Mood Face
U2. L’albero di Giosuè ha una nuova vita

Non hanno ancora trovato quello che stanno cercando. E per fortuna. L’idea che questo The Joshua Tree Tour 2017 ci portasse una band seduta sugli allori, ripiegata su se stessa, in vena di autocelebrazioni, era stata già ampiamente fugata dai primi show in Nord America. Dopo aver visto gli U2 a Roma, allo Stadio Olimpico, il 15 e 16 luglio, ne siamo convinti. Non avere trovato quello che si sta cercando vuol dire affrontare ogni concerto come se fosse il primo, o l’ultimo. E vuol dire portare un disco storico come The Joshua Tree (30 anni e non sentirli) su un palco e presentarlo al pubblico non come se fosse un pezzo da museo, ma come un disco appena uscito. Niente video d’epoca, niente album dei ricordi. Ma un viaggio dentro il cuore di quell’America che trent’anni fa ispirò il disco. Quando, dopo quattro canzoni, lo schermo (in alta definizione, 8k, alto come un palazzo di 5 piani) si accende, siamo dentro un film in cinemascope, con le immagini di Anton Corbijn – girate per l’occasione, nell’America di oggi – che ci immergono in quel paesaggio stato d’animo che trent’anni fa era entrato nel nostro immaginario attraverso le foto di copertina, e poi con la nostra fantasia. Gli U2 hanno sempre considerato The Joshua Tree un disco “cinematico”, un film fatto di canzoni. E oggi il film va finalmente in scena.
Il viaggio nel fascino e nelle contraddizioni dell’America inizia con Where The Streets Have No Name, e The Joshua Tree verrà suonato in sequenza. Come in ogni concerto, dal 1987, il palco, e tutto lo stadio, si colorano di rosso. Parte un suono d’organo, e l’arpeggio di The Edge. Ai colpi di batteria ecco lo schermo diventare di un bianco accecante. Ma capiamo che è il chiaro di un cielo, la macchina da presa scende, e siamo proiettati dentro una strada deserta. I Still Haven’t Found What I’m Looking For ci porta dentro una foresta: alberi forti, e poi quelli più contorti e sottili, l’albero di Giosuè, una pianta che cresce con poca acqua, simbolo dell’album e metafora di vite che fanno di tutto per farcela tra mille difficoltà. With Or Without You ci porta nel rosso di un deserto, mentre sugli spalti arriva la sorpresa dei fan italiani: la coreografia, ideata da U2Place, è realizzata con migliaia di fogli colorati che creano l’immagine dell’albero e la scritta 30 in nero su fondo giallo oro. Bullet The Blue Sky ha il solito impatto deflagrante: è l’America della guerra, 30 anni fa, ai tempi di Reagan, come oggi. Uomini e donne si mettono un elmetto nelle immagini di Corbijn, mentre lo schermo finalmente riprende anche la band. La durezza del brano si stempera in Running To Stand Still, ballata che parla di droga, con The Edge al piano. E finalmente Red Hill Mining Town, il pezzo mai suonato dal vivo, che acquista una vita nuova grazie a una band di ottoni, che irrompe sullo schermo e nel suono, trasformando la canzone in una ballata soul.
A questo punto Bono si ferma. Gli U2 si fermano. C’è da girare il disco, o la cassetta. “Benvenuti al secondo lato della cassetta di The Joshua Tree”, esclama Bono, prima di partire in una tiratissima In God’s Country, una canzone su come cambiano i territori, forse ancora più attuale oggi di 30 anni fa. Una donna in bikini a stelle e strisce fa da sfondo a Trip Through Your Wires, brano carico di blues, sudore e desiderio. Quello che accomuna gli irlandesi agli italiani è il concetto di famiglia, ricorda Bono prima di iniziare One Three Hill, dedicato a Greg Carroll, roadie della band, uno di famiglia appunto, scomparso in un incidente proprio durante le registrazioni di quell’album. Il climax del concerto è Exit, un brano oscuro, privo di speranza, un brano di follia e assassinio, sostenuto da una linea di basso ossessiva e una chitarra nervosa. Bono, che non cantava più Exit da anni, perché non si sentiva a proprio agio, sceglie di uscire da se stesso ed entrare in un personaggio, The Shadowman, con un cappello nero e tesa larga e movenze inquietanti, che chiude la canzone con la filastrocca Eeny Meeny Miny Moe. È un’altra delle sue maschere, quelle che non frequentava più dopo The Fly, Mirrorball Man e Mr. MacPhisto. Exit ci porta nel cinema. Ed era stato proprio un vecchio western (la serie tv Trackdown) in cui sentono le parole “You’re a liar, Trump (sei un bugiardo Trump)!” a introdurre il brano. Che viene seguito da Mothers Of The Disappeared, che chiude la seconda parte del concerto, come chiudeva il disco.
