF, la Mission Impossible Force. È davvero, come dice la CIA, “Halloween, adulti che giocano con le maschere”? Toccherà a Hunt dimostrare che non è vero.

E gli toccherà anche dimostrare che il grande villain a capo di tutto questo, il misterioso Lark (uno che, come il Keyser Soze de I soliti sospetti, nessuno ha mai davvero visto), non è lui. Sì, perché quando l’agente segreto entra in un mondo più buio di lui, finisce per essere coperto dalle ombre. E diventare l’agente oscuro. Ricordate? “O muori da eroe o vivi così a lungo da diventare il cattivo”, diceva Harvey Dent ne Il cavaliere oscuro. E, come per Batman, il rischio di Ethan Hunt nel sesto film di Mission Impossible è di diventare il cattivo. Questa oscurità, questo dark mood, questo senso di apocalisse imminente è la grande novità del film di Christopher McQuarrie: qui non c’è in ballo la sopravvivenza della MIF, come in altri film, ma quella del mondo intero. Non manca l’ironia, ovviamente, e non manca l’azione. Come vi abbiamo detto, è la migliore azione possibile in circolazione: tra le altre cose, vedrete Cruise paracadutarsi su Parigi in mezzo a una tempesta di fulmini, e salire al volo su un elicottero in un inseguimento in volo tra le gole del Kashmir.

E non manca l’amore. Il vero motore della storia del film precedente, Mission: Impossible – Rogue Nation, era la tensione sessuale e sentimentale tra Ethan Hunt e Ilsa Faust, alias Tom Cruise e Rebecca Ferguson, l’attrice svedese scelta da Cruise dopo averla vista nella serie tv The White Crown, l’unica donna che nella saga di Mission: Impossible sia riuscita a tenere testa a Cruise. Anche lei, prima di tutto, gira personalmente le scene d’azione. E anche il suo personaggio, Ilsa Faust, è in fondo un agente solitario, spesso isolato, diviso tra la ragion di stato e gli affetti. Il suo corpo da ballerina combattente, il suo volto da regina d’altri tempi, da Ingrid Bergman 2.0, quel modo in cui riesce a velare di pianto, senza mai scoppiare, quegli occhi che sembrano di ghiaccio e invece nascondono le fiamme, è uno dei motivi che, da soli, valgono il prezzo del biglietto. Come lo valgono le scene d’azione. E come lo vale, ovviamente, Tom Cruise. Come Cristiano Ronaldo, nel suo campo, è il Numero Uno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Conseguenze d’amore: Meg Ryan torna regina della commedia romantica… è sempre lei, ma è cambiata

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Si chiama Conseguenze d’amore, nella sua versione italiana, il nuovo film scritto, diretto e interpretato da Meg Ryan, dall’11 aprile al cinema, con un gioco di parole su una storia che parla di aerei perduti e coincidenze mancate, e conseguenti incontri. What Happens Later è invece il titolo originale del film, e ci dice molto di più. Significa “che cosa accade dopo”, “che cosa accade più tardi”. E il nuovo film di Meg Ryan, per la prima volta in veste di sceneggiatrice e regista oltre che di protagonista, è infatti una tenera e intrigante storia d’amore tra due persone mature, sulla sessantina. Un’età che raramente viene raccontata per quanto riguarda gli innamoramenti, ed è un peccato. Il nuovo film di Meg Ryan ci dice che ci si può innamorare ancora, anche a quell’età. Un’età che porta con sé rimorsi e rimpianti, sogni infranti e treni persi. Ma anche, volendo, una vita ancora tutta da vivere.

Interno, notte. I New Radicals cantano You’re Gonna Get What You Give, hit di fine anni Novanta. Un cartellone fa pubblicità a un film che si chiama Rom Com, preannunciando che ci troviamo in una commedia romantica. Siamo nella sala d’attesa del terminal di un aeroporto, non luogo e limbo per eccellenza. Un uomo e una donna cercano entrambi una presa per ricaricare il loro smartphone. Poi si incontrano, si presentano. Capiamo subito che si conoscono già. Entrambi si chiamano W. Davis. Sì, capiamo ben presto che i due sono stati insieme. Che sono stati innamorati. E che la loro è stata davvero una storia importante. E che non si vedono da 25 anni. E ora?

