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Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte Uno: Tom Cruise ancora oltre i limiti

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C’è un momento, in Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte Uno, in uscita al cinema il 12 luglio, in cui Ethan Hunt, davanti alla solita, incredibile evoluzione, si ferma, e crede di non farcela. Il suo sodale lo ha guidato in un percorso per raggiungere un treno in corsa. Ethan dovrebbe lanciarsi da un dirupo altissimo in moto, aprire il paracadute, cercare di non schiantarsi sulle rocce e atterrare su un treno in corsa. È un momento di grande autoironia da parte di Tom Cruise, e del suo alter ego Ethan Hunt. L’eroe d’azione per eccellenza, colui che può tutto, si ferma e ha dei dubbi. Sta parlando con un altro personaggio, ma è come se parlasse con il pubblico, con tutti noi. E ci dicesse che sì, queste scene d’azione sono veramente impossibili, che sta sfidando la nostra sospensione dell’incredulità. Ma è proprio questa la natura del cinema, e del suo cinema. In quel momento, ironico al massimo, ci sta dichiarando la natura iperbolica della saga di Mission: Impossible, ci sta svelando la finzione di tutto. E ci sta anche invitando a seguirlo. Nelle sue azioni spericolate (che in gran parte gira da solo, senza stunt) e al cinema, in sala, l’unico luogo dove un film come Mission: Impossible può essere seguito. Tom Cruise è l’uomo che ha salvato il cinema lo scorso anno con Top Gun: Maverick, e probabilmente lo salverà ancora con questo nuovo capitolo di Mission: Impossible. Si conferma una delle poche star del cinema a catalizzare l’attenzione del pubblico e a spostare gli equilibri. Il suo nuovo film è il meglio che possiate trovare oggi a livello di cinema d’azione. Ma dentro quel film d’azione ci sono molti altri film. Seguiteci e ve li racconteremo tutti.

La più terribile macchina di morte mai costruita dall’uomo
Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte Uno inizia nelle profondità dei mari, dove sta viaggiando un sottomarino armato con delle testate nucleari. È la più terribile macchina di morte mai costruita dall’uomo, ed è impossibile da trovare grazie a un sistema che non la fa apparire ai radar. Ma, a un certo punto, quella macchina non risponde agli ordini: è governata da un’Intelligenza Artificiale che si è evoluta e ha preso il controllo della situazione. Nel frattempo Ethan Hunt e la sua Mission: Impossible Force vivono nell’ombra, come fantasmi, in un appartamento vuoto. È qui che ricevono un messaggio – che ovviamente si autodistruggerà entro 5 secondi – in cui ricevono l’incarico di recuperare due parti di una chiave preziosissima. È quella con cui si può controllare e resettare quell’Intelligenza Artificiale. È un oggetto che vorrebbero tutti i governi del mondo.

Giocare a scacchi con un algoritmo
Dopo una prima mezz’ora che è una partenza a razzo perfetta per ritmo e azione, e che funge da omaggio e riepilogo della saga di Mission: Impossible, con continui cambi di identità e le famose maschere che permettono che dietro a un volto si celi un’altra identità, il nuovo Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte Uno comincia davvero. Ed è un film che continua sulla scia dei precedenti, ma che è anche molto diverso. Ha dei momenti di suspense alternati ad azione pura, momenti di ironia uniti ad altri incredibilmente cupi, come mai capitato in questa saga. Il senso di pericolo, oppressione e impotenza è dato dal nemico che incombe su di noi: è un’entità, qualcosa che è in nessun posto e contemporaneamente è ovunque. È l’Intelligenza Artificiale, e non ci faceva così paura dai tempi dell’HAL 9000 di 2001: Odissea nello spazio. Anche il cattivo del film (interpretato da Esai Morales) è un uomo che lavora per questa entità ed è comandato da lei. Il nuovo Mission: Impossible crea azione e spettacolo, ma riesce anche a raccontarci il contemporaneo, il nostro mondo di oggi dove il digitale pervade ogni cosa e tutto è guidato dai dati, dove ognuno di noi ha una sua “copia digitale”. Ma se qualcuno potesse riuscire a modificare quei dati e le identità digitali potrebbe ingannare chiunque, mascherare la realtà a creane un’altra. “Stai giocando a scacchi in quattro dimensioni con un algoritmo” è una delle frasi che colgono meglio il senso del film.