Se il cuore dello show è The Joshua Tree, l’inizio era stato da cardiopalma: nel piccolo palco, che sembra l’ombra dell’albero che sovrasta il palco principale, gli U2 avevano inanellato quattro classici: Sunday Bloody Sunday, New Year’s Day, Bad (dedicata a John Keats, e seguita da Heroes, omaggio a David Bowie, mentre nella seconda data c’è stata A Sort Of Homecoming) e Pride. È il racconto di come gli U2 sono arrivati a The Joshua Tree. E il terzo atto è dedicato al futuro. In molti sensi. Con quegli inni che sono venuti molto dopo (Beautiful Day, Elevation, Vertigo), e con i brani del disco che, dopo The Joshua Tree, avrebbe cambiato di nuovo la storia dei quattro di Dublino, Achtung Baby (Ultra Violet e One, e Mysterious Ways nella seconda data). Ma il futuro, per i nostri, sono soprattutto le donne. Così Miss Sarajevo (con la voce registrata di Luciano Pavarotti) è dedicata alla Siria, e ci mostra una ragazza di 15 anni, in un campo profughi, che ci racconta i suoi sogni. E Ultra Violet è dedicata a tutte le donne che, in qualche modo, hanno cambiato la storia, da Marie Curie ad Anna Frank fino alla nostra Rita Levi-Montalcini.
Il futuro è anche il nuovo disco, Songs Of Experience, che, a detta di The Edge, è pronto. Gli U2 non vorrebbero mai un’operazione che fosse solo passato, e così salutano con un estratto dal nuovo album, The Little Things That Give You Away. Un ponte verso il nuovo lavoro, e anche verso un tour che probabilmente li porterà di nuovo in Italia. Che cosa rimane di questo The Joshua Tree Tour 2017? L’attualità di brani che sembrano scritti oggi, per un mondo che, se è andato avanti, sembra anche tornare pericolosamente indietro. E la freschezza di un suono che – diventato ormai un classico, un genere a sé e citato da decine di artisti e band – non è affatto invecchiato. Il rock vive anche della sua memoria, di valori forti che si sono consolidati in anni di storia. E chi, se non quelli che di questa storia sono i testimoni perché hanno contribuito a farla, hanno il diritto di portarla in scena? Così, se Bowie anni fa aveva riportato sul palco il suo Low, se Springsteen ha fatto il The River Tour in omaggio a un suo album storico, se Roger Waters continua a celebrare The Wall per non farlo dimenticare, il Joshua Tree Tour degli U2 sta a pieno diritto nella storia del rock, e nel suo appassionante, e sempre attale, racconto. Quello che colpisce è la freschezza, la passione, la grinta con cui la band l’ha portato sul palco. Un’iniezione di linfa vitale. Che ha dato al nostro amato albero di Giosuè una nuova vita.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.
E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.
La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.
Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.
Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.
Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.
Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…
di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it
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Duran Duran: Quei new romantic in cerca del suono della tv
Published
2 anni agoon
17 Giugno 2021
“Some new romantics looking for a tv sound” recita, a un certo punto, il testo di Planet Earth, il primo successo dei Duran Duran, la band che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e, questo non lo immaginava nessuno, è ancora viva, vegeta e in ottima salute. E, a quarant’anni dall’uscita del primo album, Duran Duran (arrivò nei negozi proprio il 15 giugno del 1981) continua a fare tendenza. Se negli anni Ottanta Simon Le Bon, Nick Rhodes, John Taylor, Andy Taylor e Roger Taylor, da Birmingham, UK, idoli delle ragazzine per la loro bellezza, erano considerati alla stregua di una boyband, oggi tutti li considerano una grande band, gli artefici di un suono che ancora oggi è attualissimo, e che ha ispirato decine di gruppi che sarebbero venuti dopo di loro. I Duran Duran sono forse tra i più famosi esponenti del genere new romantic, una variante della new wave, il movimento che, in varie sfaccettature, seguì il punk.