W. Davis, cioè Wilhelmina, o Willa, è Meg Ryan, la storica reginetta delle commedie romantiche che abbiamo amato sin dal primo giorno. W. Davis, cioè William, alias Bill, è David Duchovny, che invece le commedie romantiche le ha frequentate poco. Lo conosciamo per due iconici ruoli in serie tv, l’enigmatico Fox Mulder di X-Files e il lascivo Hank Moody di Californication. Li ritroviamo dopo che non li avevamo mai immaginati insieme, lei nel suo terreno, lui in un territorio nuovo. Invecchiati, stropicciati, come i loro personaggi: Willa zoppica per un dolore all’anca. Bill soffre d’ansia anticipatoria.

È soprattutto strano rivedere, all’inizio, il volto di Meg Ryan su un grande schermo. Già anni fa era stata criticata per gli interventi di chirurgia estetica sul suo viso. Il tempo ha fatto la sua parte, le rughe sono comparse sul suo volto e la rendono interessante. Ma quelle labbra turgide la rendono qualcosa che sta a metà tra una donna della sua età e una donna più giovane, un ibrido difficile da definire. È una sensazione che dura poco, però. Non appena la bocca si apre in un sorriso dei suoi, inconfondibili, carichi di dolcezza, i dubbi svaniscono. Abbiamo ritrovato Meg Ryan. Per David Duchovny, invece, il tempo sembra non essere affatto passato. Qualche lieve ruga di espressione sulla fronte. Qualche capello bianco che stria le tempie. Abbiamo visto il nuovo film in lingua originale – fatelo anche voi, se potete – e abbiamo notato una cosa. Che questi due attori non li avevamo mai sentiti con le loro voci originali, ma sempre doppiati. E le loro voci, lo scopriamo adesso, sono profonde, sfaccettate, cariche di sfumature, e affascinanti.

Meg Ryan e David Duchovny riescono così, facilmente, a trascinarci dentro la storia. Che prova a rispondere a una domanda non banale. Che cosa accade quando ci si lascia e passano 25 anni? Ci si ricorda tutto o non si ricorda niente? Si ricorda la propria vita a sprazzi, secondo quello che è rimasto impresso. Ma pian piano tutto riaffiora. Si ricorda di aver provato a scrivere canzoni, di essere stati idealisti. “Ascolta i poeti, non ascoltare i politici”. Di aver creduto nei Pearl Jam, nei Pixies e nei Soundgarden più che in qualunque altro. Di aver fatto quel gioco in cui, per conoscere l’altro, ci si scambiava il portafoglio con tutto quello che c’era dentro. Altro che smartphone.

Coincidenze d’amore è un film tutto parlato, sussurrato, recitato. È un film di scrittura, di quelle scritture efficaci, quasi perfette, ma a loro modo sincere. Perché tra le pieghe dei dialoghi c’è della vita, e si sente. È un film su quegli incontri che segnano una vita, su quelle notti che contengono dentro tutte quelle che verranno, una sorta di Prima dell’alba in età matura. È un film con dei tempi recitativi perfetti, con movimenti nello spazio perfetti. Fate caso al fatto che i due, in quel limbo che è il terminal, mantengano le distanze a livello fisico, provando così a mantenere le distanze anche a livello sentimentale. Avvicinarsi, riavvicinarsi, può far male. E allora provano a difendersi l’un l’altro.

