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Andy Warhol. Pop Art per la Pop Music

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Andy Warhol è stato il primo artista mediatico. Il creatore dell’arte seriale, con le opere da serigrafare e diffondere. Il primo a capire che l’arte poteva venire da tutto, anche da una lattina di zuppa al pomodoro, ed essere su tutto. Come sulle copertine dei dischi. Andrei Warhola nasce il 6 agosto 1928 a Pittsburgh, in Pennsylvania: è un bambino pallido e malaticcio, che predilige le amicizie femminili e i fumetti, che ricopia diligentemente su carta. Inizia a frequentare i corsi di disegno al Carnegie Museum e al Carnegie Institute Of Technology, diventando presto picture editor di una rivista universitaria. Nel 1949 si trasferisce a New York. Inizia a lavorare a una serie di disegni di scarpe per la rivista Glamour, che dà il via alla sua carriera di grafico pubblicitario. Nel 1952 organizza la sua prima personale, ispirata agli scritti di Truman Capote, nel 1955 cura la campagna del famoso negozio di scarpe I. Miller. Nel 1961 prende le 32 qualità di minestra Campbell e le ritrae in maniera fredda e obiettiva su grandi tele. Warhol riproduce ciò che ama: cartoons, miti americani, dollari. Proprio con la serie Dollar Bills inizia a utilizzare la serigrafia per moltiplicare all’infinito un’immagine e “meccanizzare” il suo modo di dipingere. Nel 1962 espone le sue Campbell’s Soup Cans a Los Angeles e la serie delle Marilyn a New York. Nel 1963 affitta il celebre loft sulla Quarantasettesima, a New York, che diventerà la Silver Factory, e porta a Los Angeles una personale dedicata a Elvis Presley. Nel 1966 annuncia il suo addio alla pittura per dedicarsi al cinema (il film più importante è Chelsea Girls). Nel 1967 produce il disco The Velvet Underground & Nico. Nel 1968 la femminista Valerie Solanas gli spara, e il fatto che il suo staff avesse continuato a lavorare gli conferma l’idea dell’arte come business. Il 1972 è l’anno del ciclo dedicato a Mao. I personaggi famosi fanno ormai a gare per farsi ritrarre da lui e diventare a loro volta icone. Negli anni Ottanta si lega a nuove forme espressive, come il Graffitismo e ad artisti come Jean-Michel Basquiat. Al 1986 risale la serie dedicata al Cenacolo di Leonardo. Muore nel febbraio 1987 a New York.

Warhol__Nico__and_the_Velvet_UndergroundPittura, cinema, musica. Nel suo mondo tutto è collegato. E Andy Warhol ha avuto un ruolo chiave nella creazione di miti e icone nel mondo del pop e del rock. La celebre banana creata per The Velvet Underground & Nico, disco d’esordio della band di Lou Reed, è la storia del rock. Warhol divenne il manager della band dopo averli visti suonare al Cafè Bizarre del Greenwich Village, e impose loro la cantante tedesca Nico, costruendo attorno a loro la performance multimediale Exploding Plastic Inevitable. La copertina del disco è pura pop art alla Warhol: un oggetto di tutti i giorni, una banana, come la lattina di zuppa Campbell’s, elevata allo status di icona. Ma il vero colpo di genio è che la buccia di banana è formata da un adesivo, con una linguetta alla sommità e l’invito, grazie a una piccola scritta, a sollevare e vedere cosa c’è dietro. Warhol disegnò la cover come un lavoro autonomo, creando qualcosa di completamente slegato dai contenuti e del suono della band, il cui nome non appare sulla copertina, firmata solo da Warhol. Ma era lui ad essere conosciuto, non la band. Ma questo approccio rivoluzionario aiutò il disco a diventare uno dei più famosi della storia della musica.

