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Dunkirk. Christopher Nolan, dal sogno all’incubo

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Se tutti noi tendiamo ormai a identificare indissolubilmente Christopher Nolan con il sogno, Dunkirk, il nuovo film in uscita il 31 agosto, è il racconto di un incubo. Un terribile incubo ad occhi aperti. Non si può che definire così l’esperienza di quasi 400mila soldati (inglesi, francesi, belgi, olandesi) intrappolati sulla spiaggia di Dunkirk, costa francese, affacciata sulla Manica, con le coste inglesi che distano poche miglia. Da un lato, le truppe tedesche che hanno sconfitto e accerchiato gli alleati. Dall’altro, il mare. La costa inglese che si può quasi vedere, ma non si può raggiungere. Per molti soldati Dunkirk è stato uno di quegli incubi in cui credi di aver trovato una via d’uscita, ma ogni volta vieni riportato al punto di partenza: credi di aver trovato il modo per andare via da quella maledetta spiaggia, ma vieni ricacciato ancora una volta là.

Nolan ha sempre amato mescolare le carte, spezzare il racconto, tradirne la linearità, provare a governare il tempo. Memento e Inception sono due esempi. Anche in quello che è il suo film più realistico fa qualcosa di simile. Divide il racconto in tre scenari, la terra, il mare e l’aria. Ogni storia ha delle durate diverse: quella sulla terra, cioè la fuga dei 400 mila soldati, affastellati su un molo stretto e lungo, alla mercé degli aerei da bombardamento tedeschi, dura una settimana. Quella del mare, e dello straordinario atto di eroismo di un gruppo di civili che prestò alla causa una serie di imbarcazioni civili e partì alla volta di Dunkirk per soccorrere i propri connazionali (le navi militari non potevano avvicinarsi alla spiaggia), dura un giorno intero. La storia che vive nel cielo, dove un gruppo di Spitfire parte dall’Inghilterra alla volta delle coste francesi per abbattere gli aerei tedeschi che, a loro volta, stanno bombardando i soldati inglesi sulla spiaggia, è un raid che dura un’ora. Sullo schermo questi tre elementi – acqua, terra, aria – dialogano continuamente tra loro e hanno lo stesso spazio. Nolan gioca con il tempo dilatando certi avvenimenti e comprimendone altri, mentre le tre storie procedono in montaggio alternato con un ritmo crescente.

Alfred Hitchcock diceva che, se sappiamo che sotto il tavolo c’è una bomba che sta per esplodere, non importa chi ci sia su quel tavolo, ma noi stiamo con il fiato sospeso. È il meccanismo della suspence. Sulla costa francese le bombe che stanno per esplodere, in arrivo dal cielo, sono centinaia. E noi teniamo molto a chi sta su quella spiaggia, perché sappiamo che il nostro mondo, così come è oggi, dipende anche da loro. La suspence è altissima, ed elevata all’ennesima potenza. L’immagine simbolo di Dunkirk è fatta da quelle facce rivolte verso l’alto, in attesa del pericolo, di centinaia di soldati, stipati, senza potersi muovere, su quel molo, l’ultimo braccio della terra proteso verso il mare in cerca di un appiglio di salvezza. Ragazzi indifesi come cuccioli in balia di qualche uccello predatore. Nolan si concentra su alcuni personaggi chiave, in grado di rappresentare la collettività – due soldati, e poi un terzo, che cercano di mettersi in salvo con ogni mezzo, un padre e un figlio, con un assistente, che prendono la loro barca privata e partono verso i lidi francesi, due piloti di caccia inglesi e un ufficiale della marina – li fa parlare pochissimo, ma mette in scena le loro paure con i loro volti, i loro corpi, accentuando tutto con i rumori e i suoni della guerra.

