Serie TV
Stranger Things 2. L’anima dei favolosi anni ottanta

Chiamateli pure “i Favolosi anni Ottanta”. Sì, lo so: l’appellativo di “favoloso” è da sempre appannaggio degli anni Sessanta. Ma se pensiamo al significato letterale del termine, cioè “legato al mondo delle favole, leggendario, fantastico”, non possiamo negare come l’aggettivo calzi a pennello agli anni Ottanta. Per tutta una generazione quelli sono stati gli anni delle favole, nel senso che erano l’infanzia. Ma anche nel senso che proprio in quegli anni si è sviluppato un cinema “favoloso”, quello degli Spielberg e degli Zemeckis, di E.T. e de I Goonies, della (fine della) prima saga di Star Wars e di Indiana Jones. Cinema immaginifico, in grado di lasciare a bocca aperta i bambini, proprio come una favola, ma di ammaliare anche i grandi. O di continuare ad affascinare i bambini anche una volta grandi. Tutto questo è il cuore di Stranger Things, la serie tv (cioè il cinema di oggi) dei Duffer Brothers che ha visto, su Netflix, la seconda stagione. Un racconto che non è solo ambientato negli anni Ottanta: vive negli Ottanta, respira Ottanta, pensa Ottanta.
E inizia nel 1984, l’attesissima seconda stagione, a pochi giorni da Halloween. E i nostri eroi Will (Noah Schnapp), Mike (Finn Wolfhard), Dustin (Gaten Matarazzo) e Lucas (Caleb McLaughlin), ora al sicuro, si preparano alla notte dell’orrore, ancora inconsapevoli che l’orrore tornerà davvero. Il Demogorgone è sconfitto, ma dal Sottosopra, l’universo parallelo che si trova sotto al nostro mondo, ma riesce a comunicare con esso, sono in arrivo altri pericoli. Tutto questo mentre Undici (Mille Bobby Brown) è scomparsa. E nel gruppo arriva Max (Sadie Sink), detta Mad Max, una ragazzina dai capelli rossi, dai modi da maschiaccio e dalla dolcezza irresistibile. Mentre lo sceriffo Jim Hopper (David Harbour) continua ad indagare sui fatti strani di Hawkins, Indiana, il ponte tra il nostro mondo e lo spaventoso mondo che ci minaccia sarà ancora una volta il povero Will Byers…
Non vi sembrerà di guardare un film ambientato negli anni Ottanta. Vi sembrerà proprio di essere saltati sulla DeLorean di Marty McFly e di essere stati catapultati dal flusso canalizzatore indietro nel tempo, tanto la ricostruzione è riuscita, non solo a livello estetico, ma anche a livello di contenuti. Non è un’operazione nostalgia, né puro revival: il punto è che il cinema fantastico degli anni Ottanta è lo stile perfetto per raccontare quella che è una storia di paura del buio, di paura di crescere, di paura di amare e di confrontarsi con l’altro sesso. Tutte cose tipiche di un’età, al confine tra infanzia e adolescenza, che nessun altro cinema come quello degli Ottanta ha saputo raccontare.
