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Oppenheimer: Il moderno Prometeo che sfidò gli Dei raccontato da Christopher Nolan

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“E ora sono diventato la morte. Il distruttore di mondi”. J. Robert Oppenheimer legge queste parole, quelle del Bhagavadgītā, testo sacro dell’induismo, durante un amplesso con la sua amante Joan. Le pronuncerà ancora, durante il Trinity Test, venti giorni prima che la bomba atomica venisse sganciata, per la prima volta, su Hiroshima, in Giappone. È una delle frasi chiave di Oppenheimer, l’attesissimo film di Christopher Nolan in uscita in Italia il 23 agosto. Il film si basa sul libro vincitore del Premio Pulitzer Robert Oppenheimer – Il Padre della Bomba Atomica di Kai Bird e di Martin J. Sherwin. Quel libro, nella sua edizione originale, è intitolato American Prometheus: The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer. E il film di Christopher Nolan è questo, la storia di un moderno Prometeo che sfidò gli Dei e portò all’umanità un fuoco enorme e distruttivo. E portò la morte sulla terra come nessuno prima. Prometeo fu punito dagli Dei. J. Robert Oppenheimer sarebbe stato punito dall’uomo, con un’inchiesta e con l’emarginazione. Ma la vera punizione sarebbe stato un infinito senso di colpa. La sensazione di avere le mani coperte di sangue, come avrebbe dichiarato al presidente Truman. Nelle mani di Christopher Nolan Oppenheimer diventa un film enorme, maestoso, complesso, il ritratto di una figura controversa, con mille sfaccettature, un film che si prende il tempo e lo spazio per raccontarle tutte. È anche un film duro con un’America che, già allora, sognava una pace duratura e pensava di ottenerla con una prova di forza e portando morte come l’uomo non aveva mai fatto prima.

  1. Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica

Oppenheimer è un thriller storico che catapulta il pubblico nell’adrenalinico paradosso dell’enigmatico uomo che per salvare il mondo è costretto a metterlo a rischio. J. Robert Oppenheimer, noto a tutti come il padre della bomba atomica, è il brillante scienziato dietro all’invenzione che ha sconvolto il mondo, un’invenzione che avrebbe potuto rimodellare il concetto di civiltà come minacciare definitivamente il futuro dell’umanità. È stata un’invenzione, spiega il film, che sotto l’egida di Oppenheimer ha visto lavorare centinaia di persone. La bomba atomica ha preso vita dalle sue idee, ma è nata attraverso il lavoro e le scelte di tante persone, scienziati e poi politici. La storia è raccontata su vari spazi temporali, partendo dai suoi studi di fisica in Europa e introducendo una serie di personaggi che all’inizio ci stordiscono e ci confondono. Ma che non sono altro che quei legami tra elementi che porteranno a quella “reazione a catena” che è stata la nascita della bomba atomica. Un’impresa fatta sì di teorie ed esperimenti, ma anche di rapporti umani, relazioni, scelte e dubbi amletici.

Una visione da incubo

L’esplosione atomica a Hiroshima e Nagasaki nel film non si vede mai. Ma quelle deflagrazioni devastanti sono ovunque. Immaginate, sognate, evocate. E poi portate per sempre dentro di sé come un incubo, un fantasma. In questo senso è emblematica la scena in cui Oppenheimer annuncia alle persone che vivono a Los Alamos (la cittadina costruita appositamente per gli esperimenti sulla bomba) dell’attacco alle due città dei Giappone. Oppenheimer viene accolto con battimani e battipiedi, nell’aria c’è euforia. Ma, mentre parla al pubblico, in sottofondo cominciamo ad avvertire i rumori sinistri dell’esplosione, il crepitio delle fiamme. Poi nella stanza arriva il bagliore accecante creato dal fuoco e le ustioni cominciano ad apparire sulla pelle dei presenti. È una visione da incubo in cui le conseguenze della bomba passano per la mente dello scienziato e arrivano ai nostri occhi. Non sappiamo se, nel momento di fare quel discorso, Oppenheimer sapesse già degli effetti precisi della bomba. O se li avrebbe saputi poco dopo. Quella sequenza vuole raccontarci che, anche lontano da Hiroshima e Nagasaki, anche stando dalla parte dei vincitori, Oppenheimer sarebbe stato tormentato da quelle immagini, dai sensi di colpa. E quelle immagini sarebbero arrivate in tutto l’Occidente, in tutto il mondo. Sarebbero state fissate nella memoria, a mò di monito e come esempio di barbarie, studiate nelle scuole.

