Mood Face
David Lynch, quel James Stewart venuto da Marte

Un James Stewart venuto da Marte. Così Mel Brooks definì David Lynch, all’inizio della sua carriera, quando lo incontrò e decise di affidargli la regia di The Elephant Man. Vide quel suo aspetto serio, compito, quella camicia con l’ultimo bottone sempre allacciato, e anche quel milkshake al cioccolato che gustava ogni giorno, puntuale, alle 14.30. L’eleganza innata, quegli occhi piccoli e penetranti, blu, profondissimi, pieni di curiosità, sono gli stessi anche oggi. David Lynch è stato il protagonista di un incontro ravvicinato alla Festa del Cinema di Roma, dove ha ricevuto il premio alla carriera. L’abito nero e la cravatta nera lo rendono elegantissimo, ma anche molto simile a Gordon Cole, il funzionario dell’FBI che ha riportato sullo schermo con la terza stagione di Twin Peaks.
La sua cortesia, il tono basso della voce (proprio il contrario di Gordon che, essendo sordo, usa un tono altissimo), la sua riflessività (da anni pratica la meditazione trascendentale) ne fanno una persona amabile (e amatissima). Sembra quasi impossibile che dalla mente, dai sogni di questa persona nascano incubi come quelli che da anni ci fanno compagnia. “Amo i sogni. Amo la logica dei sogni” spiega Lynch. “A volte vediamo qualcosa di cui sappiamo il significato ma non siamo in grado di esprimerlo a parole. Questo lo possiamo fare con il linguaggio del cinema. Amo le cose astratte e le cose concrete. Amo il cinema che abbia concretezza e astrazione. È un po’ come quando cerchi di raccontare un tuo sogno a un amico può ascoltarti, ma non capirà mai le tue sensazioni”. Chi ha visto i suoi film, soprattutto cose come Mulholland Drive e Inland Empire, o anche l’ultimo Twin Peaks può capire bene da dove arrivino le visioni di Lynch. E come nascano le sue storie. “Ci vengono in mente idee, le vediamo sul nostro schermo mentale e lo scriviamo a parole” spiega. “E allora riemerge l’idea. Le idee nascono come frammenti: penso a questi frammenti di idea come a un rompicapo, un puzzle di cui uno ti lancia un pezzo. E allora tu cominci a scrivere. Da qui nasce la sceneggiatura, e il film.”. “Non so come vengono le idee” aggiunge. “Un giorno sei lì e non c’è l’idea, continui a non averle, improvvisamente sono lì che si materializzano”.
Philadelphia e Los Angeles. Fuliggine e luce
Il primo incubo di David Lynch si chiama Eraserhead – La mente che cancella: è la storia di una relazione (tra Henry, il suo attore feticcio Jack Nance, e la moglie ritardata), tra paure della paternità, incubi tra sesso e malattia, in una cornice di rumori e architetture industriali. “La mia ispirazione è stata la vita di Philadelphia” ha raccontato Lynch a Roma. “Una città sporca, corrotta, violenta, sempre in preda al terrore. E folle. Amo la sua architettura, i colori degli interni delle stanze, che erano verdi, le proporzioni strane delle stanze, i mattoni coperti di fuliggine. Questo ambiente caratterizzato dalla presenza delle fabbriche. È a Philadelphia che è nato il mondo di Eraserhead”.
David Lynch non è ispirato solo dal brutto. Ma anche dal bello. Dopo Philadelphia la sua vita è stata Los Angeles, la sua nuova casa, la sua musa, la Mecca del cinema. Inland Empire, Strade perdute e Mulholland Drive trattano tutte di Los Angeles. “Sono arrivato a Los Angeles nel 1970, da Philadelphia” rievoca l’artista. “Ricordo di essere arrivato a L.A. durante la notte” rievoca Lynch. “Il mattino dopo uscii dall’appartamento e per la prima volta vidi quel sole, una luce che mi fece quasi svenire. Di L.A. amo la luce, il fatto che non se ne vadano i confini, e quindi non abbia limiti, e questo significa la possibilità di seguire i propri sogni. Amo il fatto che sia la casa del cinema dell’età dell’oro, e sembra che ritorni quando fioriscono i gelsomini”.