Per questo, e per altri motivi, Dunkirk è il “negativo” – e quindi un’opera complementare – di un classico di guerra come Salvate il Soldato Ryan di Steven Spielberg. Non solo perché il film del maestro americano metteva in scena la carneficina con estremo realismo mentre l’autore inglese lascia da parte il sangue e i corpi martoriati per concentrarsi – come è nelle sue corde – sulla psiche, sulle paure e le speranze dei soldati. Ma anche perché racconta una ritirata, ma vincente per come ha messo in salvo tante vite umane, quando il film di Spielberg racconta uno sbarco, glorioso ma tremendamente sanguinoso in fatto di vite umane sacrificate. A pochi chilometri di distanza, Omaha Beach e Dunkirk sono l’inizio della fine della guerra e la fine dell’inizio del dominio tedesco sull’Europa.

Sin dal suo esordio, Christopher Nolan ha giocato con il vedere e il non vedere. Era incentrato sul riuscire a vedere nel proprio passato (cioè ricordare) Memento, e sul vedere o meno, letteralmente, la realtà il suo film seguente, Insomnia. Il non vedere, o il non voler vedere, era la chiave di The Prestige, dove il trucco del prestigiatore non è visto (o non vuole essere visto) dal suo pubblico, ed è lo stesso patto che facciamo noi ogni volta che andiamo al cinema. In Dunkirk questo tema torna molte volte. Da quella scogliera inglese, che rappresenta la salvezza, che quasi si vede, ma non si può raggiungere, a quell’aereo nemico che appare e scompare dal campo visivo dei nostri piloti. Fino a quella barca occupata da alcuni soldati in attesa che si alzi la marea, presa a mitragliate dall’esterno, dove i soldati, chiusi nel buio della stiva, non vedono altro dell’esterno che la luce, e l’acqua, che entrano dai fori delle pallottole nello scafo. Ma, soprattutto, quello che accadde a Dunkirk fu un vedere nel futuro: non per i soldati coinvolti, che credevano di tornare in patria come degli sconfitti, ma per i civili, e poi i governanti, che capirono come salvare più vite possibile sarebbe stato il primo atto di una vittoria futura.

È un cineasta fuori dal comune Christopher Nolan. Non è da tutti oggi fare film orgogliosamente alla vecchia maniera, in pellicola, tutti girati in location (e in gran parte questo è filmato sulla vera spiaggia di Dunkirk, il che ha permesso di cogliere l’anima della Storia), e con pochissimi effetti speciali al computer. E non è da tutti oggi fare un film su una sconfitta, anche se, si badi bene, non si tratta di una resa. In un mondo come quello di oggi dove nessuno ammette i propri errori, raccontare come possa essere giusto capire una sconfitta e il momento giusto per tornare indietro è qualcosa di davvero importante. E, a proposito di sconfitti, un pensiero va a poche miglia da Dunkirk, a Calais, dove oggi migliaia di sconfitti, che però non si sono arresi, sperano in una barca che li salvi e che li porti a una vita migliore. Non è nelle intenzioni del film raccontarlo, ma nell’arte e nella vita tutto torna e tutto è collegato. E quell’Europa che decine di anni fa si unì per sconfiggere razzismi e totalitarismi, se vedrà Dunkirk, anche oggi avrà modo di riflettere.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Conseguenze d’amore: Meg Ryan torna regina della commedia romantica… è sempre lei, ma è cambiata

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Si chiama Conseguenze d’amore, nella sua versione italiana, il nuovo film scritto, diretto e interpretato da Meg Ryan, dall’11 aprile al cinema, con un gioco di parole su una storia che parla di aerei perduti e coincidenze mancate, e conseguenti incontri. What Happens Later è invece il titolo originale del film, e ci dice molto di più. Significa “che cosa accade dopo”, “che cosa accade più tardi”. E il nuovo film di Meg Ryan, per la prima volta in veste di sceneggiatrice e regista oltre che di protagonista, è infatti una tenera e intrigante storia d’amore tra due persone mature, sulla sessantina. Un’età che raramente viene raccontata per quanto riguarda gli innamoramenti, ed è un peccato. Il nuovo film di Meg Ryan ci dice che ci si può innamorare ancora, anche a quell’età. Un’età che porta con sé rimorsi e rimpianti, sogni infranti e treni persi. Ma anche, volendo, una vita ancora tutta da vivere.