Hayley Atwell, dallo stupore alla malizia all’ironia
Tutto questo si traduce, come dicevamo, in un film che ne contiene dentro molti altri, un film stratificato ed eclettico. Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte Uno è una matrioska. È un film d’azione e di spionaggio, ovviamente, il migliore che possiate trovare oggi. Dentro c’è anche una commedia brillante. In questo senso è interessante la scelta di utilizzare, per due dei ruoli principali della Mission Impossible Force, due attori che hanno nelle loro corde i registri comici, come Simon Pegg e Ving Rhames. Ma soprattutto dalla versatilità di un’attrice come Hayley Atwell, straordinaria, capace di passare dallo stupore alla malizia all’ironia in pochi tratti, e partner perfetta per una scena cult, come quella girata a Roma con la 500 gialla. È una scena che ha un che di inedito, per come mescola l’azione (un topos come l’inseguimento in auto) alla comicità. Poco prima, Hayley Atwell e Tom Cruise, nella scena all’aeroporto, sembravano ridare vita a un certo cinema giallo-rosa di altri tempi, come Sciarada e Caccia al ladro. Ma non è finita qui. Dentro questi generi c’è anche un film di fantascienza distopica, una riflessione sul rapporto tra uomo e macchina, tra anima e tecnologia. E ancora più a fondo, e questo è il cuore nero del film, c’è un racconto cupo, una sorta di tragedia shakespeariana in cui si parla di ruoli, di responsabilità, di scelte dolorose e delle relative conseguenze.

Un grande cast: Rebecca Ferguson, Vanessa Kirby, Pom Klementieff
Mission: Impossible – Dead Reckoning Parte Uno è un film che alza l’asticella del film d’azione e di spionaggio e ora passa la palla alla saga di James Bond, in via di ripartenza con il nuovo casting, per cui non sarà facile competere con la saga di Ethan Hunt. È merito di una scrittura semplice e ad effetto, di una regia eclettica e funzionale alla storia e allo spettacolo, e di un cast perfetto. Di Hayley Atwell, che seguiamo da tempo, ma qui ci ha davvero stupito, abbiamo detto. Ma il cast femminile non si ferma certo qui: ci sono Rebecca Ferguson, nei panni di Ilsa Faust, l’amore di Ethan Hunt, presenza affascinante e carismatica e volto regale; Vanessa Kirby, nei panni della Vedova Bianca, trafficante d’armi, dai colori glaciali, bionda con gli occhi blu, spiritata come una sorta di joker (e, senza svelarvi troppo, impegnata in un doppio ruolo di grande difficoltà). E la killer punk Pom Klementieff, che sembra un personaggio di un film muto, un replicante di Blade Runner ma che riserverà anche lei delle sorprese. Esai Morales è un cattivo inedito, spietato e invisibile, un maestro nel maneggiare le lame ma anche un uomo dominato da un’entità artificiale.

Christopher McQuarrie è l’Autore di Mission: Impossible
Ma il nuovo Mission: Impossible è anche un film di regia. Dopo una prima fase in cui la saga prevedeva un diverso autore a ogni prova, e quindi una serie di esercizi di stile – da Brian De Palma a John Woo, da J.J. Abrams a Brad Bird – il mondo di Mission: Impossible ha trovato il suo autore. Christopher McQuarrie ha preso in mano la saga mettendosi a disposizione del suo protagonista, della storia e delle emozioni. Qui ha la capacità di cambiare registri, toni, luci a ogni momento. Dall’inizio, con lo stile “classico” dei film di Mission: Impossible, passa a un’azione commedia gialla e solare come la 500 e i colori di Roma. Poi passa alle ombre funeree di Venezia e alla bellezza naturale della verde Austria per una delle scene d’azione più spettacolari della storia del cinema. Usa anche i riflessi degli schermi e i blu intensi per evocare il mondo dell’Intelligenza Artificiale. Che, sì, ci fa paura. Sostituirà l’uomo? Forse. Ma non potrà mai sostituire un attore come Tom Cruise.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Conseguenze d’amore: Meg Ryan torna regina della commedia romantica… è sempre lei, ma è cambiata