Tra tutti i suoi film, il suo amore per Los Angeles è evidente più che mai in Mulholland Drive, sogno/incubo che si insinua tra i luoghi della vecchia e della nuova Hollywood e, pur nel suo procedere “al contrario”, nel suo muoversi tra sogno e realtà, nel suo continuo ribaltamento, si avvicina a quel Viale del tramonto di Billy Wilder, uno dei film che Lynch ha scelto di proiettare a Roma per raccontarsi. “Billy Wilder era straordinario per il senso dei luoghi” riflette Lynch. “In Viale del tramonto c’è una casa bellissima che ha personalità, ci riporta all’età dell’oro del cinema, anche se sta crollando. È un fenomeno organico. La bellezza è indubbia, nell’immagine di questa casa: gli arredi, i costumi, la musica: tutto questo fa poi emergere l’età dell’oro del cinema”. “Tutti desiderano qualcosa in un anelito che non viene mai realizzato” aggiunge. Ed è la stessa cosa che accade in Mulholland Drive. Viale del tramonto, poi, ci svela anche qualcosa su Gordon Cole, il personaggio interpretato dallo stesso Lynch in Twin Peaks. “C’è una scena in cui Cecil B. De Mille dice: chiama Gordon Cole al telefono” fa notare il regista. “A Los Angeles Billy Wilder lavorava alla Paramount, e guidando su Melrose, come su qualunque altra via che va da est a ovest, incrociava immancabilmente due strade: Gordon e Cole. Secondo me Billy prese il nome da quelle due strade”.
Lynch e la televisione. Odi et amo
Proprio Mulholland Drive e Twin Peaks sono i capitoli di una storia tormentata, quella tra David Lynch e la televisione. Twin Peaks, la serie che a inizio anni Novanta deflagrò sulle nostre televisioni, cambiando per sempre il nostro modo di percepire il mezzo televisivo, fu cancellata alla fine della seconda stagione. Mulholland Drive nacque come pilota di una nuova serie televisiva, che doveva raccontare L.A. e il mondo del cinema: decisero di non produrla, e Lynch, con la produzione di Alain Sarde e Canal Plus, lo completò, e ne fece un film perfetto. L’ultimo capitolo è dei giorni nostri: il network televisivo americano Showtime ha prodotto la terza stagione di Twin Peaks: David Lynch ha avuto carta bianca, e ne ha creato qualcosa che è completamente diverso sia dalle prime due stagioni, che da qualunque altra cosa che si vede oggi in tv: un vero e proprio film, diviso in 18 parti. Per Lynch è una vittoria. “Creare per la tv e per il cinema è esattamente la stessa cosa” ha spiegato. “C’è una piccola differenza. Sulla tv via cavo c’è la possibilità di continuare una storia, mentre un film finisce. Sappiamo che quando si produce per la tv rispetto al grande schermo la qualità delle immagini e del suono sono inferiori. Ma stanno facendo grandi miglioramenti”.
Televisione vuol dire anche girare in digitale, tecnica che Lynch aveva già sperimentato nel suo ultimo film per il cinema, Inland Empire. “La celluloide è bellissima, ma è pesante, si sporca, si rompe” è l’opinione di Lynch. “Il mezzo digitale si sta avvicinando sempre di più alla celluloide, ma col digitale si possono fare milioni di cose dopo aver girato. Con il digitale si schiude un mondo meraviglioso. Puoi manipolare l’immagine come se stessi manipolando la tela. E quindi questo schiude infinite, meravigliose possibilità”.
La pittura e Federico Fellini.
Non è un caso che Lynch nomini la tela. Lynch è anche un pittore, e un appassionato d’arte. A Roma ha parlato dei quadri di Francis Bacon (“amo la sua distorsione della figura umana, amo il modo in cui esplora i fenomeni organici”) e delle sculture di Edward Kienholz (“è un altro artista che esplora in maniera straordinaria i fenomeni organici. Mi piacciono le opere in tre dimensioni. A volte sulla tela pratico dei fori e inserisco qualcosa, o aggiungo qualcosa sulla superficie sulla quale ho dipinto perché emerga qualcosa”). Chi conosce David Lynch lo sa bene. I suoi primi corti nascevano dalla transizione dalla pittura al cinema, e vennero definiti “scultura in movimento” e “biologia creativa”: un bassorilievo con teste danzanti afflitte da conati di vomito, un bambino che annaffiava un germoglio per farlo diventare una nonna, e altre cose di questo tipo.