Interno, notte. I New Radicals cantano You’re Gonna Get What You Give, hit di fine anni Novanta. Un cartellone fa pubblicità a un film che si chiama Rom Com, preannunciando che ci troviamo in una commedia romantica. Siamo nella sala d’attesa del terminal di un aeroporto, non luogo e limbo per eccellenza. Un uomo e una donna cercano entrambi una presa per ricaricare il loro smartphone. Poi si incontrano, si presentano. Capiamo subito che si conoscono già. Entrambi si chiamano W. Davis. Sì, capiamo ben presto che i due sono stati insieme. Che sono stati innamorati. E che la loro è stata davvero una storia importante. E che non si vedono da 25 anni. E ora?

W. Davis, cioè Wilhelmina, o Willa, è Meg Ryan, la storica reginetta delle commedie romantiche che abbiamo amato sin dal primo giorno. W. Davis, cioè William, alias Bill, è David Duchovny, che invece le commedie romantiche le ha frequentate poco. Lo conosciamo per due iconici ruoli in serie tv, l’enigmatico Fox Mulder di X-Files e il lascivo Hank Moody di Californication. Li ritroviamo dopo che non li avevamo mai immaginati insieme, lei nel suo terreno, lui in un territorio nuovo. Invecchiati, stropicciati, come i loro personaggi: Willa zoppica per un dolore all’anca. Bill soffre d’ansia anticipatoria.

È soprattutto strano rivedere, all’inizio, il volto di Meg Ryan su un grande schermo. Già anni fa era stata criticata per gli interventi di chirurgia estetica sul suo viso. Il tempo ha fatto la sua parte, le rughe sono comparse sul suo volto e la rendono interessante. Ma quelle labbra turgide la rendono qualcosa che sta a metà tra una donna della sua età e una donna più giovane, un ibrido difficile da definire. È una sensazione che dura poco, però. Non appena la bocca si apre in un sorriso dei suoi, inconfondibili, carichi di dolcezza, i dubbi svaniscono. Abbiamo ritrovato Meg Ryan. Per David Duchovny, invece, il tempo sembra non essere affatto passato. Qualche lieve ruga di espressione sulla fronte. Qualche capello bianco che stria le tempie. Abbiamo visto il nuovo film in lingua originale – fatelo anche voi, se potete – e abbiamo notato una cosa. Che questi due attori non li avevamo mai sentiti con le loro voci originali, ma sempre doppiati. E le loro voci, lo scopriamo adesso, sono profonde, sfaccettate, cariche di sfumature, e affascinanti.

Meg Ryan e David Duchovny riescono così, facilmente, a trascinarci dentro la storia. Che prova a rispondere a una domanda non banale. Che cosa accade quando ci si lascia e passano 25 anni? Ci si ricorda tutto o non si ricorda niente? Si ricorda la propria vita a sprazzi, secondo quello che è rimasto impresso. Ma pian piano tutto riaffiora. Si ricorda di aver provato a scrivere canzoni, di essere stati idealisti. “Ascolta i poeti, non ascoltare i politici”. Di aver creduto nei Pearl Jam, nei Pixies e nei Soundgarden più che in qualunque altro. Di aver fatto quel gioco in cui, per conoscere l’altro, ci si scambiava il portafoglio con tutto quello che c’era dentro. Altro che smartphone.

Coincidenze d’amore è un film tutto parlato, sussurrato, recitato. È un film di scrittura, di quelle scritture efficaci, quasi perfette, ma a loro modo sincere. Perché tra le pieghe dei dialoghi c’è della vita, e si sente. È un film su quegli incontri che segnano una vita, su quelle notti che contengono dentro tutte quelle che verranno, una sorta di Prima dell’alba in età matura. È un film con dei tempi recitativi perfetti, con movimenti nello spazio perfetti. Fate caso al fatto che i due, in quel limbo che è il terminal, mantengano le distanze a livello fisico, provando così a mantenere le distanze anche a livello sentimentale. Avvicinarsi, riavvicinarsi, può far male. E allora provano a difendersi l’un l’altro.