Christopher Nolan: vedere e non vedere

Quelle immagini le avrebbero viste solo dopo, ovviamente, i creatori di quel mostro che è stata la bomba atomica. Le avrebbero viste, a cosa fatte, i cittadini di tutto il mondo. Il cinema di Christopher Nolan è stato sempre centrato sul vedere e sul non vedere: non vedere nel proprio passato (Memento), non vedere – letteralmente – il presente, il mondo davanti a sé (Insomnia), non vedere l’artificio, il trucco che c’è dietro l’arte, e quindi il cinema (The Prestige). Oppenheimer è la storia di un uomo che voleva provare a vedere nel futuro, sognando un’arma che potesse mettere fine a tutte le guerre, ma che non riuscì a vedere completamente le conseguenze. “Immaginiamo un futuro e le nostre visioni ci fanno paura”, dice a un certo punto del film.  A proposito di vedere e non vedere, una delle scene chiave è l’esplosione della bomba atomica. Non quella delle città giapponesi, ma la prima in assoluto, quella del test Trinity, a Los Alamos, nel deserto. A parte un attimo, la vediamo prima negli occhi di chi guarda, le persone presenti al test. Vediamo il loro stupore, la meraviglia, l’euforia. Si sono messi gli occhiali scuri, i vetri oscurati davanti agli occhi, si sono nascosti dietro le finestre i dietro un parabrezza. Ma non riescono a non guardare. Solo dopo averla vista attraverso i loro volti vediamo l’esplosione, il fuoco indimenticabile. Altissimo, denso, montante. Inarrestabile.

Christopher Nolan: questione di tempo

E ancora una volta, come sapete, il cinema di Nolan ha a che fare con il tempo. In Oppenheimer, in tutta la parte centrale del film, percepiamo la nascita della bomba atomica come una sfinente corsa contro il tempo. Sentiamo continuamente il confronto con i tedeschi, che stanno lavorando a un’arma simile. E così sentiamo spesso quel “siamo in ritardo di 12 mesi, di 18 mesi, di 2 anni. A proposito di tempo, anche se rispetto a Inception, Tenet o Interstellar appare un film quasi lineare, per Oppenheimer Nolan non rinuncia a girare il film su più piani temporali: sono tre, girati con tre stili diversi. La narrazione più lineare, quella che segue Oppenheimer dai suoi studi di gioventù in Europa, in Inghilterra e poi in Germania, grazie alla straordinaria fotografia di Hoyte Van Hoytema, è colorata con colori più ottimistici, quasi dorati e bluastri, per poi desaturarsi man mano che si arriva alla creazione dell’atomica, con i colori brulli del deserto, in attesa che i gialli e i rossi del fuoco prendano il sopravvento. È il racconto principale, seguito dal suo punto di vista. Poi ci sono i momenti successivi al progetto Manhattan, che sono visti da una prospettiva esterna. Quelle con al centro Lewis Strauss, prima suo sostenitore e poi oppositore, un altro dei protagonisti della politica nucleare degli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale. Queste scene, che in gran parte si svolgono durante un dibattito pubblico, sono girate in bianco e nero, quello della tv del tempo e delle immagini fotografiche: è come se stessimo assistendo a quelle scene attraverso la documentazione di un media dell’epoca. E poi c’è l’udienza in cui Oppenheimer arriva al cospetto del senatore McCarthy, che lo accusa per le sue passate simpatie comuniste, che è a girata con immagini a colori, ma volutamente grigie, ordinarie. A Oppenheimer non si voleva dare una tribuna, ma un’udienza che sembrasse burocratica.