A livello di regia, se la direzione degli attori e il loro movimento negli spazi è perfetto, è forse inutile qualche vezzo che Meg Ryan si concede. Come la trovata della voce degli annunci che sembra parlare direttamente a loro e diventare così un “coro” agli eventi che accadono, o alcune immagini del passato che appaiono sui video del terminal, o quel cuore alla fine. Degli elementi magici che non aggiungono molto alla storia e che non sarebbero serviti. Ma è un ornamento inutile, e in fondo innocuo, che non toglie molto all’atmosfera del film.

E così la regina delle commedie romantiche è tornata. Ma è cambiata, e non solo fisicamente. A cambiare sono i suoi personaggi. La sua W. Davis è diversa dalle altre sue eroine, e non potrebbe essere altrimenti, vista l’età. È un personaggio più cinico, più disincantato. Ma ha sempre una sua dolcezza. Finisce con Tom Petty che canta Learning To Fly. “Sto imparando a volare, ma non ho le ali”. Ed è perfetto per raccontare la malinconia della nuova Meg Ryan.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Priscilla: Graceland è come Versailles, Sofia Coppola ci racconta la giovane moglie di Elvis, regina senza un regno

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I piedi da bambina, con le unghie dipinte di rosso, si muovono su una moquette rosa. Un eyeliner trucca in modo pesante due occhi bellissimi, allungandoli, come si usava negli anni Sessanta. È così che inizia Priscilla, il nuovo film di Sofia Coppola, presentato alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia, e in uscita al cinema il 27 marzo. Priscilla è la storia della sposa bambina di Elvis Presley, prodotta dalla stessa Priscilla Beaulieu e tratta dal suo romanzo. È il controcampo di Elvis, il film di Baz Luhrmann sul Re del rock, con la macchina da presa costantemente sulla moglie, e Presley sempre di lato, in secondo piano, forse sminuito anche troppo. Quello che conta è che Priscilla è una nuova storia al femminile di Sofia Coppola, perfettamente in linea con la sua poetica.

Quando l’adolescente Priscilla Beaulieu (Cailee Spaeny) incontra a una festa Elvis Presley (Jacob Elordi), l’uomo, che è già una superstar del rock’n’roll, nel privato le si rivela come qualcuno di completamente diverso: un amore travolgente, un alleato nella solitudine e un amico vulnerabile. Attraverso gli occhi di Priscilla, Sofia Coppola ci racconta il lato nascosto di un grande mito americano, nel lungo corteggiamento e nel matrimonio turbolento con Elvis. Una storia iniziata in una base dell’esercito tedesco e proseguita nella sua tenuta da sogno a Graceland. Una storia fatta di amore, sogni e fama.

“Ti piace Elvis Presley?” “Ovvio, a chi non piace”. Immaginate di essere una ragazzina del liceo, in un paese straniero, in Germania, e di sentirvi chiedere da un impresario se volete venire a una festa a casa di Elvis. Immaginate le emozioni che agiterebbero chiunque. Ed è proprio questo che capita alla giovanissima Priscilla, un prisma di sensazioni che vanno dal timore, al desiderio, alla volontà di non deludere i genitori protettivi che, giustamente, sono preoccupati per una relazione con un uomo più grande, e di tale fama. Per Priscilla sarà un viaggio dentro a un sogno. Un sogno da cui, più volte, si desterà bruscamente.

Non è tutto oro ciò che luccica. E anche Elvis, il Re del rock, visto da vicino non è quell’uomo che appare al pubblico adorante di tutto il mondo. Già quando lo vediamo per la prima volta, alla famosa festa, ha una camicia bianca e un cardigan, ed è molto lontano dagli abiti scintillanti di scena a cui siamo abituati e che ha riportato l’Elvis di Baz Luhrmann. Ma non si tratta solo di questo. Se Elvis è stato una delle voci più belle e potenti della storia della musica, l’uomo che vediamo in Priscilla biascica le parole, parla a monosillabi, non fa altro che dormire stordito da ogni tipo di tranquillante. È un uomo violento. O meglio. È un uomo a cui, da sin da giovane, nessuno ha mai detto di no (tranne che, ovviamente, il colonnello, il suo manager), e che crede di poter fare di ogni persona quello che vuole. Così, per lui, Priscilla non è nemmeno una persona. È il suo giocattolo, la sua bambola, una a cui dire come vestirsi e come portare i capelli. E, quel che è più grave, un gioco da riporre ogni volta che ci si è stancati di giocarci.