A livello di regia, se la direzione degli attori e il loro movimento negli spazi è perfetto, è forse inutile qualche vezzo che Meg Ryan si concede. Come la trovata della voce degli annunci che sembra parlare direttamente a loro e diventare così un “coro” agli eventi che accadono, o alcune immagini del passato che appaiono sui video del terminal, o quel cuore alla fine. Degli elementi magici che non aggiungono molto alla storia e che non sarebbero serviti. Ma è un ornamento inutile, e in fondo innocuo, che non toglie molto all’atmosfera del film.

E così la regina delle commedie romantiche è tornata. Ma è cambiata, e non solo fisicamente. A cambiare sono i suoi personaggi. La sua W. Davis è diversa dalle altre sue eroine, e non potrebbe essere altrimenti, vista l’età. È un personaggio più cinico, più disincantato. Ma ha sempre una sua dolcezza. Finisce con Tom Petty che canta Learning To Fly. “Sto imparando a volare, ma non ho le ali”. Ed è perfetto per raccontare la malinconia della nuova Meg Ryan.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Priscilla: Graceland è come Versailles, Sofia Coppola ci racconta la giovane moglie di Elvis, regina senza un regno

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I piedi da bambina, con le unghie dipinte di rosso, si muovono su una moquette rosa. Un eyeliner trucca in modo pesante due occhi bellissimi, allungandoli, come si usava negli anni Sessanta. È così che inizia Priscilla, il nuovo film di Sofia Coppola, presentato alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia, e in uscita al cinema il 27 marzo. Priscilla è la storia della sposa bambina di Elvis Presley, prodotta dalla stessa Priscilla Beaulieu e tratta dal suo romanzo. È il controcampo di Elvis, il film di Baz Luhrmann sul Re del rock, con la macchina da presa costantemente sulla moglie, e Presley sempre di lato, in secondo piano, forse sminuito anche troppo. Quello che conta è che Priscilla è una nuova storia al femminile di Sofia Coppola, perfettamente in linea con la sua poetica.

Quando l’adolescente Priscilla Beaulieu (Cailee Spaeny) incontra a una festa Elvis Presley (Jacob Elordi), l’uomo, che è già una superstar del rock’n’roll, nel privato le si rivela come qualcuno di completamente diverso: un amore travolgente, un alleato nella solitudine e un amico vulnerabile. Attraverso gli occhi di Priscilla, Sofia Coppola ci racconta il lato nascosto di un grande mito americano, nel lungo corteggiamento e nel matrimonio turbolento con Elvis. Una storia iniziata in una base dell’esercito tedesco e proseguita nella sua tenuta da sogno a Graceland. Una storia fatta di amore, sogni e fama.

“Ti piace Elvis Presley?” “Ovvio, a chi non piace”. Immaginate di essere una ragazzina del liceo, in un paese straniero, in Germania, e di sentirvi chiedere da un impresario se volete venire a una festa a casa di Elvis. Immaginate le emozioni che agiterebbero chiunque. Ed è proprio questo che capita alla giovanissima Priscilla, un prisma di sensazioni che vanno dal timore, al desiderio, alla volontà di non deludere i genitori protettivi che, giustamente, sono preoccupati per una relazione con un uomo più grande, e di tale fama. Per Priscilla sarà un viaggio dentro a un sogno. Un sogno da cui, più volte, si desterà bruscamente.