Come in Inception, nella mente e nei sogni del protagonista

Oppenheimer è un film che non rinuncia a sequenze interiori e oniriche. Come in Inception, in qualche modo ci vuole portare nella mente e nei sogni del protagonista. Che, in questo caso, sono sogni ad occhi aperti, speranze e poi rimpianti. Ci sembra forse il film più classico di Christopher Nolan: a tratti sembra essere uno di quei grandi film anni Quaranta, ed è girato in modo da sfruttare tutta la potenza evocativa del cinema, i grandi spazi, le immagini ad effetto. È un film che vive del contrasto tra la natura selvaggia, brulla, solitaria e la fredda tecnologia, l’acciaio, i macchinari, i fili elettrici. È un biopic senza esserlo, un film storico, un thriller dell’anima.

Un film da vedere al cinema

Oppenheimer è soprattutto un film che va visto al cinema, per apprezzare le immagini stordenti, ma anche per farsi avvolgere da un racconto che distilla una serie di informazioni alle quali solo in sala possiamo dare la giusta attenzione. È un film che, come abbiamo detto, innesca una reazione a catena che nella prima parte prepara alla deflagrazione finale. La seconda parte, oltre a portarci all’esplosione, è anche interessantissima perché ci porta dentro una serie di riflessioni pratiche e politiche. Perché sganciare la bomba lo stesso, anche se la Germania si è arresa? Come scegliere le città giapponesi dove sganciarla? E perché due città?

Grandi attori: Cillian Murphy, Robert Downey Jr., Florence Pugh

Oppenheimer è anche un film di grandi attori. Oppenheimer è Cillian Murphy, attore feticcio di Nolan. Tutto il film gira intorno ai suoi occhi chiari, occhi come sfere di cristallo in grado di vedere il futuro, come credeva lui. Il suo antagonista, Lewis Strauss, è un monumentale Robert Downey Jr., finalmente lontano dagli orpelli di Iron Man e Tony Stark, che vediamo in tutta l’espressività di quel volto maturo, solcato da qualche ruga profonda, e di quegli occhi profondi, intensi. In un cast stellare (Matt Damon, Gary Oldman, Kenneth Branagh, Emily Blunt) a spiccare sono la bellezza sfrontata e i modi bruschi di Florence Pugh, che è l’amante del protagonista, e porta in scena con coraggio il suo corpo tonico in alcune ardite scene di nudo.  Sono tutte particelle che, nel cinema di Nolan, si scontrano dando vita alla reazione a catena che è questo deflagrante film.  Un film sull’ingenuità dell’uomo che, per dare vita a una pace duratura, creò la più terribile arma di distruzione e di morte. “Una volta usata ogni guerra diventa impensabile” era quello che pensavano Oppenheimer e i suoi. È andata in un altro modo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Conseguenze d’amore: Meg Ryan torna regina della commedia romantica… è sempre lei, ma è cambiata

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Si chiama Conseguenze d’amore, nella sua versione italiana, il nuovo film scritto, diretto e interpretato da Meg Ryan, dall’11 aprile al cinema, con un gioco di parole su una storia che parla di aerei perduti e coincidenze mancate, e conseguenti incontri. What Happens Later è invece il titolo originale del film, e ci dice molto di più. Significa “che cosa accade dopo”, “che cosa accade più tardi”. E il nuovo film di Meg Ryan, per la prima volta in veste di sceneggiatrice e regista oltre che di protagonista, è infatti una tenera e intrigante storia d’amore tra due persone mature, sulla sessantina. Un’età che raramente viene raccontata per quanto riguarda gli innamoramenti, ed è un peccato. Il nuovo film di Meg Ryan ci dice che ci si può innamorare ancora, anche a quell’età. Un’età che porta con sé rimorsi e rimpianti, sogni infranti e treni persi. Ma anche, volendo, una vita ancora tutta da vivere.