Priscilla è un film che vive di contrasti. Il Re del rock e la liceale. L’uomo e la bambina. La differenza di statura tra i due attori, Jacob Elordi e Cailee Spaeny, è notevole. Al cinema, si sa, la cosa si può colmare con diversi trucchi. Eppure Sofia Coppola non fa nulla per nascondere la differenza di altezza tra i due. Quasi che volesse, in quel modo, marcare una distanza incolmabile, un dislivello che nasce dai ruoli, dalla fama, dalla ricchezza. Ma, soprattutto, dal genere.

Sì, la discriminazione di genere è un fattore importante in questo film. Che è il solito film di Sofia Coppola, ma il messaggio destinato al maschilismo tossico stavolta è molto più deciso ed esplicito che in altri film, dove era solo un sottotesto. L’Elvis che vediamo in Priscilla è un uomo violento, maschilista, un uomo che gira con le pistole in tasca e prende ogni decisione per sé e per la propria compagna. Il casting del film non è un caso: per il ruolo di Elvis Sofia Coppola ha scelto Jacob Elordi, che nella serie Euphoria è Nate Jacobs, ragazzo violento e dominante. Porta un po’ di quel personaggio e di quest’aura anche qui, e la cosa è funzionale al messaggio. Un altro momento che ci ha fatto riflettere, è quella scena, a un certo punto del film, in cui tre uomini (Elvis, il padre di Priscilla e un altro), si riuniscono a un tavolo, in salotto, a parlare di Priscilla e della sua relazione con Elvis. È la sua vita, parlano di lei, ma sono solo uomini. E lei, con la madre, è fuori, che aspetta in cucina e non può sentire niente. Cailee Spaeny è un volto perfetto per esprimere la gioventù, l’ingenuità, lo smarrimento. È destinata a diventare la prossima star di Hollyood: sentiremo ancora parlare di lei.

La vita di Elvis, la sua carriera, scorrono lateralmente al film, con il Comeback Special televisivo del 1968 e quell’iconico abito tutto in pelle nera. O la prigione dorata di Las Vegas, con la famosa tuta bianca che appare nel salone di Graceland al momento di una prova costumi prima di iniziare l’avventura. O, ancora, con i numeri nei film con Ann Margret, e le voci su una possibile storia d’amore. Si vede la sua relazione malata con le medicine, che lo avrebbe portato alla morte, un rapporto che inizia quando Elvis è ancora giovane. Ma il ritratto della star, per quanto voglia mostrarne il lato oscuro, ci sembra a volte eccessivo. Elvis è comunque un mito: mostrarlo come un tipo quasi afasico, che si esprime a monosillabi, continuamente intontito forse è ingeneroso.

Sofia Coppola, da canto suo, continua a girare sempre lo stesso film, ogni volta con sfumature diverse. Le sue sono sempre storie di giovani donne chiuse in prigioni dorate. Quella di Sofia Coppola, lo sappiamo, è stata la Hollywood degli anni Ottanta. Che così, in una sorta di transfert verso altri personaggi, è diventata la Versailles di fine Settecento di Marie Antoinette e adesso la Graceland di Priscilla. Priscilla Beaulieu è un’altra Maria Antonietta, una regina senza regno, e senza un vero re al suo fianco. È ancora l’annoiata moglie di un uomo che sembra interessato a tutt’altro. Così i fuochi d’artificio esplodono a Graceland come a Versailles, ma sono un fuoco fatuo, vuoto. Un paesaggio stato d’animo  al contrario di ragazze che, ancora una volta, sono lost in translation, non riescono a comunicare con chi hanno vicino.