Non è tutto oro ciò che luccica. E anche Elvis, il Re del rock, visto da vicino non è quell’uomo che appare al pubblico adorante di tutto il mondo. Già quando lo vediamo per la prima volta, alla famosa festa, ha una camicia bianca e un cardigan, ed è molto lontano dagli abiti scintillanti di scena a cui siamo abituati e che ha riportato l’Elvis di Baz Luhrmann. Ma non si tratta solo di questo. Se Elvis è stato una delle voci più belle e potenti della storia della musica, l’uomo che vediamo in Priscilla biascica le parole, parla a monosillabi, non fa altro che dormire stordito da ogni tipo di tranquillante. È un uomo violento. O meglio. È un uomo a cui, da sin da giovane, nessuno ha mai detto di no (tranne che, ovviamente, il colonnello, il suo manager), e che crede di poter fare di ogni persona quello che vuole. Così, per lui, Priscilla non è nemmeno una persona. È il suo giocattolo, la sua bambola, una a cui dire come vestirsi e come portare i capelli. E, quel che è più grave, un gioco da riporre ogni volta che ci si è stancati di giocarci.

Priscilla è un film che vive di contrasti. Il Re del rock e la liceale. L’uomo e la bambina. La differenza di statura tra i due attori, Jacob Elordi e Cailee Spaeny, è notevole. Al cinema, si sa, la cosa si può colmare con diversi trucchi. Eppure Sofia Coppola non fa nulla per nascondere la differenza di altezza tra i due. Quasi che volesse, in quel modo, marcare una distanza incolmabile, un dislivello che nasce dai ruoli, dalla fama, dalla ricchezza. Ma, soprattutto, dal genere.

Sì, la discriminazione di genere è un fattore importante in questo film. Che è il solito film di Sofia Coppola, ma il messaggio destinato al maschilismo tossico stavolta è molto più deciso ed esplicito che in altri film, dove era solo un sottotesto. L’Elvis che vediamo in Priscilla è un uomo violento, maschilista, un uomo che gira con le pistole in tasca e prende ogni decisione per sé e per la propria compagna. Il casting del film non è un caso: per il ruolo di Elvis Sofia Coppola ha scelto Jacob Elordi, che nella serie Euphoria è Nate Jacobs, ragazzo violento e dominante. Porta un po’ di quel personaggio e di quest’aura anche qui, e la cosa è funzionale al messaggio. Un altro momento che ci ha fatto riflettere, è quella scena, a un certo punto del film, in cui tre uomini (Elvis, il padre di Priscilla e un altro), si riuniscono a un tavolo, in salotto, a parlare di Priscilla e della sua relazione con Elvis. È la sua vita, parlano di lei, ma sono solo uomini. E lei, con la madre, è fuori, che aspetta in cucina e non può sentire niente. Cailee Spaeny è un volto perfetto per esprimere la gioventù, l’ingenuità, lo smarrimento. È destinata a diventare la prossima star di Hollyood: sentiremo ancora parlare di lei.

La vita di Elvis, la sua carriera, scorrono lateralmente al film, con il Comeback Special televisivo del 1968 e quell’iconico abito tutto in pelle nera. O la prigione dorata di Las Vegas, con la famosa tuta bianca che appare nel salone di Graceland al momento di una prova costumi prima di iniziare l’avventura. O, ancora, con i numeri nei film con Ann Margret, e le voci su una possibile storia d’amore. Si vede la sua relazione malata con le medicine, che lo avrebbe portato alla morte, un rapporto che inizia quando Elvis è ancora giovane. Ma il ritratto della star, per quanto voglia mostrarne il lato oscuro, ci sembra a volte eccessivo. Elvis è comunque un mito: mostrarlo come un tipo quasi afasico, che si esprime a monosillabi, continuamente intontito forse è ingeneroso.

Sofia Coppola, da canto suo, continua a girare sempre lo stesso film, ogni volta con sfumature diverse. Le sue sono sempre storie di giovani donne chiuse in prigioni dorate. Quella di Sofia Coppola, lo sappiamo, è stata la Hollywood degli anni Ottanta. Che così, in una sorta di transfert verso altri personaggi, è diventata la Versailles di fine Settecento di Marie Antoinette e adesso la Graceland di Priscilla. Priscilla Beaulieu è un’altra Maria Antonietta, una regina senza regno, e senza un vero re al suo fianco. È ancora l’annoiata moglie di un uomo che sembra interessato a tutt’altro. Così i fuochi d’artificio esplodono a Graceland come a Versailles, ma sono un fuoco fatuo, vuoto. Un paesaggio stato d’animo  al contrario di ragazze che, ancora una volta, sono lost in translation, non riescono a comunicare con chi hanno vicino.