Stranger Things ci riesce, e, nel gioco di suoni e citazioni, bisogna dirlo, ha vita facile: cinema e musica di quel periodo sono sì irripetibili, ma anche piantati fino in fondo nel cuore di chi ha vissuto quell’epoca. Ma ogni cosa in Stranger Things ha un senso. Nella prima stagione il brano eponimo era Should I Stay Or Should I Go dei Clash, al tempo stesso perfetta per rappresentare la ribellione di Jonathan Byers (Charlie Heaton) – come Atmosphere dei Joy Division ne sottolineava l’alienazione – e una melodia così “catchy” da conquistare anche un ragazzino, il fratello minore Will. Nella seconda stagione ogni canzone è uno stato d’animo: il momento liberatorio di una festa è Girls On Film dei Duran Duran, la fascinazione dei videogame Arcade è l’elettronica Whip It! dei Devo, Rock You Like A Hurricane dei Whitesnake è la perfetta presentazione di un bullo che arriva nella scuola. E Time After Time di Cindy Lauper, e ancora più Every Breath You Take sono la colonna sonora perfetta per un lento al ballo di fine anno (altro topos narrativo di un certo tipo di cinema/serialità, che qui arriva a fine stagione, mentre in Riverdale viene lanciato già nel pilota), ma anche un pezzo nervoso, oscuro, quasi un presagio di pericolo: Sting raccontò che il pezzo dei Police è considerato una canzone d’amore, ma in realtà parla di un’ossessione, di uno stalker. Basta guardare cosa accade quando la canzone si dissolve…
Anche nel cinema Stranger Things ha buon gioco. In fondo, come il cinema degli anni Ottanta, è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Da Terminator a Ghostbusters, fino ad Halloween, ci sono i film citati apertamente. Da Alien ai Gremlins fino a L’esorcista, ci sono i film che fanno capolino in certe situazioni. E poi ci sono E.T., Stand By Me, I Goonies, i film che sono i numi tutelari dell’operazione Stranger Things, quelli che definiscono un mood, un’atmosfera, un modo di intendere il cinema. A proposito di Goonies, poi, c’è anche Sean Astin.
In quel lontano 1984, o forse qualche tempo dopo, quei film li avrà visti quasi tutti una ragazzina di tredici anni, che di lì a poco sarebbe diventata una star. Winona Ryder, icona assoluta degli anni Novanta, sparita dai radar – ma mai completamente – dopo la storia del furto, torna con un grande ruolo, Joyce, la madre di Will, anche questo un topos di un certo cinema, la donna comune che sfodera coraggio (vedi la Sarah Connor di Terminator), senza paura di mortificare completamente la sua bellezza nella prima stagione (i registi le hanno chiesto di non sfoderare i proverbiali “occhioni alla Winona Ryder” e lei si è tagliata le ciglia) un po’ meno nella seconda. Uno dei punti di forza di Stranger Things è lei.
L’altro, grandissimo, punto di forza è l’Eleven (o Undici, o Undi) di Mille Bobby Brown. Non è bellissima: è che la disegnano così. La ragazzina “diversa”, con grandi poteri da cui, per ora, derivano più grandi dispiaceri che grandi responsabilità, è uno dei personaggi meglio scritti, e uno dei casting più azzeccati, della storia della tv: un misto di dolcezza e violenza, innocenza e forza, la diffidenza e l’apertura di un cucciolo ferito e bisognoso d’affetto, ma capace anche di cacciare. Allo stesso tempo una bambina che scopre la vita per la prima volta e un’arma letale. La sua storia è anche lo spunto per una digressione – la puntata 7, a Pittsburgh, con nuovi personaggi che sembrano fatti apposta per uno spin-off – e porta la serie dalle parti degli X-Men e tutto il discorso sui diversi. Se per tutta la prima stagione Undici portava il film dalle parti di E.T., ed era a tutti gli effetti l’alieno, la cosa strana da nascondere, la seconda stagione la vede diventare a tutti gli effetti una persona, un personaggio femminile: i capelli più lunghi, il look da teenager, i primi baci. Il suo ingresso in scena a Hawkins, nel penultimo episodio, è quello di una star. E c’è da scommettere che sarà proprio lei la chiave per lo “scontro finale” delle prossime stagioni. L’empatia verso il diverso è una delle chiavi di Stranger Things. E la sintetizza bene una battuta. “Le persone normali non fanno mai niente a questo mondo”. “Chi vorresti essere, Bowie o Kenny Rogers?”