velvetundergroundL’altra grande icona warholiana che ha fatto la storia del rock è la cover di Sticky Fingers dei Rolling Stones, del 1971: fronte e retro rappresentano un primo piano di un uomo in jeans attillati, ripreso all’altezza del bacino. E in corrispondenza della chiusura dei jeans c’è una vera zip. All’interno, la busta che contiene il disco vede una foto della stessa zona in biancheria intima. Warhol propose a Jagger l’idea a una festa, nel 1969: anche qui si trattava di un’idea slegata dalla band, e pensata per il poster del suo film Lonesome Cowboys. Jagger e la band accettarono l’idea, che era perfettamente in sintonia con la reputazione iconoclasta della band. “Credo che fosse il packaging più sexy e originale in cui sia mai stato coinvolto” dichiarò il cantante degli Stones. Ma c’era il problema della zip, che rischiava di rovinare il vinile: si provò a rinforzare la cover con il cartone, ma nonostante questo alcune copie vennero danneggiate. E così si decise di lasciare la zip aperta. Ma molti negozi americani decisero di non vendere l’album proprio per la sua provocatoria copertina, che nella Spagna di Franco fu messa al bando dalla Chiesa Cattolica, e sostituita con un’altra cover. Anche questo contribuisce a creare un mito. Warhol collaborerà ancora con gli Stones per il disco dal vivo Love You Live (1977), disegnando linee a colori su delle Polaroid, ed Emotional Tattoo (1983).

Ma la lunga storia d’amore tra Warhol e la musica non inizia e non finisce qui. Warhol, come grafico, crea copertine sin dal 1949: jazz, con Count Basie e Thelonius Monk, e classica, con i Notturni di Chopin. E continua con artisti di tutti i tipi. Da Paul Anka (The Painter, del 1976), a Liza Minnelli (Live At The Carnegie Hall, del 1981), a Diana Ross (Silk Electric, 1982), fino ad Aretha Franklin (Aretha, 1986). Sono lavori più classici, i celeberrimi ritratti in primo piano, lavorati a dovere attraverso l’uso del colore nel classico stile Warhol, meno geniali rispetto alle sue copertine più famose. Tra i lavori di Warhol per la musica pop c’è anche una copertina per Loredana Bertè, e il suo disco Made In Italy del 1981, Un lavoro anomalo per Warhol, una foto in un bianco e nero molto contrastato, un intenso primo piano della cantante. È un lavoro da accreditare più alla Factory – in particolare al fotografo Christopher Markos – che al solo Warhol, che ha coordinato il progetto. Che nasce nel 1978, quando la cantante passò un anno e mezzo a New York, e conobbe Warthol in un negozio di Fiorucci. Il retro della cover è una bandiera italiana, e la copertina interna mostra mappe di Napoli, Roma e della metro di Milano. La Factory di Warhol girò anche il video di una canzone, Movie. Ma il rapporto con la musica italiana non finisce qui: c’è anche Miguel Bosè, con il suo disco Made In Spain, del 1983. La cover è una variante delle classiche immagini seriali di Warhol, sul modello di Twenty Times Marilyn o Eleven Times Elvis: solo che l’artista non ripete la stessa immagine ma riprende il cantante in diverse espressioni, giocando a colorare i ritratti di giallo e rosso. Caso piuttosto raro, la stessa immagine è stata utilizzata per un disco successivo, dello stesso anno, destinato al mercato italiano, Milano-Madrid.

rollingstoneTra le chicche meno note di Warhol è da ricordare anche Menlove Ave. (1984), un disco postumo di John Lennon, non nella discografia ufficiale, fatto essenzialmente di registrazioni inedite dell’ex Beatle. Fu Yoko Ono, su richiesta della Capitol Records, a supervisionare l’artwork e a commissionarlo a Warhol, dandogli due foto dalla sua collezione personale. Warhol realizzò due ritratti virando il volto di Lennon sulle tonalità del rosso. È uno dei lavori più intimi di Warhol, che di Lennon era molto amico. Il senso della perdita del grande artista si nota dallo sfondo nero del ritratto, e dai bagliori arancioni sul suo volto, che evocano le luci della fiaccolate avvenute in tutto il mondo alla notizia della sua morte. Nel portfolio di Warhol ci sono anche artisti delle generazioni successive del rock: Debbie Harry, ex frontwoman dei Blondie, ha in comune con Warhol il fatto di essere una creatura di New York. L’artista la raffigura in un intenso e aggressivo primo piano per Rockbird, il suo secondo disco solista del 1986, uscito in quattro versioni, con le scritte in verde, rosso, arancione e ocra. La Harry è fotografata davanti a un dipinto di Warhol, appartenente alle Camouflage Series, che fa solo da sfondo. Gli Smiths di Morrissey e Johnny Marr hanno in comune con Lennon il fatto di essere una delle realtà più interessanti nate in Inghilterra. La confezione per The Smiths, il loro disco d’esordio del 1984, è molto sobria e più legata al cinema che alla pittura di Warhol: non è stata creata direttamente da lui, ma è tratta da una fotografia di un film della Factory. È una foto in bianco e nero di Joe Dallesandro, star del film Flesh, prodotto da Andy Warhol e diretto da Paul Morrissey nel 1968. Peter Morrissey, leader degli Smiths, scelse una foto, e decise di utilizzarne solo una parte: in quella mancante un uomo pratica una fellatio a Joe.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