di Maurizio Ermisino pert DailyMood.it

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May December: Natalie Portman, Julianne Moore e le vite degli altri

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“Every artist is a cannibal, every poet is a thief”. “Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro”. Così cantavano gli U2 in The Fly. Ed è questo quello che accade, alla fine, in May December, il nuovo film di Todd Haynes con Natalie Portman e Julianne Moore, presentato allo scorso Festival di Cannes e in uscita al cinema il 21 marzo, dopo una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Abbiamo usato queste parole perché il film di Todd Haynes è un moderno mélo, ma soprattutto una riflessione sul lavoro dell’attore e sul suo modo di avvicinarsi a un ruolo, una storia, una persona. In questo senso Natalie Portman è straordinaria e Julianne Moore è il suo perfetto specchio. E viceversa.

Rivivere uno scandalo

Elizabeth (Natalie Portman) è una famosa attrice, ed è intenzionata a realizzare un film sulla storia vera di una coppia, Gracie (Julianne Moore) e Joe (Charles Melton), la cui relazione clandestina aveva infiammato la stampa scandalistica e sconvolto gli Stati Uniti vent’anni prima. Gracie, già adulta e sposata con figli, aveva avuto una relazione con un dodicenne, e per questo era finita anche in carcere. La cosa sorprendente è che, una volta uscita, Gracie aveva sposato il ragazzo e avuto dei figli con lui. Per prepararsi al suo nuovo ruolo Elizabeth entrerà nella loro vita rischiando di metterla in crisi.

Né vergogna, né dubbi, né rimorsi. Ma…

Quello che colpisce Elizabeth, e anche noi, mentre il film procede, è l’estrema tranquillità nella vita di Gracie. È una normalità così cercata, e così ostentata, da risultare costruita. E che fa pensare al fatto che possa nascondere una serie di crepe profonde dietro la facciata lucida e patinata. “Non sembra mostrare alcun senso di vergogna, né dubbi, né rimorsi” dice di lei Elizabeth. Da un lato, la vita di Gracie sembra quella di una donna pacificata. Dall’altro c’è in lei un mistero, un rimosso, un non detto. Un senso di vergogna che è stato chiuso in un cassetto per poter continuare a vivere. Ma quel cassetto sarà aperto?

Natalie Portman, star e detective dell’anima  

Elizabeth, cioè Natalie Portman, in May December, ha un doppio ruolo. Da un lato è l’attrice, la diva, la star. Ma dall’altro è l’investigatrice. Per prepararsi al film, infatti, indaga, e questo fa sì che sia la nostra detective. Il film funziona come un’indagine, un giallo senza delitto e senza colpevoli, in cui cercare però l’anima dei personaggi e la verità dei fatti. Ed Elizabeth è il nostro punto di ingresso nella storia. È il narratore non onnisciente, colei che scopre le cose man mano che la storia va avanti e ce le racconta. Così, come in un romanzo di questo tipo, anche noi le scopriamo insieme a lei, a poco a poco.

Le vite degli altri

Per questo May December è un moderno mélo, come è nelle corde di Todd Haynes, ma è anche una riflessione sul lavoro dell’attore. Il lavoro dell’attore è indagine, è studio, è approfondimento. Ma, allo stesso tempo, è anche immedesimazione, è ingresso nella vita di qualcun altro, è rubare dei pezzi di un’esistenza. Ma quanto è necessario immedesimarsi in un ruolo? Fino a che punto è necessario diventare qualcun altro? Qual è il momento in cui bisogna fermarsi? E così ci chiediamo, man mano che il racconto procede, perché Elizabeth si immedesimi così tanto in Gracie, perché entri così tanto nella sua vita. Lo fa per il suo lavoro o per qualche altra ragione?

Sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo?