Stranger Things è magistrale per come riesce – proprio grazie al linguaggio del cinema degli anni Ottanta – a raccontare quella terra di mezzo tra infanzia e adolescenza dove si è ancora un po’ bambini, ma non del tutto, e non si è ancora ragazzi. Dove le paure dell’ignoto sono anche quelle dell’altro sesso, con le ragazze che sono ancora un po’ degli alieni, un mondo sconosciuto ma eccitante da scoprire, un po’ come i misteri del Sottosopra. In Stranger Things il ritorno ai Favolosi anni Ottanta non è solo forma: i Duffer Brothers riescono a cogliere lo spirito degli Eighties, l’anima di quegli anni, l’essenza di Spielberg e soci: l’ingenuità, lo stupore, quella sensazione di non avere limiti, di poter sconfiggere tutto insieme ai propri amici, di riuscire a fare qualsiasi cosa. Come volare, insieme a un amico di un altro pianeta, su di una bicicletta.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
Iniziano oggi le riprese della quarta stagione di MARE FUORI

Published
7 giorni agoon
22 Maggio 2023By
DailyMood.it
Dopo lo straordinario successo che ha segnato le prime tre stagioni della serie prodotta da Rai Fiction e Picomedia, iniziano oggi le riprese della quarta stagione di MARE FUORI.
Il cast torna a girare a Napoli, diretto nuovamente da Ivan Silvestrini.
La serie, una coproduzione Rai Fiction – Picomedia e prodotta da Roberto Sessa, è nata da un’idea di Cristiana Farina scritta con Maurizio Careddu.
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Serie TV
La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton: Tra Marie Antoinette e Lady Diana
Published
4 settimane agoon
4 Maggio 2023
Come sapete, La Regina Carlotta: Una storia di Bridgerton, la nuova serie in arrivo in streaming su Netflix dal 4 maggio, non è la terza stagione di Bridgerton, cioè la serie che continua le vicende della famiglia del titolo, ma uno spin-off e allo stesso tempo un prequel. La nuova serie targata Shondaland, la casa di produzione fondata da Shonda Rhimes (Scandal, Grey’s Anatomy, Private Practice) è la storia della Regina Carlotta, che abbiamo visto reggere le fila della società londinese ai tempi della Reggenza in Bridgerton. Ma è raccontata dall’inizio: è la sua origin story, per usare un termine caro ai supereroi. La Regina Carlotta, quella matura, che abbiamo conosciuto nelle prime due stagioni di Bridgerton, appare spesso in scena. La vediamo mentre è alla ricerca di un erede: nessuno dei suoi figli ha procreato, e il timore è l’estinzione del suo casato. Ma si tratta di un contrappunto, e di un legame con Bridgerton, che scorre accanto alla storyline principale. Questo prequel dell’universo Bridgerton racconta come il matrimonio della giovane Regina con il Re Giorgio abbia rappresentato non solo una grande storia d’amore, ma anche un cambiamento sociale, portando alla nascita dell’alta società inglese in cui vivono i personaggi di Bridgerton.
Al centro c’è la storia di Carlotta. È una ragazza giovanissima, che arriva in Inghilterra da una cittadina della Germania, dopo che è stata scelta per unirsi in matrimonio al Re del Paese più importante del mondo, Re Giorgio d’Inghilterra. Arriva al matrimonio senza conoscerlo, da un Paese lontano, dopo un lungo viaggio, e viene catapultata in un mondo di cui non sa niente. Ci ricorda moltissimo la giovane Maria Antonietta, raccontata mirabilmente da Sofia Coppola in Marie Antoinette, che dall’Austria (certo, era la figlia della Regina e di un nobile qualsiasi) arrivava in Francia per sposare il Re.
Ma la Regina Carlotta ci ricorda anche molto la giovane Lady Diana Spencer. Una ragazza che, alla corte della Regina d’Inghilterra, ha sofferto spesso di solitudine, incomprensione, incomunicabilità. Guardate il primo episodio, e la prima notte di nozze. La giovane Carlotta, dopo un matrimonio combinato ma che, tutto sommato, ha mostrato di apprezzare, si trova accompagnata nella sua dimora, mentre il marito, Re Giorgio, le comunica che alloggerà in un’altra. Ricorda davvero la storia di Carlo e Diana che, una volta sposati, hanno vissuto a lungo in dimore diverse, facendo vite separate. È in questo che La Regina Carlotta: A Bridgerton Story, appare interessante e attuale.