 Credit Photo: https://warholrevisited.com/

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DE ANDRÉ – LA STORIA 25mo anniversario

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Location: Teatro Carcano – Milano
Data evento: 11 Gennaio 2024

Nell’anniversario della morte di Fabrizio de Andrè, al Tearo CARCANO di Milano, va in scena “De Andrè, la storia”, lo spettacolo-evento. De Andrè, La Storia è un vero e proprio viaggio musicale nell’universo di Fabrizio De André, il grande cantautore italiano scomparso l’11 gennaio del 1999, sempre presente nella memoria e nella cultura musicale italiana, che accompagna intere generazioni. “De André, La Storia”, è lo spettacolo sul cantautore più importante e influente della musica italiana che celebra, a 25 anni esatti dalla scomparsa, la sua opera. Lo spettacolo ha debuttato nel 2020 e, dopo una tournèè nazionale, approda a Milano, al Teatro CARCANO.

“Fabrizio De André è stato uno dei primi a portare la canzone italiana verso la modernità, ha cambiato le regole delle canzoni, ha mescolato la storia e l’intelletto con il canto popolare, il sacro e il profano, la cultura alta e bassa con una libertà di espressione senza pari – dice il direttore Musicale, Massimiliano Salani – poterne raccontare l’epopea musicale ed umana attraverso la sua musica, ma anche attrvaerso immagini e testi credo sia una grande sfida e un grande privilegio”.

Da Creuza de ma, a Non al denaro… da La buona Novella a Le nuvole, da Anime salve a l’Indiano, l’avventura musicale di De Andrè viene attraversata in uno spettacolo emotivo e coinvolgente, arricchito dalle immagini e dalle informazioni che lo rendono un vero e proprio concerto documentario.
Grazie a un grande interprete, una band eccezionale e video esclusivi, questo spettacolo ripercorre quindi quarant’anni di attività artistica di Fabrizio De André, raccontando un’epoca storica, il clima sociale e politico di un periodo, l’atmosfera e il sapore di un mondo e di come un visionario lo abbia attraversato, descrivendo magistralmente noi stessi, oggi.

La sua storia, la nostra storia.

“È una grande emozione poter lavorare e ideare uno spettacolo basato su una figura così imponente del panorama musicale e intellettuale italiano. L’arte e la musica svolgono nella vita delle persone un ruolo fondamentale, che Fabrizio ha saputo coniugare con una rara indipendenza e profondità di pensiero. Oggi De Andrè è più seguito ed amato che mai, le sue canzoni restano attuali, le nuove generazioni le assorbono e rimandano sui social, negli eventi.
Stiamo ricevendo un caloroso riscontro riguardo agli spettacoli che abbiamo in programma.
Abbiamo voluto dedicare questo spettacolo a un musicista e poeta visionario, proseguendo una ricerca che portiamo avanti dal 2003. Questo evento non è solo un modo per ascoltare i brani di Fabrizio ma anche una possibilità di celebrare la sua influenza storica e la sua continua conversazione con il tempo e con la contemporaneità.” afferma il regista e produttore Emiliano Galigani.

Uno spettacolo da non perdere! I biglietti sono acquistabili online (TicketOne).

Lo spettacolo è prodotto da Stage 11: il regista, Emiliano Galigani ha già realizzato, nel 2003 lo spettacolo musicale Circo Faber, con la collaborazione della Fondazione Fabrizio de André, di Dori Ghezzi e dello storico collaboratore di De André, Pepi Morgia.

Voce: Carlo Costa
Synth, minimoog, voce: Massimiliano Salani
Chitarra acustica, nylon, bouzouki, voce: Emmanuele Modestino
Chitarra elettrica, chitarra acustica, berimbeau, guitalele: Giacomo Dell’Immagine
Basso: Luca Santangeli
Flauto: Eanda Lutaj
Batteria: Alessandro Matteucci

Regia: Emiliano Galigani
Video: Domenico Zazzara
Prodotto da: Federica Moretti, Simone Giusti
Per Stage11

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Pronto, Raffaella?… ci mancherai!

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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.

E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.

La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.

Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.

Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.

Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.

Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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Duran Duran: Quei new romantic in cerca del suono della tv

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Some new romantics looking for a tv sound” recita, a un certo punto, il testo di Planet Earth, il primo successo dei Duran Duran, la band che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e, questo non lo immaginava nessuno, è ancora viva, vegeta e in ottima salute. E, a quarant’anni dall’uscita del primo album, Duran Duran (arrivò nei negozi proprio il 15 giugno del 1981) continua a fare tendenza. Se negli anni Ottanta Simon Le Bon, Nick Rhodes, John Taylor, Andy Taylor e Roger Taylor, da Birmingham, UK, idoli delle ragazzine per la loro bellezza, erano considerati alla stregua di una boyband, oggi tutti li considerano una grande band, gli artefici di un suono che ancora oggi è attualissimo, e che ha ispirato decine di gruppi che sarebbero venuti dopo di loro. I Duran Duran sono forse tra i più famosi esponenti del genere new romantic, una variante della new wave, il movimento che, in varie sfaccettature, seguì il punk.

I Duran Duran nascono già nel 1978. Sono tre studenti d’arte, John Taylor alla chitarra, Nick Rhodes ai sintetizzatori e Stephen Duffy alla voce e al basso. I tre sono compagni di scuola e amano gli artisti glam e synth pop. È proprio John Taylor a suggerire il nome per la band: si chiamerà Duran Duran ispirandosi a Durand Durand, il cattivo del film Barbarella, famoso film di fantascienza con Jane Fonda. E, se ascoltate certe linee di tastiera del primo album dei Duran, sentirete che una certa atmosfera fantascientifica c’è tutta. Nella band entrerà poi Simon Colley, al clarinetto e al basso. Ma, già dopo il terzo concerto, Duffy e Colley se ne andranno. John Taylor lascerà la chitarra per imbracciare il basso, lo strumento con cui darà un groove inconfondibile al suono dei Duran Duran. Alla batteria ci sarà il secondo Taylor, Roger. Il terzo, Andy Taylor (i tre non sono parenti) entrerà nella band come chitarrista. Alla voce ci proverà Andy Wickett, che registrerà con la band alcune demo. Ma non saranno i Duran Duran che conosciamo fino a che, con la sua voce inconfondibile, non prenderà in mano il microfono Simon Le Bon.

Il biglietto da visita con cui i Duran Duran si sono presentati al mondo è il singolo Planet Earth, quello in cui si parla di new romantic in cerca del suono della televisione. È una canzone trascinante che, ancora oggi, sembra arrivare da un altro pianeta. Ci sono i synth spaziali di Nick Rhodes, il basso incalzante di John Taylor, il ritmo sincopato della batteria di Roger Taylor che si sposa alla perfezione con i salti del basso, la chitarra ritmica rockeggiante di Andy Taylor. E poi quegli effetti sonori che sembrano evocare l’atterraggio di un elicottero, o qualsiasi altro veicolo vogliate immaginare. Magari un’astronave. È qui che sentiamo già tutte le influenze che hanno reso quello dei Duran Duran un suono unico. In quella ritmica c’è, ad esempio, il groove di Giorgio Moroder, quello, per capirci, di I Feel Love di Donna Summer. L’influenza dei Roxy Music, una band che aveva dato una propria interpretazione del glam rock, la sentiamo tutta in Girls On Film, il brano che apre l’album. Ascoltate Love Is The Drug dei Roxy Music e poi questa canzone, e capirete quanto siano importanti. E poi, ancora, ci sono gli Chic, ci sono i Japan di David Sylvian, idolo di Nick Rhodes, tanto che i due sembrano due gemelli separati alla nascita. E ovviamente David Bowie, che in qualche modo aveva lanciato il movimento new romantic nel suo video Ashes To Ashes, in cu apparivano alcune comparse prese da quella scena, tra cui Steve Strange dei Visage. Nelle linee melodiche orientaleggianti di Tel Aviv, lo strumentale che chiude il disco, ci sono degli echi di alcune canzoni del Bowie della trilogia berlinese. E nella versione Deluxe di Duran Duran, del 2010, c’è una cover di Fame (che i Duran incisero come lato B di Careless Memories), il brano, tratto da Young Americans, che Bowie registrò a metà anni Settanta insieme a John Lennon. A proposito, Duran Duran fu registrato, agli AIR Studios di Londra, proprio nel dicembre del 1980, quando da New York arrivava la notizia dell’assassinio di Lennon. Più tardi i Duran confessarono quanto fu difficile portare a termine le registrazioni dopo aver sentito quella notizia. Ma in quei giorni in quello studio c’erano proprio i Japan, i loro idoli, che stavano registrando Gentlemen Take Polaroids in fondo alla sala dello studio.