Interno, notte. I New Radicals cantano You’re Gonna Get What You Give, hit di fine anni Novanta. Un cartellone fa pubblicità a un film che si chiama Rom Com, preannunciando che ci troviamo in una commedia romantica. Siamo nella sala d’attesa del terminal di un aeroporto, non luogo e limbo per eccellenza. Un uomo e una donna cercano entrambi una presa per ricaricare il loro smartphone. Poi si incontrano, si presentano. Capiamo subito che si conoscono già. Entrambi si chiamano W. Davis. Sì, capiamo ben presto che i due sono stati insieme. Che sono stati innamorati. E che la loro è stata davvero una storia importante. E che non si vedono da 25 anni. E ora?

W. Davis, cioè Wilhelmina, o Willa, è Meg Ryan, la storica reginetta delle commedie romantiche che abbiamo amato sin dal primo giorno. W. Davis, cioè William, alias Bill, è David Duchovny, che invece le commedie romantiche le ha frequentate poco. Lo conosciamo per due iconici ruoli in serie tv, l’enigmatico Fox Mulder di X-Files e il lascivo Hank Moody di Californication. Li ritroviamo dopo che non li avevamo mai immaginati insieme, lei nel suo terreno, lui in un territorio nuovo. Invecchiati, stropicciati, come i loro personaggi: Willa zoppica per un dolore all’anca. Bill soffre d’ansia anticipatoria.

È soprattutto strano rivedere, all’inizio, il volto di Meg Ryan su un grande schermo. Già anni fa era stata criticata per gli interventi di chirurgia estetica sul suo viso. Il tempo ha fatto la sua parte, le rughe sono comparse sul suo volto e la rendono interessante. Ma quelle labbra turgide la rendono qualcosa che sta a metà tra una donna della sua età e una donna più giovane, un ibrido difficile da definire. È una sensazione che dura poco, però. Non appena la bocca si apre in un sorriso dei suoi, inconfondibili, carichi di dolcezza, i dubbi svaniscono. Abbiamo ritrovato Meg Ryan. Per David Duchovny, invece, il tempo sembra non essere affatto passato. Qualche lieve ruga di espressione sulla fronte. Qualche capello bianco che stria le tempie. Abbiamo visto il nuovo film in lingua originale – fatelo anche voi, se potete – e abbiamo notato una cosa. Che questi due attori non li avevamo mai sentiti con le loro voci originali, ma sempre doppiati. E le loro voci, lo scopriamo adesso, sono profonde, sfaccettate, cariche di sfumature, e affascinanti.

Meg Ryan e David Duchovny riescono così, facilmente, a trascinarci dentro la storia. Che prova a rispondere a una domanda non banale. Che cosa accade quando ci si lascia e passano 25 anni? Ci si ricorda tutto o non si ricorda niente? Si ricorda la propria vita a sprazzi, secondo quello che è rimasto impresso. Ma pian piano tutto riaffiora. Si ricorda di aver provato a scrivere canzoni, di essere stati idealisti. “Ascolta i poeti, non ascoltare i politici”. Di aver creduto nei Pearl Jam, nei Pixies e nei Soundgarden più che in qualunque altro. Di aver fatto quel gioco in cui, per conoscere l’altro, ci si scambiava il portafoglio con tutto quello che c’era dentro. Altro che smartphone.

Coincidenze d’amore è un film tutto parlato, sussurrato, recitato. È un film di scrittura, di quelle scritture efficaci, quasi perfette, ma a loro modo sincere. Perché tra le pieghe dei dialoghi c’è della vita, e si sente. È un film su quegli incontri che segnano una vita, su quelle notti che contengono dentro tutte quelle che verranno, una sorta di Prima dell’alba in età matura. È un film con dei tempi recitativi perfetti, con movimenti nello spazio perfetti. Fate caso al fatto che i due, in quel limbo che è il terminal, mantengano le distanze a livello fisico, provando così a mantenere le distanze anche a livello sentimentale. Avvicinarsi, riavvicinarsi, può far male. E allora provano a difendersi l’un l’altro.