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Si chiama Conseguenze d’amore, nella sua versione italiana, il nuovo film scritto, diretto e interpretato da Meg Ryan, dall’11 aprile al cinema, con un gioco di parole su una storia che parla di aerei perduti e coincidenze mancate, e conseguenti incontri. What Happens Later è invece il titolo originale del film, e ci dice molto di più. Significa “che cosa accade dopo”, “che cosa accade più tardi”. E il nuovo film di Meg Ryan, per la prima volta in veste di sceneggiatrice e regista oltre che di protagonista, è infatti una tenera e intrigante storia d’amore tra due persone mature, sulla sessantina. Un’età che raramente viene raccontata per quanto riguarda gli innamoramenti, ed è un peccato. Il nuovo film di Meg Ryan ci dice che ci si può innamorare ancora, anche a quell’età. Un’età che porta con sé rimorsi e rimpianti, sogni infranti e treni persi. Ma anche, volendo, una vita ancora tutta da vivere.

Interno, notte. I New Radicals cantano You’re Gonna Get What You Give, hit di fine anni Novanta. Un cartellone fa pubblicità a un film che si chiama Rom Com, preannunciando che ci troviamo in una commedia romantica. Siamo nella sala d’attesa del terminal di un aeroporto, non luogo e limbo per eccellenza. Un uomo e una donna cercano entrambi una presa per ricaricare il loro smartphone. Poi si incontrano, si presentano. Capiamo subito che si conoscono già. Entrambi si chiamano W. Davis. Sì, capiamo ben presto che i due sono stati insieme. Che sono stati innamorati. E che la loro è stata davvero una storia importante. E che non si vedono da 25 anni. E ora?

W. Davis, cioè Wilhelmina, o Willa, è Meg Ryan, la storica reginetta delle commedie romantiche che abbiamo amato sin dal primo giorno. W. Davis, cioè William, alias Bill, è David Duchovny, che invece le commedie romantiche le ha frequentate poco. Lo conosciamo per due iconici ruoli in serie tv, l’enigmatico Fox Mulder di X-Files e il lascivo Hank Moody di Californication. Li ritroviamo dopo che non li avevamo mai immaginati insieme, lei nel suo terreno, lui in un territorio nuovo. Invecchiati, stropicciati, come i loro personaggi: Willa zoppica per un dolore all’anca. Bill soffre d’ansia anticipatoria.

È soprattutto strano rivedere, all’inizio, il volto di Meg Ryan su un grande schermo. Già anni fa era stata criticata per gli interventi di chirurgia estetica sul suo viso. Il tempo ha fatto la sua parte, le rughe sono comparse sul suo volto e la rendono interessante. Ma quelle labbra turgide la rendono qualcosa che sta a metà tra una donna della sua età e una donna più giovane, un ibrido difficile da definire. È una sensazione che dura poco, però. Non appena la bocca si apre in un sorriso dei suoi, inconfondibili, carichi di dolcezza, i dubbi svaniscono. Abbiamo ritrovato Meg Ryan. Per David Duchovny, invece, il tempo sembra non essere affatto passato. Qualche lieve ruga di espressione sulla fronte. Qualche capello bianco che stria le tempie. Abbiamo visto il nuovo film in lingua originale – fatelo anche voi, se potete – e abbiamo notato una cosa. Che questi due attori non li avevamo mai sentiti con le loro voci originali, ma sempre doppiati. E le loro voci, lo scopriamo adesso, sono profonde, sfaccettate, cariche di sfumature, e affascinanti.

Meg Ryan e David Duchovny riescono così, facilmente, a trascinarci dentro la storia. Che prova a rispondere a una domanda non banale. Che cosa accade quando ci si lascia e passano 25 anni? Ci si ricorda tutto o non si ricorda niente? Si ricorda la propria vita a sprazzi, secondo quello che è rimasto impresso. Ma pian piano tutto riaffiora. Si ricorda di aver provato a scrivere canzoni, di essere stati idealisti. “Ascolta i poeti, non ascoltare i politici”. Di aver creduto nei Pearl Jam, nei Pixies e nei Soundgarden più che in qualunque altro. Di aver fatto quel gioco in cui, per conoscere l’altro, ci si scambiava il portafoglio con tutto quello che c’era dentro. Altro che smartphone.