Girls On Film, il terzo singolo estratto dall’album, è stato il salto definitivo dei Duran Duran verso la fama. Merito anche di un video ad effetto, arrivato proprio nel momento in cui, grazie a MTV, il videoclip diventava allo stesso tempo una forma ad arte a sé, e il miglior veicolo promozionale per lanciare un singolo e un artista in vetta alle classifiche. Girls On Film era uno di questi video: fatto per bucare lo schermo, scandalizzare, far discutere. Era stato girato dal duo Godley & Creme, musicisti e videomaker tra i più in voga al tempo, e due settimane dopo venne lanciato negli Stati Uniti da MTV. Nel video, i Duran Duran suonano di fronte a un ring, sul quale si avvicendano una serie di numeri da nightclub: una ragazza mima un combattimento con un lottatore di sumo, un’altra simula un salvataggio da parte di un bagnino, una un massaggio e una cowgirl cavalca un uomo con una testa di cavallo. La parte più spinta è quella in cui due donne, di cui una in topless, lottano nel fango. Il video fece scandalo e molte reti televisive finirono per mandare in onda la versione alleggerita, senza la scena incriminata. Ma il video integrale venne trasmesso nei nightclub dotati di schermi video, e sulle nostre tivù musicali spesso veniva tramesso. Ma è un video che ha una sua ironia e, nonostante sia spinto, non è mai volgare. A maggior ragione se visto oggi. La potenza del suono di Girls On Film e quel video così particolare portarono l’album la terza posizione nella Top 20 inglese.

La Duranmania doveva ancora iniziare, e le ragazze che avrebbero voluto sposare Simon Le Bon anche. Da lì a poco sarebbe arrivato Rio, il secondo album, e i video esotici girati da Russell Mulcahy. Sarebbero arrivate le loro canzoni più belle e più famose, quelle che avrebbero fissato per sempre nell’immaginario il suono e l’immagine dei Duran Duran. Ma il primo album aveva forse un suono ancora più sperimentale, coraggioso, innovativo. I Duran Duran, insieme a un’altra manciata di artisti, avevano lanciato il movimento dei new romantic. Un movimento fatto di musica, come detto, ma anche di look sgargianti e sfrontati. I Duran Duran, grazie alla collaborazione con stilisti come Perry Haines, Kahn & Bell e Anthony Price, a ogni video e ogni apparizione si distinguevano per il loro abiti. Se i pantaloni sono spesso quelli di pelle tipici del rock, a volte stretti, a volte più larghi e a vita alta, i nostri vestono spesso con camicioni dalle maniche larghe e dal collo a sbuffo che sembrano usciti da un film su Casanova. Hanno vistose sciarpe attorno al collo, o strette in vita a mò di cinture, e a volte portano delle fasce annodate sulla fronte. Nel loro guardaroba ci sono quelle giubbe militari che oggi vediamo molto spesso, e il tipico giubbetto del rock, il chiodo, magari è di colore bianco, come quello che indossa Simon Le Bon nel video di Girls On Film, o blu. Gli abiti sono speso di tinte pastello, ad esempio carta da zucchero. Un classico del periodo, poi, sono le t-shirt, colorate o bianche e nere, a righe orizzontali. Il trucco sul volto è spesso deciso, pesante. E i capelli sono colorati con meches, bionde o di altri colori, e spesso dalle forme molto voluminose.

Quelle parole di Planet Earth possono suonare come “qualche nuovo romantico in cerca del segnale della tv”, o “in cerca di una sigla per la tv”. Ma ci piace leggere, in quei versi, che quei new romantic stessero cercando il suono della tv, cioè il prodotto perfetto per le nuove tivù musicali che stavano nascendo, una forma d’arte che unisse musica e immagini, canzoni e videoclip perfetti e inscindibili da essere una cosa sole nell’immaginario collettivo, suoni all’avanguardia e un look all’altezza di essi. A quarant’anni da Duran Duran, se oggi vi guardate e attorno e tenete le orecchie aperte, vedrete ancora in giro tracce del look new romantic. E, se le hit dei Duran risuonano ancora, hanno lasciato anche molte tracce sonore in canzoni di oggi e in band che, da almeno vent’anni o forse di più, in qualche modo provano a recuperare il loro suono.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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