L’altro lato dell’attualità è quello sforzarsi di rendere tutto inclusivo. Il fatto della regina di colore, che già aveva fatto molto discutere nella prima stagione di Bridgerton, qui viene risolta con un paio di battute e in un paio di scene. In più c’è l’omosessualità del servitore personale di Carlotta e di quello di Re Giorgio. Che non è ovviamente un problema, ma nel contesto della storia sembra inserita piuttosto forzatamente, con il solo scopo dell’inclusività.
Ovviamente Giorgio non è cattivo. È che lo disegnano così. Infantile, ingenuo, inesperto. Dedito alla sua passione, l’astronomia, come il Re Luigi XVI di Marie Antoinette era dedito alle chiavi. Certo, meglio le stelle delle chiavi, converrete tutti. E quello tra i due, al netto delle difficoltà, è un matrimonio d’amore. Ma la storia è scritta per raccontarci che i due giovani si amano e che c’è qualcosa tra loro che li divide. E allora, pur essedo una storia diversa, ritorna lo schema del primo Bridgerton: una giovane ingenua, la sua educazione sessuale, due persone che si amano ma che sono divise da qualcosa che rimane misterioso. È il romanzo di formazione di una ragazza che viene da altri tempi ma che in sé racchiude problemi della sua epoca, e anche della nostra. Come in ogni racconto della saga di Bridgerton, il racconto è brioso e piacevole, ma anche superficiale e a tratti eccessivo.
A brillare, nei panni di Carlotta, è la giovane India Amarteifio, un volto fresco, vispo, impertinente, un volto tipico da eroina dei nostri tempi: occhi allungati e una cascata ribelle di riccioli neri, potrebbe essere la protagonista di un film della Marvel. È un volto che istintivamente suscita simpatia e raggiunge il primo obiettivo, quello di farci parteggiare per lei. Corey Mylchreest, visto in The Sandman, è il giovane re Giorgio, e ha il volto e il fisico che il ruolo impongono. Guardate il loro primo incontro, con lei che è ignara di chi sia lui: un classico della commedia sentimentale. Colpisce anche Arsema Thomas, nel ruolo della la giovane Agatha Danbury, dama di corte della Regina e sua mentore. Nell’altra storyline, quella ambientata durante i fatti di Bridgerton, Golda Rosheuvel (Regina Carlotta), Adjoa Andoh (Lady Danbury) e Ruth Gemmell (Lady Violet Bridgerton) riprendono i loro ruoli di Bridgerton.
Per il resto, si sa, siamo in una storia di Bridgerton, e si tratta di stare al gioco, di fare il più grande sforzo di sospensione dell’incredulità possibile. E così, allora, si tratta di prendere o lasciare. Certo, gli anacronismi di Sofia Coppola in Marie Antoinette ci piacevano di più, perché i momenti di rottura, come le Converse accanto alle scarpe d’epoca, e la musica post punk (extradiegetica, ovviamente) erano degli squarci di vernice fluo su una tela classica, che però era rigorosamente e accuratamente costruita, e sempre coerente con la materia raccontata. Shonda Rhimes, invece, nella sua ricostruzione d’epoca si prende qualsiasi libertà a livello storico, visivo, concettuale. È uno di quei prodotti in cui vale tutto. E allora, va bene per intrattenere, ma siamo lontani da qualcosa di profondo, intenso, emozionante.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Serie TV
Citadel: Una grande spy story in una serie tv? Non è una missione impossibile!
Published
1 mese agoon
28 Aprile 2023
Chi ha detto che ci sono prodotti per il cinema e prodotti per le piattaforme di streaming? Finora avevamo sempre pensato che i grandi film d’azione fossero fatti apposta per il grande schermo e i prodotti più piccoli, meno spettacolari, fossero naturalmente destinati alle piattaforme. Citadel, la serie che trovate in streaming su Prime Video dal 28 aprile, sembra fatta apposta per rompere questa distinzione. Non è la prima serie spettacolare che approda in streaming, ma è forse il caso più eclatante che dimostra il fatto che oggi non esistono più confini. Abbiamo visto i primi due episodi di Citadel su un grande schermo, al cinema The Space Moderno di Piazza della Repubblica a Roma. E su quello schermo ci stavano benissimo. Citadel farà un figurone anche in tv, chiaro, ma vedetelo comunque sullo schermo più grande che avete. Non è un’opera da vedere al cellulare o su un tablet.