Coincidenze d’amore è un film tutto parlato, sussurrato, recitato. È un film di scrittura, di quelle scritture efficaci, quasi perfette, ma a loro modo sincere. Perché tra le pieghe dei dialoghi c’è della vita, e si sente. È un film su quegli incontri che segnano una vita, su quelle notti che contengono dentro tutte quelle che verranno, una sorta di Prima dell’alba in età matura. È un film con dei tempi recitativi perfetti, con movimenti nello spazio perfetti. Fate caso al fatto che i due, in quel limbo che è il terminal, mantengano le distanze a livello fisico, provando così a mantenere le distanze anche a livello sentimentale. Avvicinarsi, riavvicinarsi, può far male. E allora provano a difendersi l’un l’altro.

A livello di regia, se la direzione degli attori e il loro movimento negli spazi è perfetto, è forse inutile qualche vezzo che Meg Ryan si concede. Come la trovata della voce degli annunci che sembra parlare direttamente a loro e diventare così un “coro” agli eventi che accadono, o alcune immagini del passato che appaiono sui video del terminal, o quel cuore alla fine. Degli elementi magici che non aggiungono molto alla storia e che non sarebbero serviti. Ma è un ornamento inutile, e in fondo innocuo, che non toglie molto all’atmosfera del film.

E così la regina delle commedie romantiche è tornata. Ma è cambiata, e non solo fisicamente. A cambiare sono i suoi personaggi. La sua W. Davis è diversa dalle altre sue eroine, e non potrebbe essere altrimenti, vista l’età. È un personaggio più cinico, più disincantato. Ma ha sempre una sua dolcezza. Finisce con Tom Petty che canta Learning To Fly. “Sto imparando a volare, ma non ho le ali”. Ed è perfetto per raccontare la malinconia della nuova Meg Ryan.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Priscilla: Graceland è come Versailles, Sofia Coppola ci racconta la giovane moglie di Elvis, regina senza un regno

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I piedi da bambina, con le unghie dipinte di rosso, si muovono su una moquette rosa. Un eyeliner trucca in modo pesante due occhi bellissimi, allungandoli, come si usava negli anni Sessanta. È così che inizia Priscilla, il nuovo film di Sofia Coppola, presentato alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia, e in uscita al cinema il 27 marzo. Priscilla è la storia della sposa bambina di Elvis Presley, prodotta dalla stessa Priscilla Beaulieu e tratta dal suo romanzo. È il controcampo di Elvis, il film di Baz Luhrmann sul Re del rock, con la macchina da presa costantemente sulla moglie, e Presley sempre di lato, in secondo piano, forse sminuito anche troppo. Quello che conta è che Priscilla è una nuova storia al femminile di Sofia Coppola, perfettamente in linea con la sua poetica.

Quando l’adolescente Priscilla Beaulieu (Cailee Spaeny) incontra a una festa Elvis Presley (Jacob Elordi), l’uomo, che è già una superstar del rock’n’roll, nel privato le si rivela come qualcuno di completamente diverso: un amore travolgente, un alleato nella solitudine e un amico vulnerabile. Attraverso gli occhi di Priscilla, Sofia Coppola ci racconta il lato nascosto di un grande mito americano, nel lungo corteggiamento e nel matrimonio turbolento con Elvis. Una storia iniziata in una base dell’esercito tedesco e proseguita nella sua tenuta da sogno a Graceland. Una storia fatta di amore, sogni e fama.

“Ti piace Elvis Presley?” “Ovvio, a chi non piace”. Immaginate di essere una ragazzina del liceo, in un paese straniero, in Germania, e di sentirvi chiedere da un impresario se volete venire a una festa a casa di Elvis. Immaginate le emozioni che agiterebbero chiunque. Ed è proprio questo che capita alla giovanissima Priscilla, un prisma di sensazioni che vanno dal timore, al desiderio, alla volontà di non deludere i genitori protettivi che, giustamente, sono preoccupati per una relazione con un uomo più grande, e di tale fama. Per Priscilla sarà un viaggio dentro a un sogno. Un sogno da cui, più volte, si desterà bruscamente.