A proposito di lavoro dell’attore, May December spiega, come pochi altri film, quello che davvero accade ogni volta che un attore sul set affronta una scena di sesso. È ancora Natalie Portman, nei panni di Elizabeth, a raccontarlo, durante una lezione. Uno studente le chiede che cosa si provi, che cosa accada davvero sul set in quei momenti. E lei lo spiega, con una sincerità rara. All’inizio pensi al fatto che sia come una coreografia, con dei passi e delle mosse da seguire. Ma dopo essere stati ore e ore l’uno accanto all’altra, nudi, ti rendi conto che nasce un feeling, qualcosa che non diresti mai al tuo partner nella vita. E ti fa chiedere: sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo? E alla fine ti lasci andare al ritmo.

Natalie Portman e Julianne Moore, intimità allo specchio

A proposito del lavoro dell’attore, dell’immedesimazione, dell’intimità, c’è una scena in particolare che racchiude tutto il senso di May December. È quella in cui Elizabeth e Gracie, Natalie e Julianne, si trovano l’una di fronte all’altra, allo specchio, al trucco. Elizabeth cerca di diventare Gracie, e lei la aiuta. Entrambe fissano prima lo specchio e guardano in macchina, guardano verso di noi. Poi si girano l’una verso l’altra, di fonte, e Gracie trucca Elizabeth come se truccasse se stessa, le acconcia i capelli come li porta lei. E così, guardando la sua emula, è come se si guardasse a sua volta allo specchio, come se parlasse con se stessa. E si confida, si apre come non aveva ancora fatto prima.

Un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi

Il film è una sfida di bellezza e di bravura, un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi. Julianne Moore è in scena con i suoi colori tipici. I proverbiali capelli rossi qui sono schiariti e tendono al biondo. La pelle è chiarissima e lattiginosa, e le dona un’aria quasi nobile, insieme a un’aura di purezza, quella che Gracie vuole mantenere nella sua vita. Le labbra sottili sono fisse in un lieve e costante sorriso arcaico e un po’ forzato. I suoi occhi si stringono quando sorride. Ma quando il suo volto si scioglie finalmente in un pianto, con il volto arrossato, quando la torre d’avorio crolla, Julianne Moore è credibilissima, reale, palpabile.

Natalie Portman, gli occhi della curiosità

Natalie Portman ha la sua aura inconfondibile, la pelle diafana, il fisco tonico e minuto. A quarantadue anni è ancora un’eterna ragazzina, è ancora la Mathilda di Leon, è davvero cambiata pochissimo. Entra in scena con un leggerissimo abito di cotone bordeaux, i grandi occhiali da sole neri e un cappello di paglia a tesa larga. “Pulita, fresca”, la definiscono, ed è così. Le basta quel volto per conquistare. E invece Natalie Portman non è solo quello. È bravissima a mostrare imbarazzo con la sua bocca, con sorrisi un po’ forzati, con movimenti impercettibili dei muscoli facciali. Ma il centro di tutto sono i suoi occhi castani, da cerbiatto, pieni di luce, ma anche e soprattutto di curiosità. Ed è questa la chiave del suo personaggio, e del lavoro dell’attore in generale. I suoi occhi studiano, scrutano, entrano nelle vite degli altri. È allo stesso tempo contenuta e seducente.

Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro

Sì, ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro. Un attore è un artista e un poeta. Ed è così che fa Elizabeth. Alla fine ruba i segreti dell’altra donna, quelli che le sono stati concessi e quelli che non lo sono stati: fate attenzione a quella lettera che, a un certo punto, esce da quel cassetto. E così, insieme a quella scena allo specchio, tutto il film è anche in quel monologo in sottofinale, in cui guarda in macchina. E poi in quel finale, sul set, ormai con il trucco e l’abito di scena. Elizabeth, dopo aver vissuto anche troppo la vita del suo personaggio, la mette in scena. E vuole rifare la scena tre volte. Fino a che raggiunge la perfezione. Fino a che Elizabeth è Gracie. E fino a che Natalie Portman diventa così Julianne Moore. Un cortocircuito, un’attrice che si specchia in un’altra. Un gioco complicato e affascinante.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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