di Maurizio Ermisino pert DailyMood.it

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May December: Natalie Portman, Julianne Moore e le vite degli altri

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“Every artist is a cannibal, every poet is a thief”. “Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro”. Così cantavano gli U2 in The Fly. Ed è questo quello che accade, alla fine, in May December, il nuovo film di Todd Haynes con Natalie Portman e Julianne Moore, presentato allo scorso Festival di Cannes e in uscita al cinema il 21 marzo, dopo una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Abbiamo usato queste parole perché il film di Todd Haynes è un moderno mélo, ma soprattutto una riflessione sul lavoro dell’attore e sul suo modo di avvicinarsi a un ruolo, una storia, una persona. In questo senso Natalie Portman è straordinaria e Julianne Moore è il suo perfetto specchio. E viceversa.

Rivivere uno scandalo

Elizabeth (Natalie Portman) è una famosa attrice, ed è intenzionata a realizzare un film sulla storia vera di una coppia, Gracie (Julianne Moore) e Joe (Charles Melton), la cui relazione clandestina aveva infiammato la stampa scandalistica e sconvolto gli Stati Uniti vent’anni prima. Gracie, già adulta e sposata con figli, aveva avuto una relazione con un dodicenne, e per questo era finita anche in carcere. La cosa sorprendente è che, una volta uscita, Gracie aveva sposato il ragazzo e avuto dei figli con lui. Per prepararsi al suo nuovo ruolo Elizabeth entrerà nella loro vita rischiando di metterla in crisi.

Né vergogna, né dubbi, né rimorsi. Ma…

Quello che colpisce Elizabeth, e anche noi, mentre il film procede, è l’estrema tranquillità nella vita di Gracie. È una normalità così cercata, e così ostentata, da risultare costruita. E che fa pensare al fatto che possa nascondere una serie di crepe profonde dietro la facciata lucida e patinata. “Non sembra mostrare alcun senso di vergogna, né dubbi, né rimorsi” dice di lei Elizabeth. Da un lato, la vita di Gracie sembra quella di una donna pacificata. Dall’altro c’è in lei un mistero, un rimosso, un non detto. Un senso di vergogna che è stato chiuso in un cassetto per poter continuare a vivere. Ma quel cassetto sarà aperto?

Natalie Portman, star e detective dell’anima  

Elizabeth, cioè Natalie Portman, in May December, ha un doppio ruolo. Da un lato è l’attrice, la diva, la star. Ma dall’altro è l’investigatrice. Per prepararsi al film, infatti, indaga, e questo fa sì che sia la nostra detective. Il film funziona come un’indagine, un giallo senza delitto e senza colpevoli, in cui cercare però l’anima dei personaggi e la verità dei fatti. Ed Elizabeth è il nostro punto di ingresso nella storia. È il narratore non onnisciente, colei che scopre le cose man mano che la storia va avanti e ce le racconta. Così, come in un romanzo di questo tipo, anche noi le scopriamo insieme a lei, a poco a poco.

Le vite degli altri

Per questo May December è un moderno mélo, come è nelle corde di Todd Haynes, ma è anche una riflessione sul lavoro dell’attore. Il lavoro dell’attore è indagine, è studio, è approfondimento. Ma, allo stesso tempo, è anche immedesimazione, è ingresso nella vita di qualcun altro, è rubare dei pezzi di un’esistenza. Ma quanto è necessario immedesimarsi in un ruolo? Fino a che punto è necessario diventare qualcun altro? Qual è il momento in cui bisogna fermarsi? E così ci chiediamo, man mano che il racconto procede, perché Elizabeth si immedesimi così tanto in Gracie, perché entri così tanto nella sua vita. Lo fa per il suo lavoro o per qualche altra ragione?

Sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo?