Non è tutto oro ciò che luccica. E anche Elvis, il Re del rock, visto da vicino non è quell’uomo che appare al pubblico adorante di tutto il mondo. Già quando lo vediamo per la prima volta, alla famosa festa, ha una camicia bianca e un cardigan, ed è molto lontano dagli abiti scintillanti di scena a cui siamo abituati e che ha riportato l’Elvis di Baz Luhrmann. Ma non si tratta solo di questo. Se Elvis è stato una delle voci più belle e potenti della storia della musica, l’uomo che vediamo in Priscilla biascica le parole, parla a monosillabi, non fa altro che dormire stordito da ogni tipo di tranquillante. È un uomo violento. O meglio. È un uomo a cui, da sin da giovane, nessuno ha mai detto di no (tranne che, ovviamente, il colonnello, il suo manager), e che crede di poter fare di ogni persona quello che vuole. Così, per lui, Priscilla non è nemmeno una persona. È il suo giocattolo, la sua bambola, una a cui dire come vestirsi e come portare i capelli. E, quel che è più grave, un gioco da riporre ogni volta che ci si è stancati di giocarci.

Priscilla è un film che vive di contrasti. Il Re del rock e la liceale. L’uomo e la bambina. La differenza di statura tra i due attori, Jacob Elordi e Cailee Spaeny, è notevole. Al cinema, si sa, la cosa si può colmare con diversi trucchi. Eppure Sofia Coppola non fa nulla per nascondere la differenza di altezza tra i due. Quasi che volesse, in quel modo, marcare una distanza incolmabile, un dislivello che nasce dai ruoli, dalla fama, dalla ricchezza. Ma, soprattutto, dal genere.

Sì, la discriminazione di genere è un fattore importante in questo film. Che è il solito film di Sofia Coppola, ma il messaggio destinato al maschilismo tossico stavolta è molto più deciso ed esplicito che in altri film, dove era solo un sottotesto. L’Elvis che vediamo in Priscilla è un uomo violento, maschilista, un uomo che gira con le pistole in tasca e prende ogni decisione per sé e per la propria compagna. Il casting del film non è un caso: per il ruolo di Elvis Sofia Coppola ha scelto Jacob Elordi, che nella serie Euphoria è Nate Jacobs, ragazzo violento e dominante. Porta un po’ di quel personaggio e di quest’aura anche qui, e la cosa è funzionale al messaggio. Un altro momento che ci ha fatto riflettere, è quella scena, a un certo punto del film, in cui tre uomini (Elvis, il padre di Priscilla e un altro), si riuniscono a un tavolo, in salotto, a parlare di Priscilla e della sua relazione con Elvis. È la sua vita, parlano di lei, ma sono solo uomini. E lei, con la madre, è fuori, che aspetta in cucina e non può sentire niente. Cailee Spaeny è un volto perfetto per esprimere la gioventù, l’ingenuità, lo smarrimento. È destinata a diventare la prossima star di Hollyood: sentiremo ancora parlare di lei.

La vita di Elvis, la sua carriera, scorrono lateralmente al film, con il Comeback Special televisivo del 1968 e quell’iconico abito tutto in pelle nera. O la prigione dorata di Las Vegas, con la famosa tuta bianca che appare nel salone di Graceland al momento di una prova costumi prima di iniziare l’avventura. O, ancora, con i numeri nei film con Ann Margret, e le voci su una possibile storia d’amore. Si vede la sua relazione malata con le medicine, che lo avrebbe portato alla morte, un rapporto che inizia quando Elvis è ancora giovane. Ma il ritratto della star, per quanto voglia mostrarne il lato oscuro, ci sembra a volte eccessivo. Elvis è comunque un mito: mostrarlo come un tipo quasi afasico, che si esprime a monosillabi, continuamente intontito forse è ingeneroso.