Anche questi sono sogni. E non è un caso che uno dei film proposti a Roma da Lynch sia 8 e ½ di Federico Fellini, un autore che sui sogni ha fondato il suo cinema. “Nel 1993 stavo girando una pubblicità con Tonino Delli Colli come direttore della fotografia” ricorda Lynch. “Fellini era in un ospedale del nord e sarebbe arrivato a Roma, e avevamo deciso di andarlo a trovare. Ricordo che era una serata molto calda. Entrai in questa stanza, c’erano due letti singoli e in mezzo Fellini su una sedia a rotelle davanti a un tavolino. Mi sono messo a chiacchierare con lui, gli ho tenuto la mano, abbiamo parlato con per mezzora. Mi ha detto che quello che stava accadendo nel cinema lo intristiva: una volta gli studenti ne parlavano, poi l’entusiasmo si era spostato verso la tv. In seguito Vincenzo Mollica mi disse quello che Fellini aveva detto quando avevo lasciato la stanza: è un bravo ragazzo”.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.
E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.
La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.
Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.
Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.
Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.
Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…
di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it
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Duran Duran: Quei new romantic in cerca del suono della tv
Published
2 anni agoon
17 Giugno 2021
“Some new romantics looking for a tv sound” recita, a un certo punto, il testo di Planet Earth, il primo successo dei Duran Duran, la band che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e, questo non lo immaginava nessuno, è ancora viva, vegeta e in ottima salute. E, a quarant’anni dall’uscita del primo album, Duran Duran (arrivò nei negozi proprio il 15 giugno del 1981) continua a fare tendenza. Se negli anni Ottanta Simon Le Bon, Nick Rhodes, John Taylor, Andy Taylor e Roger Taylor, da Birmingham, UK, idoli delle ragazzine per la loro bellezza, erano considerati alla stregua di una boyband, oggi tutti li considerano una grande band, gli artefici di un suono che ancora oggi è attualissimo, e che ha ispirato decine di gruppi che sarebbero venuti dopo di loro. I Duran Duran sono forse tra i più famosi esponenti del genere new romantic, una variante della new wave, il movimento che, in varie sfaccettature, seguì il punk.
I Duran Duran nascono già nel 1978. Sono tre studenti d’arte, John Taylor alla chitarra, Nick Rhodes ai sintetizzatori e Stephen Duffy alla voce e al basso. I tre sono compagni di scuola e amano gli artisti glam e synth pop. È proprio John Taylor a suggerire il nome per la band: si chiamerà Duran Duran ispirandosi a Durand Durand, il cattivo del film Barbarella, famoso film di fantascienza con Jane Fonda. E, se ascoltate certe linee di tastiera del primo album dei Duran, sentirete che una certa atmosfera fantascientifica c’è tutta. Nella band entrerà poi Simon Colley, al clarinetto e al basso. Ma, già dopo il terzo concerto, Duffy e Colley se ne andranno. John Taylor lascerà la chitarra per imbracciare il basso, lo strumento con cui darà un groove inconfondibile al suono dei Duran Duran. Alla batteria ci sarà il secondo Taylor, Roger. Il terzo, Andy Taylor (i tre non sono parenti) entrerà nella band come chitarrista. Alla voce ci proverà Andy Wickett, che registrerà con la band alcune demo. Ma non saranno i Duran Duran che conosciamo fino a che, con la sua voce inconfondibile, non prenderà in mano il microfono Simon Le Bon.