A livello di regia, se la direzione degli attori e il loro movimento negli spazi è perfetto, è forse inutile qualche vezzo che Meg Ryan si concede. Come la trovata della voce degli annunci che sembra parlare direttamente a loro e diventare così un “coro” agli eventi che accadono, o alcune immagini del passato che appaiono sui video del terminal, o quel cuore alla fine. Degli elementi magici che non aggiungono molto alla storia e che non sarebbero serviti. Ma è un ornamento inutile, e in fondo innocuo, che non toglie molto all’atmosfera del film.

E così la regina delle commedie romantiche è tornata. Ma è cambiata, e non solo fisicamente. A cambiare sono i suoi personaggi. La sua W. Davis è diversa dalle altre sue eroine, e non potrebbe essere altrimenti, vista l’età. È un personaggio più cinico, più disincantato. Ma ha sempre una sua dolcezza. Finisce con Tom Petty che canta Learning To Fly. “Sto imparando a volare, ma non ho le ali”. Ed è perfetto per raccontare la malinconia della nuova Meg Ryan.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Priscilla: Graceland è come Versailles, Sofia Coppola ci racconta la giovane moglie di Elvis, regina senza un regno

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I piedi da bambina, con le unghie dipinte di rosso, si muovono su una moquette rosa. Un eyeliner trucca in modo pesante due occhi bellissimi, allungandoli, come si usava negli anni Sessanta. È così che inizia Priscilla, il nuovo film di Sofia Coppola, presentato alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia, e in uscita al cinema il 27 marzo. Priscilla è la storia della sposa bambina di Elvis Presley, prodotta dalla stessa Priscilla Beaulieu e tratta dal suo romanzo. È il controcampo di Elvis, il film di Baz Luhrmann sul Re del rock, con la macchina da presa costantemente sulla moglie, e Presley sempre di lato, in secondo piano, forse sminuito anche troppo. Quello che conta è che Priscilla è una nuova storia al femminile di Sofia Coppola, perfettamente in linea con la sua poetica.

Quando l’adolescente Priscilla Beaulieu (Cailee Spaeny) incontra a una festa Elvis Presley (Jacob Elordi), l’uomo, che è già una superstar del rock’n’roll, nel privato le si rivela come qualcuno di completamente diverso: un amore travolgente, un alleato nella solitudine e un amico vulnerabile. Attraverso gli occhi di Priscilla, Sofia Coppola ci racconta il lato nascosto di un grande mito americano, nel lungo corteggiamento e nel matrimonio turbolento con Elvis. Una storia iniziata in una base dell’esercito tedesco e proseguita nella sua tenuta da sogno a Graceland. Una storia fatta di amore, sogni e fama.

“Ti piace Elvis Presley?” “Ovvio, a chi non piace”. Immaginate di essere una ragazzina del liceo, in un paese straniero, in Germania, e di sentirvi chiedere da un impresario se volete venire a una festa a casa di Elvis. Immaginate le emozioni che agiterebbero chiunque. Ed è proprio questo che capita alla giovanissima Priscilla, un prisma di sensazioni che vanno dal timore, al desiderio, alla volontà di non deludere i genitori protettivi che, giustamente, sono preoccupati per una relazione con un uomo più grande, e di tale fama. Per Priscilla sarà un viaggio dentro a un sogno. Un sogno da cui, più volte, si desterà bruscamente.

Non è tutto oro ciò che luccica. E anche Elvis, il Re del rock, visto da vicino non è quell’uomo che appare al pubblico adorante di tutto il mondo. Già quando lo vediamo per la prima volta, alla famosa festa, ha una camicia bianca e un cardigan, ed è molto lontano dagli abiti scintillanti di scena a cui siamo abituati e che ha riportato l’Elvis di Baz Luhrmann. Ma non si tratta solo di questo. Se Elvis è stato una delle voci più belle e potenti della storia della musica, l’uomo che vediamo in Priscilla biascica le parole, parla a monosillabi, non fa altro che dormire stordito da ogni tipo di tranquillante. È un uomo violento. O meglio. È un uomo a cui, da sin da giovane, nessuno ha mai detto di no (tranne che, ovviamente, il colonnello, il suo manager), e che crede di poter fare di ogni persona quello che vuole. Così, per lui, Priscilla non è nemmeno una persona. È il suo giocattolo, la sua bambola, una a cui dire come vestirsi e come portare i capelli. E, quel che è più grave, un gioco da riporre ogni volta che ci si è stancati di giocarci.