Sofia Coppola, da canto suo, continua a girare sempre lo stesso film, ogni volta con sfumature diverse. Le sue sono sempre storie di giovani donne chiuse in prigioni dorate. Quella di Sofia Coppola, lo sappiamo, è stata la Hollywood degli anni Ottanta. Che così, in una sorta di transfert verso altri personaggi, è diventata la Versailles di fine Settecento di Marie Antoinette e adesso la Graceland di Priscilla. Priscilla Beaulieu è un’altra Maria Antonietta, una regina senza regno, e senza un vero re al suo fianco. È ancora l’annoiata moglie di un uomo che sembra interessato a tutt’altro. Così i fuochi d’artificio esplodono a Graceland come a Versailles, ma sono un fuoco fatuo, vuoto. Un paesaggio stato d’animo  al contrario di ragazze che, ancora una volta, sono lost in translation, non riescono a comunicare con chi hanno vicino.

di Maurizio Ermisino pert DailyMood.it

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May December: Natalie Portman, Julianne Moore e le vite degli altri

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“Every artist is a cannibal, every poet is a thief”. “Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro”. Così cantavano gli U2 in The Fly. Ed è questo quello che accade, alla fine, in May December, il nuovo film di Todd Haynes con Natalie Portman e Julianne Moore, presentato allo scorso Festival di Cannes e in uscita al cinema il 21 marzo, dopo una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Abbiamo usato queste parole perché il film di Todd Haynes è un moderno mélo, ma soprattutto una riflessione sul lavoro dell’attore e sul suo modo di avvicinarsi a un ruolo, una storia, una persona. In questo senso Natalie Portman è straordinaria e Julianne Moore è il suo perfetto specchio. E viceversa.

Rivivere uno scandalo

Elizabeth (Natalie Portman) è una famosa attrice, ed è intenzionata a realizzare un film sulla storia vera di una coppia, Gracie (Julianne Moore) e Joe (Charles Melton), la cui relazione clandestina aveva infiammato la stampa scandalistica e sconvolto gli Stati Uniti vent’anni prima. Gracie, già adulta e sposata con figli, aveva avuto una relazione con un dodicenne, e per questo era finita anche in carcere. La cosa sorprendente è che, una volta uscita, Gracie aveva sposato il ragazzo e avuto dei figli con lui. Per prepararsi al suo nuovo ruolo Elizabeth entrerà nella loro vita rischiando di metterla in crisi.

Né vergogna, né dubbi, né rimorsi. Ma…

Quello che colpisce Elizabeth, e anche noi, mentre il film procede, è l’estrema tranquillità nella vita di Gracie. È una normalità così cercata, e così ostentata, da risultare costruita. E che fa pensare al fatto che possa nascondere una serie di crepe profonde dietro la facciata lucida e patinata. “Non sembra mostrare alcun senso di vergogna, né dubbi, né rimorsi” dice di lei Elizabeth. Da un lato, la vita di Gracie sembra quella di una donna pacificata. Dall’altro c’è in lei un mistero, un rimosso, un non detto. Un senso di vergogna che è stato chiuso in un cassetto per poter continuare a vivere. Ma quel cassetto sarà aperto?

Natalie Portman, star e detective dell’anima  

Elizabeth, cioè Natalie Portman, in May December, ha un doppio ruolo. Da un lato è l’attrice, la diva, la star. Ma dall’altro è l’investigatrice. Per prepararsi al film, infatti, indaga, e questo fa sì che sia la nostra detective. Il film funziona come un’indagine, un giallo senza delitto e senza colpevoli, in cui cercare però l’anima dei personaggi e la verità dei fatti. Ed Elizabeth è il nostro punto di ingresso nella storia. È il narratore non onnisciente, colei che scopre le cose man mano che la storia va avanti e ce le racconta. Così, come in un romanzo di questo tipo, anche noi le scopriamo insieme a lei, a poco a poco.

Le vite degli altri

Per questo May December è un moderno mélo, come è nelle corde di Todd Haynes, ma è anche una riflessione sul lavoro dell’attore. Il lavoro dell’attore è indagine, è studio, è approfondimento. Ma, allo stesso tempo, è anche immedesimazione, è ingresso nella vita di qualcun altro, è rubare dei pezzi di un’esistenza. Ma quanto è necessario immedesimarsi in un ruolo? Fino a che punto è necessario diventare qualcun altro? Qual è il momento in cui bisogna fermarsi? E così ci chiediamo, man mano che il racconto procede, perché Elizabeth si immedesimi così tanto in Gracie, perché entri così tanto nella sua vita. Lo fa per il suo lavoro o per qualche altra ragione?

Sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo?

A proposito di lavoro dell’attore, May December spiega, come pochi altri film, quello che davvero accade ogni volta che un attore sul set affronta una scena di sesso. È ancora Natalie Portman, nei panni di Elizabeth, a raccontarlo, durante una lezione. Uno studente le chiede che cosa si provi, che cosa accada davvero sul set in quei momenti. E lei lo spiega, con una sincerità rara. All’inizio pensi al fatto che sia come una coreografia, con dei passi e delle mosse da seguire. Ma dopo essere stati ore e ore l’uno accanto all’altra, nudi, ti rendi conto che nasce un feeling, qualcosa che non diresti mai al tuo partner nella vita. E ti fa chiedere: sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo? E alla fine ti lasci andare al ritmo.

Natalie Portman e Julianne Moore, intimità allo specchio

A proposito del lavoro dell’attore, dell’immedesimazione, dell’intimità, c’è una scena in particolare che racchiude tutto il senso di May December. È quella in cui Elizabeth e Gracie, Natalie e Julianne, si trovano l’una di fronte all’altra, allo specchio, al trucco. Elizabeth cerca di diventare Gracie, e lei la aiuta. Entrambe fissano prima lo specchio e guardano in macchina, guardano verso di noi. Poi si girano l’una verso l’altra, di fonte, e Gracie trucca Elizabeth come se truccasse se stessa, le acconcia i capelli come li porta lei. E così, guardando la sua emula, è come se si guardasse a sua volta allo specchio, come se parlasse con se stessa. E si confida, si apre come non aveva ancora fatto prima.

Un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi

Il film è una sfida di bellezza e di bravura, un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi. Julianne Moore è in scena con i suoi colori tipici. I proverbiali capelli rossi qui sono schiariti e tendono al biondo. La pelle è chiarissima e lattiginosa, e le dona un’aria quasi nobile, insieme a un’aura di purezza, quella che Gracie vuole mantenere nella sua vita. Le labbra sottili sono fisse in un lieve e costante sorriso arcaico e un po’ forzato. I suoi occhi si stringono quando sorride. Ma quando il suo volto si scioglie finalmente in un pianto, con il volto arrossato, quando la torre d’avorio crolla, Julianne Moore è credibilissima, reale, palpabile.

Natalie Portman, gli occhi della curiosità

Natalie Portman ha la sua aura inconfondibile, la pelle diafana, il fisco tonico e minuto. A quarantadue anni è ancora un’eterna ragazzina, è ancora la Mathilda di Leon, è davvero cambiata pochissimo. Entra in scena con un leggerissimo abito di cotone bordeaux, i grandi occhiali da sole neri e un cappello di paglia a tesa larga. “Pulita, fresca”, la definiscono, ed è così. Le basta quel volto per conquistare. E invece Natalie Portman non è solo quello. È bravissima a mostrare imbarazzo con la sua bocca, con sorrisi un po’ forzati, con movimenti impercettibili dei muscoli facciali. Ma il centro di tutto sono i suoi occhi castani, da cerbiatto, pieni di luce, ma anche e soprattutto di curiosità. Ed è questa la chiave del suo personaggio, e del lavoro dell’attore in generale. I suoi occhi studiano, scrutano, entrano nelle vite degli altri. È allo stesso tempo contenuta e seducente.

Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro

Sì, ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro. Un attore è un artista e un poeta. Ed è così che fa Elizabeth. Alla fine ruba i segreti dell’altra donna, quelli che le sono stati concessi e quelli che non lo sono stati: fate attenzione a quella lettera che, a un certo punto, esce da quel cassetto. E così, insieme a quella scena allo specchio, tutto il film è anche in quel monologo in sottofinale, in cui guarda in macchina. E poi in quel finale, sul set, ormai con il trucco e l’abito di scena. Elizabeth, dopo aver vissuto anche troppo la vita del suo personaggio, la mette in scena. E vuole rifare la scena tre volte. Fino a che raggiunge la perfezione. Fino a che Elizabeth è Gracie. E fino a che Natalie Portman diventa così Julianne Moore. Un cortocircuito, un’attrice che si specchia in un’altra. Un gioco complicato e affascinante.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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