Il biglietto da visita con cui i Duran Duran si sono presentati al mondo è il singolo Planet Earth, quello in cui si parla di new romantic in cerca del suono della televisione. È una canzone trascinante che, ancora oggi, sembra arrivare da un altro pianeta. Ci sono i synth spaziali di Nick Rhodes, il basso incalzante di John Taylor, il ritmo sincopato della batteria di Roger Taylor che si sposa alla perfezione con i salti del basso, la chitarra ritmica rockeggiante di Andy Taylor. E poi quegli effetti sonori che sembrano evocare l’atterraggio di un elicottero, o qualsiasi altro veicolo vogliate immaginare. Magari un’astronave. È qui che sentiamo già tutte le influenze che hanno reso quello dei Duran Duran un suono unico. In quella ritmica c’è, ad esempio, il groove di Giorgio Moroder, quello, per capirci, di I Feel Love di Donna Summer. L’influenza dei Roxy Music, una band che aveva dato una propria interpretazione del glam rock, la sentiamo tutta in Girls On Film, il brano che apre l’album. Ascoltate Love Is The Drug dei Roxy Music e poi questa canzone, e capirete quanto siano importanti. E poi, ancora, ci sono gli Chic, ci sono i Japan di David Sylvian, idolo di Nick Rhodes, tanto che i due sembrano due gemelli separati alla nascita. E ovviamente David Bowie, che in qualche modo aveva lanciato il movimento new romantic nel suo video Ashes To Ashes, in cu apparivano alcune comparse prese da quella scena, tra cui Steve Strange dei Visage. Nelle linee melodiche orientaleggianti di Tel Aviv, lo strumentale che chiude il disco, ci sono degli echi di alcune canzoni del Bowie della trilogia berlinese. E nella versione Deluxe di Duran Duran, del 2010, c’è una cover di Fame (che i Duran incisero come lato B di Careless Memories), il brano, tratto da Young Americans, che Bowie registrò a metà anni Settanta insieme a John Lennon. A proposito, Duran Duran fu registrato, agli AIR Studios di Londra, proprio nel dicembre del 1980, quando da New York arrivava la notizia dell’assassinio di Lennon. Più tardi i Duran confessarono quanto fu difficile portare a termine le registrazioni dopo aver sentito quella notizia. Ma in quei giorni in quello studio c’erano proprio i Japan, i loro idoli, che stavano registrando Gentlemen Take Polaroids in fondo alla sala dello studio.
Girls On Film, il terzo singolo estratto dall’album, è stato il salto definitivo dei Duran Duran verso la fama. Merito anche di un video ad effetto, arrivato proprio nel momento in cui, grazie a MTV, il videoclip diventava allo stesso tempo una forma ad arte a sé, e il miglior veicolo promozionale per lanciare un singolo e un artista in vetta alle classifiche. Girls On Film era uno di questi video: fatto per bucare lo schermo, scandalizzare, far discutere. Era stato girato dal duo Godley & Creme, musicisti e videomaker tra i più in voga al tempo, e due settimane dopo venne lanciato negli Stati Uniti da MTV. Nel video, i Duran Duran suonano di fronte a un ring, sul quale si avvicendano una serie di numeri da nightclub: una ragazza mima un combattimento con un lottatore di sumo, un’altra simula un salvataggio da parte di un bagnino, una un massaggio e una cowgirl cavalca un uomo con una testa di cavallo. La parte più spinta è quella in cui due donne, di cui una in topless, lottano nel fango. Il video fece scandalo e molte reti televisive finirono per mandare in onda la versione alleggerita, senza la scena incriminata. Ma il video integrale venne trasmesso nei nightclub dotati di schermi video, e sulle nostre tivù musicali spesso veniva tramesso. Ma è un video che ha una sua ironia e, nonostante sia spinto, non è mai volgare. A maggior ragione se visto oggi. La potenza del suono di Girls On Film e quel video così particolare portarono l’album la terza posizione nella Top 20 inglese.
La Duranmania doveva ancora iniziare, e le ragazze che avrebbero voluto sposare Simon Le Bon anche. Da lì a poco sarebbe arrivato Rio, il secondo album, e i video esotici girati da Russell Mulcahy. Sarebbero arrivate le loro canzoni più belle e più famose, quelle che avrebbero fissato per sempre nell’immaginario il suono e l’immagine dei Duran Duran. Ma il primo album aveva forse un suono ancora più sperimentale, coraggioso, innovativo. I Duran Duran, insieme a un’altra manciata di artisti, avevano lanciato il movimento dei new romantic. Un movimento fatto di musica, come detto, ma anche di look sgargianti e sfrontati. I Duran Duran, grazie alla collaborazione con stilisti come Perry Haines, Kahn & Bell e Anthony Price, a ogni video e ogni apparizione si distinguevano per il loro abiti. Se i pantaloni sono spesso quelli di pelle tipici del rock, a volte stretti, a volte più larghi e a vita alta, i nostri vestono spesso con camicioni dalle maniche larghe e dal collo a sbuffo che sembrano usciti da un film su Casanova. Hanno vistose sciarpe attorno al collo, o strette in vita a mò di cinture, e a volte portano delle fasce annodate sulla fronte. Nel loro guardaroba ci sono quelle giubbe militari che oggi vediamo molto spesso, e il tipico giubbetto del rock, il chiodo, magari è di colore bianco, come quello che indossa Simon Le Bon nel video di Girls On Film, o blu. Gli abiti sono speso di tinte pastello, ad esempio carta da zucchero. Un classico del periodo, poi, sono le t-shirt, colorate o bianche e nere, a righe orizzontali. Il trucco sul volto è spesso deciso, pesante. E i capelli sono colorati con meches, bionde o di altri colori, e spesso dalle forme molto voluminose.