Priscilla è un film che vive di contrasti. Il Re del rock e la liceale. L’uomo e la bambina. La differenza di statura tra i due attori, Jacob Elordi e Cailee Spaeny, è notevole. Al cinema, si sa, la cosa si può colmare con diversi trucchi. Eppure Sofia Coppola non fa nulla per nascondere la differenza di altezza tra i due. Quasi che volesse, in quel modo, marcare una distanza incolmabile, un dislivello che nasce dai ruoli, dalla fama, dalla ricchezza. Ma, soprattutto, dal genere.

Sì, la discriminazione di genere è un fattore importante in questo film. Che è il solito film di Sofia Coppola, ma il messaggio destinato al maschilismo tossico stavolta è molto più deciso ed esplicito che in altri film, dove era solo un sottotesto. L’Elvis che vediamo in Priscilla è un uomo violento, maschilista, un uomo che gira con le pistole in tasca e prende ogni decisione per sé e per la propria compagna. Il casting del film non è un caso: per il ruolo di Elvis Sofia Coppola ha scelto Jacob Elordi, che nella serie Euphoria è Nate Jacobs, ragazzo violento e dominante. Porta un po’ di quel personaggio e di quest’aura anche qui, e la cosa è funzionale al messaggio. Un altro momento che ci ha fatto riflettere, è quella scena, a un certo punto del film, in cui tre uomini (Elvis, il padre di Priscilla e un altro), si riuniscono a un tavolo, in salotto, a parlare di Priscilla e della sua relazione con Elvis. È la sua vita, parlano di lei, ma sono solo uomini. E lei, con la madre, è fuori, che aspetta in cucina e non può sentire niente. Cailee Spaeny è un volto perfetto per esprimere la gioventù, l’ingenuità, lo smarrimento. È destinata a diventare la prossima star di Hollyood: sentiremo ancora parlare di lei.

La vita di Elvis, la sua carriera, scorrono lateralmente al film, con il Comeback Special televisivo del 1968 e quell’iconico abito tutto in pelle nera. O la prigione dorata di Las Vegas, con la famosa tuta bianca che appare nel salone di Graceland al momento di una prova costumi prima di iniziare l’avventura. O, ancora, con i numeri nei film con Ann Margret, e le voci su una possibile storia d’amore. Si vede la sua relazione malata con le medicine, che lo avrebbe portato alla morte, un rapporto che inizia quando Elvis è ancora giovane. Ma il ritratto della star, per quanto voglia mostrarne il lato oscuro, ci sembra a volte eccessivo. Elvis è comunque un mito: mostrarlo come un tipo quasi afasico, che si esprime a monosillabi, continuamente intontito forse è ingeneroso.

Sofia Coppola, da canto suo, continua a girare sempre lo stesso film, ogni volta con sfumature diverse. Le sue sono sempre storie di giovani donne chiuse in prigioni dorate. Quella di Sofia Coppola, lo sappiamo, è stata la Hollywood degli anni Ottanta. Che così, in una sorta di transfert verso altri personaggi, è diventata la Versailles di fine Settecento di Marie Antoinette e adesso la Graceland di Priscilla. Priscilla Beaulieu è un’altra Maria Antonietta, una regina senza regno, e senza un vero re al suo fianco. È ancora l’annoiata moglie di un uomo che sembra interessato a tutt’altro. Così i fuochi d’artificio esplodono a Graceland come a Versailles, ma sono un fuoco fatuo, vuoto. Un paesaggio stato d’animo  al contrario di ragazze che, ancora una volta, sono lost in translation, non riescono a comunicare con chi hanno vicino.