A proposito di lavoro dell’attore, May December spiega, come pochi altri film, quello che davvero accade ogni volta che un attore sul set affronta una scena di sesso. È ancora Natalie Portman, nei panni di Elizabeth, a raccontarlo, durante una lezione. Uno studente le chiede che cosa si provi, che cosa accada davvero sul set in quei momenti. E lei lo spiega, con una sincerità rara. All’inizio pensi al fatto che sia come una coreografia, con dei passi e delle mosse da seguire. Ma dopo essere stati ore e ore l’uno accanto all’altra, nudi, ti rendi conto che nasce un feeling, qualcosa che non diresti mai al tuo partner nella vita. E ti fa chiedere: sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo? E alla fine ti lasci andare al ritmo.

Natalie Portman e Julianne Moore, intimità allo specchio

A proposito del lavoro dell’attore, dell’immedesimazione, dell’intimità, c’è una scena in particolare che racchiude tutto il senso di May December. È quella in cui Elizabeth e Gracie, Natalie e Julianne, si trovano l’una di fronte all’altra, allo specchio, al trucco. Elizabeth cerca di diventare Gracie, e lei la aiuta. Entrambe fissano prima lo specchio e guardano in macchina, guardano verso di noi. Poi si girano l’una verso l’altra, di fonte, e Gracie trucca Elizabeth come se truccasse se stessa, le acconcia i capelli come li porta lei. E così, guardando la sua emula, è come se si guardasse a sua volta allo specchio, come se parlasse con se stessa. E si confida, si apre come non aveva ancora fatto prima.

Un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi

Il film è una sfida di bellezza e di bravura, un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi. Julianne Moore è in scena con i suoi colori tipici. I proverbiali capelli rossi qui sono schiariti e tendono al biondo. La pelle è chiarissima e lattiginosa, e le dona un’aria quasi nobile, insieme a un’aura di purezza, quella che Gracie vuole mantenere nella sua vita. Le labbra sottili sono fisse in un lieve e costante sorriso arcaico e un po’ forzato. I suoi occhi si stringono quando sorride. Ma quando il suo volto si scioglie finalmente in un pianto, con il volto arrossato, quando la torre d’avorio crolla, Julianne Moore è credibilissima, reale, palpabile.

Natalie Portman, gli occhi della curiosità

Natalie Portman ha la sua aura inconfondibile, la pelle diafana, il fisco tonico e minuto. A quarantadue anni è ancora un’eterna ragazzina, è ancora la Mathilda di Leon, è davvero cambiata pochissimo. Entra in scena con un leggerissimo abito di cotone bordeaux, i grandi occhiali da sole neri e un cappello di paglia a tesa larga. “Pulita, fresca”, la definiscono, ed è così. Le basta quel volto per conquistare. E invece Natalie Portman non è solo quello. È bravissima a mostrare imbarazzo con la sua bocca, con sorrisi un po’ forzati, con movimenti impercettibili dei muscoli facciali. Ma il centro di tutto sono i suoi occhi castani, da cerbiatto, pieni di luce, ma anche e soprattutto di curiosità. Ed è questa la chiave del suo personaggio, e del lavoro dell’attore in generale. I suoi occhi studiano, scrutano, entrano nelle vite degli altri. È allo stesso tempo contenuta e seducente.

Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro

Sì, ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro. Un attore è un artista e un poeta. Ed è così che fa Elizabeth. Alla fine ruba i segreti dell’altra donna, quelli che le sono stati concessi e quelli che non lo sono stati: fate attenzione a quella lettera che, a un certo punto, esce da quel cassetto. E così, insieme a quella scena allo specchio, tutto il film è anche in quel monologo in sottofinale, in cui guarda in macchina. E poi in quel finale, sul set, ormai con il trucco e l’abito di scena. Elizabeth, dopo aver vissuto anche troppo la vita del suo personaggio, la mette in scena. E vuole rifare la scena tre volte. Fino a che raggiunge la perfezione. Fino a che Elizabeth è Gracie. E fino a che Natalie Portman diventa così Julianne Moore. Un cortocircuito, un’attrice che si specchia in un’altra. Un gioco complicato e affascinante.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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