Quelle parole di Planet Earth possono suonare come “qualche nuovo romantico in cerca del segnale della tv”, o “in cerca di una sigla per la tv”. Ma ci piace leggere, in quei versi, che quei new romantic stessero cercando il suono della tv, cioè il prodotto perfetto per le nuove tivù musicali che stavano nascendo, una forma d’arte che unisse musica e immagini, canzoni e videoclip perfetti e inscindibili da essere una cosa sole nell’immaginario collettivo, suoni all’avanguardia e un look all’altezza di essi. A quarant’anni da Duran Duran, se oggi vi guardate e attorno e tenete le orecchie aperte, vedrete ancora in giro tracce del look new romantic. E, se le hit dei Duran risuonano ancora, hanno lasciato anche molte tracce sonore in canzoni di oggi e in band che, da almeno vent’anni o forse di più, in qualche modo provano a recuperare il loro suono.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Io volevo essere eterna – La biografia di Krizia

Published
2 anni agoon
7 Giugno 2021By
DailyMood.it
«Chi sceglie Krizia, ha scelto un modo di pensare, di presentarsi agli altri, di essere» Umberto Eco.
Krizia è un nome preso in prestito da un dialogo di Platone sulla vanità femminile, lo scelse Mariuccia Mandelli (Bergamo 1925 – Milano 2015) per la sua casa di moda. E per se stessa. Icona di stile nel mondo intero, in America era soprannominata «Crazy Krizia» e in Asia veniva trattata come una regina. Ha contribuito alla nascita del prêt-à-porter italiano e a plasmare la donna moderna a suon di plissé, hot pants, animali e materiali inediti. Dismessi i panni di maestra elementare, dopo un’infanzia trascorsa a cucire vestiti per le sue bambole, Mariuccia parte con una valigia piena di abiti da vendere alle boutique in giro per l’Italia: ha con sé idee innovative, un sorriso genuino e la tempra di una pantera. Nel giro di pochi anni costruisce un impero, alla sua corte tra i primi collaboratori ci sono Walter Albini e Karl Lagerfeld, e di fatto scrive la storia della moda con sessant’anni di collezioni.
Questa biografia si costruisce attraverso le sue stesse dichiarazioni – estratte da centinaia di interviste rilasciate dalla stilista e conservate negli archivi di «Corriere della Sera», «la Repubblica», «Vogue», «Amica», «Elle» – e la compenetrazione dell’autrice nelle sue pieghe di donna, nelle sue contraddizioni, nelle idee che l’hanno ispirata fino ai novant’anni. E nel temperamento, schietto e feroce proprio come i suoi abiti, che l’ha portata a difendere dai pregiudizi la morte di persone a lei care, come Gianni Versace e Lady Diana, a guerreggiare con la storica direttrice di «Vogue America», Anna Wintour, e a difendere con determinazione la sua innocenza nella celebre inchiesta del pool Mani Pulite sugli stilisti italiani.
Anna Marchitelli (1982) è nata, vive e lavora a Napoli. Scrive dal 2016 per il «Corriere del Mezzogiorno», dorso del «Corriere della Sera», e collabora con gli inserti speciali. Dal 2010 al 2016 ha scritto per «la Repubblica Napoli». Suoi articoli sono apparsi su «Grazia», «Vanity Fair», «D di Repubblica», «I’M Magazine», «Casa Mia Decor». Nel 2017 ha pubblicato la raccolta di poesie Certe stanze (Manni Editori), aggiudicandosi il premio «L’Iguana» dedicato ad Anna Maria Ortese. Nel 2018 ha pubblicato Tredici canti (12+1) (Neri Pozza), riscrittura delle cartelle cliniche custodite nell’archivio dell’ex manicomio di Napoli Leonardo Bianchi. Nel 2020 ha scritto per il teatro i monologhi su Emilio Caporali e Maria Amalia di Sassonia per la rassegna «Racconti per ricominciare». Sempre per il teatro ha lavorato al monologo su Krizia. Nel 2021 ha firmato i componimenti poetici per il libro d’artista del pittore Ciro Palumbo ispirato a L’Infinito di Leopardi.
Info tecniche:
Collana Beaubourg – Varia
Data di uscita: 15 giugno 2021
Pagine: 180
€ 17,00
Isbn 978-88-6799-803-6
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