di Maurizio Ermisino pert DailyMood.it

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May December: Natalie Portman, Julianne Moore e le vite degli altri

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“Every artist is a cannibal, every poet is a thief”. “Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro”. Così cantavano gli U2 in The Fly. Ed è questo quello che accade, alla fine, in May December, il nuovo film di Todd Haynes con Natalie Portman e Julianne Moore, presentato allo scorso Festival di Cannes e in uscita al cinema il 21 marzo, dopo una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Abbiamo usato queste parole perché il film di Todd Haynes è un moderno mélo, ma soprattutto una riflessione sul lavoro dell’attore e sul suo modo di avvicinarsi a un ruolo, una storia, una persona. In questo senso Natalie Portman è straordinaria e Julianne Moore è il suo perfetto specchio. E viceversa.

Rivivere uno scandalo

Elizabeth (Natalie Portman) è una famosa attrice, ed è intenzionata a realizzare un film sulla storia vera di una coppia, Gracie (Julianne Moore) e Joe (Charles Melton), la cui relazione clandestina aveva infiammato la stampa scandalistica e sconvolto gli Stati Uniti vent’anni prima. Gracie, già adulta e sposata con figli, aveva avuto una relazione con un dodicenne, e per questo era finita anche in carcere. La cosa sorprendente è che, una volta uscita, Gracie aveva sposato il ragazzo e avuto dei figli con lui. Per prepararsi al suo nuovo ruolo Elizabeth entrerà nella loro vita rischiando di metterla in crisi.

Né vergogna, né dubbi, né rimorsi. Ma…

Quello che colpisce Elizabeth, e anche noi, mentre il film procede, è l’estrema tranquillità nella vita di Gracie. È una normalità così cercata, e così ostentata, da risultare costruita. E che fa pensare al fatto che possa nascondere una serie di crepe profonde dietro la facciata lucida e patinata. “Non sembra mostrare alcun senso di vergogna, né dubbi, né rimorsi” dice di lei Elizabeth. Da un lato, la vita di Gracie sembra quella di una donna pacificata. Dall’altro c’è in lei un mistero, un rimosso, un non detto. Un senso di vergogna che è stato chiuso in un cassetto per poter continuare a vivere. Ma quel cassetto sarà aperto?

Natalie Portman, star e detective dell’anima  

Elizabeth, cioè Natalie Portman, in May December, ha un doppio ruolo. Da un lato è l’attrice, la diva, la star. Ma dall’altro è l’investigatrice. Per prepararsi al film, infatti, indaga, e questo fa sì che sia la nostra detective. Il film funziona come un’indagine, un giallo senza delitto e senza colpevoli, in cui cercare però l’anima dei personaggi e la verità dei fatti. Ed Elizabeth è il nostro punto di ingresso nella storia. È il narratore non onnisciente, colei che scopre le cose man mano che la storia va avanti e ce le racconta. Così, come in un romanzo di questo tipo, anche noi le scopriamo insieme a lei, a poco a poco.

Le vite degli altri

Per questo May December è un moderno mélo, come è nelle corde di Todd Haynes, ma è anche una riflessione sul lavoro dell’attore. Il lavoro dell’attore è indagine, è studio, è approfondimento. Ma, allo stesso tempo, è anche immedesimazione, è ingresso nella vita di qualcun altro, è rubare dei pezzi di un’esistenza. Ma quanto è necessario immedesimarsi in un ruolo? Fino a che punto è necessario diventare qualcun altro? Qual è il momento in cui bisogna fermarsi? E così ci chiediamo, man mano che il racconto procede, perché Elizabeth si immedesimi così tanto in Gracie, perché entri così tanto nella sua vita. Lo fa per il suo lavoro o per qualche altra ragione?

Sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo?