L’inizio di Citadel è di quelli che lasciano il segno: siamo sulle alpi italiane, su un treno di ultima generazione, alta velocità ed extra lusso, come in una versione 3.0 di Intrigo Internazionale. Un’affascinante donna vestita di rosso, Nadia Sinh (Priyanka Chopra Jonas), viene avvicinata da un affascinante uomo vestito di nero, Mason Kane (Richard Madden). I due si conoscono già, si conoscono molto bene, hanno un grande feeling. Lo capiamo dal loro dialogo, dalla chimica in atto ogni volta che si avvicinano. Su quel treno ci sono altre persone, è una trappola. C’è una bomba. Un vagone del treno salta in aria e… La storia riprende otto anni dopo. E sta a voi scoprirla.
Vi diciamo solo che Mason non ricorda nulla. Sì, proprio come Jason Bourne, il protagonista di The Bourne Identity che, citato anche da una simpatica battuta in sceneggiatura, è uno dei modelli di Citadel. Modelli che sono tanti, sono chiari, sono i più nobili. C’è ovviamente molto di Mission: Impossible, che è il riferimento più evidente; c’è, ma in misura minore, James Bond. E ci sono, accennati perché l’atmosfera è diversa, i classici di Hitchcock. Tutto questo è per dire che le ambizioni sono alte, gli standard produttivi e visivi anche. Ma Citadel, pur ispirandosi e richiamando il meglio degli spy game cinematografici, non sembra mai qualcosa di già visto, non sembra somigliare ad altre cose. Era il rischio più grande. Ed è stato evitato.
Nel caso di Citadel è il caso di parlare di un vero evento, perché alza l’asticella delle produzioni seriali e del mondo dello streaming, e inaugura una nuova formula produttiva. Anche se siamo in tv possiamo dire tranquillamente che si tratta di grande cinema. E non è un caso: a dirigere infatti ci sono i Fratelli Russo, coloro che avevano già trasformato il cinecomic della Marvel in una spy story anni Settanta con Captain America And The Winter Soldier. Il cinema di spionaggio è il loro terreno e non deludono. Ma il loro ambiente, appunto, è anche il cinecomic, il cinema di supereroi. E, come ha detto qualcuno, Citadel è questo: è un film degli Avengers, ma con le spie. Spie e supereroi, ci hanno spiegato i produttori, in fondo, sono la stessa cosa: personaggi in grado di andare oltre le nostre capacità, con doti e poteri speciali.
Tutto questo è racchiuso nei due protagonisti. Richard Madden, già uomo d’azione ne Il trono di spade, ma soprattutto in The Bodyguard, ha il physique du rôle per essere una nuova spia, anche se l’espressività, in confronto a mostri come Daniel Craig, Tom Cruise e Matt Damon, non è completamente all’altezza. Priyanka Chopra Jonas è una vera sorpresa. Sensualissima nei primi piani, con uno sguardo e delle labbra in grado di far sciogliere che guarda, è anche eccezionale nelle scene d’azione. Bernard, il loro capo, interpretato da Stanley Tucci, dice che Nadia e Mason da soli sono dei grandi agenti, ma insieme sono una bomba. Ed è vero anche per gli attori. La chimica e l’affiatamento tra i due è eccezionale.
Citadel è un evento anche per la parte produttiva. Perché da questa serie verranno tratti alcuni spin off che saranno prodotti in altre parti del mondo. Una di queste è l’Italia. E la protagonista della Citadel italiana è Matilda De Angelis. Non vediamo l’ora di vederla come una nuova, sexy e tostissima spia. Siamo appena entrati nel mondo di Citadel, allora, e crediamo che ci resteremo molto a lungo.
Crediti: Courtesy of Prime Video
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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