A proposito di lavoro dell’attore, May December spiega, come pochi altri film, quello che davvero accade ogni volta che un attore sul set affronta una scena di sesso. È ancora Natalie Portman, nei panni di Elizabeth, a raccontarlo, durante una lezione. Uno studente le chiede che cosa si provi, che cosa accada davvero sul set in quei momenti. E lei lo spiega, con una sincerità rara. All’inizio pensi al fatto che sia come una coreografia, con dei passi e delle mosse da seguire. Ma dopo essere stati ore e ore l’uno accanto all’altra, nudi, ti rendi conto che nasce un feeling, qualcosa che non diresti mai al tuo partner nella vita. E ti fa chiedere: sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo? E alla fine ti lasci andare al ritmo.

Natalie Portman e Julianne Moore, intimità allo specchio

A proposito del lavoro dell’attore, dell’immedesimazione, dell’intimità, c’è una scena in particolare che racchiude tutto il senso di May December. È quella in cui Elizabeth e Gracie, Natalie e Julianne, si trovano l’una di fronte all’altra, allo specchio, al trucco. Elizabeth cerca di diventare Gracie, e lei la aiuta. Entrambe fissano prima lo specchio e guardano in macchina, guardano verso di noi. Poi si girano l’una verso l’altra, di fonte, e Gracie trucca Elizabeth come se truccasse se stessa, le acconcia i capelli come li porta lei. E così, guardando la sua emula, è come se si guardasse a sua volta allo specchio, come se parlasse con se stessa. E si confida, si apre come non aveva ancora fatto prima.

Un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi

Il film è una sfida di bellezza e di bravura, un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi. Julianne Moore è in scena con i suoi colori tipici. I proverbiali capelli rossi qui sono schiariti e tendono al biondo. La pelle è chiarissima e lattiginosa, e le dona un’aria quasi nobile, insieme a un’aura di purezza, quella che Gracie vuole mantenere nella sua vita. Le labbra sottili sono fisse in un lieve e costante sorriso arcaico e un po’ forzato. I suoi occhi si stringono quando sorride. Ma quando il suo volto si scioglie finalmente in un pianto, con il volto arrossato, quando la torre d’avorio crolla, Julianne Moore è credibilissima, reale, palpabile.

Natalie Portman, gli occhi della curiosità

Natalie Portman ha la sua aura inconfondibile, la pelle diafana, il fisco tonico e minuto. A quarantadue anni è ancora un’eterna ragazzina, è ancora la Mathilda di Leon, è davvero cambiata pochissimo. Entra in scena con un leggerissimo abito di cotone bordeaux, i grandi occhiali da sole neri e un cappello di paglia a tesa larga. “Pulita, fresca”, la definiscono, ed è così. Le basta quel volto per conquistare. E invece Natalie Portman non è solo quello. È bravissima a mostrare imbarazzo con la sua bocca, con sorrisi un po’ forzati, con movimenti impercettibili dei muscoli facciali. Ma il centro di tutto sono i suoi occhi castani, da cerbiatto, pieni di luce, ma anche e soprattutto di curiosità. Ed è questa la chiave del suo personaggio, e del lavoro dell’attore in generale. I suoi occhi studiano, scrutano, entrano nelle vite degli altri. È allo stesso tempo contenuta e seducente.

Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro

Sì, ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro. Un attore è un artista e un poeta. Ed è così che fa Elizabeth. Alla fine ruba i segreti dell’altra donna, quelli che le sono stati concessi e quelli che non lo sono stati: fate attenzione a quella lettera che, a un certo punto, esce da quel cassetto. E così, insieme a quella scena allo specchio, tutto il film è anche in quel monologo in sottofinale, in cui guarda in macchina. E poi in quel finale, sul set, ormai con il trucco e l’abito di scena. Elizabeth, dopo aver vissuto anche troppo la vita del suo personaggio, la mette in scena. E vuole rifare la scena tre volte. Fino a che raggiunge la perfezione. Fino a che Elizabeth è Gracie. E fino a che Natalie Portman diventa così Julianne Moore. Un cortocircuito, un’attrice che si specchia in un’altra. Un gioco complicato e affascinante.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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