I Duran Duran nascono già nel 1978. Sono tre studenti d’arte, John Taylor alla chitarra, Nick Rhodes ai sintetizzatori e Stephen Duffy alla voce e al basso. I tre sono compagni di scuola e amano gli artisti glam e synth pop. È proprio John Taylor a suggerire il nome per la band: si chiamerà Duran Duran ispirandosi a Durand Durand, il cattivo del film Barbarella, famoso film di fantascienza con Jane Fonda. E, se ascoltate certe linee di tastiera del primo album dei Duran, sentirete che una certa atmosfera fantascientifica c’è tutta. Nella band entrerà poi Simon Colley, al clarinetto e al basso. Ma, già dopo il terzo concerto, Duffy e Colley se ne andranno. John Taylor lascerà la chitarra per imbracciare il basso, lo strumento con cui darà un groove inconfondibile al suono dei Duran Duran. Alla batteria ci sarà il secondo Taylor, Roger. Il terzo, Andy Taylor (i tre non sono parenti) entrerà nella band come chitarrista. Alla voce ci proverà Andy Wickett, che registrerà con la band alcune demo. Ma non saranno i Duran Duran che conosciamo fino a che, con la sua voce inconfondibile, non prenderà in mano il microfono Simon Le Bon.
Il biglietto da visita con cui i Duran Duran si sono presentati al mondo è il singolo Planet Earth, quello in cui si parla di new romantic in cerca del suono della televisione. È una canzone trascinante che, ancora oggi, sembra arrivare da un altro pianeta. Ci sono i synth spaziali di Nick Rhodes, il basso incalzante di John Taylor, il ritmo sincopato della batteria di Roger Taylor che si sposa alla perfezione con i salti del basso, la chitarra ritmica rockeggiante di Andy Taylor. E poi quegli effetti sonori che sembrano evocare l’atterraggio di un elicottero, o qualsiasi altro veicolo vogliate immaginare. Magari un’astronave. È qui che sentiamo già tutte le influenze che hanno reso quello dei Duran Duran un suono unico. In quella ritmica c’è, ad esempio, il groove di Giorgio Moroder, quello, per capirci, di I Feel Love di Donna Summer. L’influenza dei Roxy Music, una band che aveva dato una propria interpretazione del glam rock, la sentiamo tutta in Girls On Film, il brano che apre l’album. Ascoltate Love Is The Drug dei Roxy Music e poi questa canzone, e capirete quanto siano importanti. E poi, ancora, ci sono gli Chic, ci sono i Japan di David Sylvian, idolo di Nick Rhodes, tanto che i due sembrano due gemelli separati alla nascita. E ovviamente David Bowie, che in qualche modo aveva lanciato il movimento new romantic nel suo video Ashes To Ashes, in cu apparivano alcune comparse prese da quella scena, tra cui Steve Strange dei Visage. Nelle linee melodiche orientaleggianti di Tel Aviv, lo strumentale che chiude il disco, ci sono degli echi di alcune canzoni del Bowie della trilogia berlinese. E nella versione Deluxe di Duran Duran, del 2010, c’è una cover di Fame (che i Duran incisero come lato B di Careless Memories), il brano, tratto da Young Americans, che Bowie registrò a metà anni Settanta insieme a John Lennon. A proposito, Duran Duran fu registrato, agli AIR Studios di Londra, proprio nel dicembre del 1980, quando da New York arrivava la notizia dell’assassinio di Lennon. Più tardi i Duran confessarono quanto fu difficile portare a termine le registrazioni dopo aver sentito quella notizia. Ma in quei giorni in quello studio c’erano proprio i Japan, i loro idoli, che stavano registrando Gentlemen Take Polaroids in fondo alla sala dello studio.
Girls On Film, il terzo singolo estratto dall’album, è stato il salto definitivo dei Duran Duran verso la fama. Merito anche di un video ad effetto, arrivato proprio nel momento in cui, grazie a MTV, il videoclip diventava allo stesso tempo una forma ad arte a sé, e il miglior veicolo promozionale per lanciare un singolo e un artista in vetta alle classifiche. Girls On Film era uno di questi video: fatto per bucare lo schermo, scandalizzare, far discutere. Era stato girato dal duo Godley & Creme, musicisti e videomaker tra i più in voga al tempo, e due settimane dopo venne lanciato negli Stati Uniti da MTV. Nel video, i Duran Duran suonano di fronte a un ring, sul quale si avvicendano una serie di numeri da nightclub: una ragazza mima un combattimento con un lottatore di sumo, un’altra simula un salvataggio da parte di un bagnino, una un massaggio e una cowgirl cavalca un uomo con una testa di cavallo. La parte più spinta è quella in cui due donne, di cui una in topless, lottano nel fango. Il video fece scandalo e molte reti televisive finirono per mandare in onda la versione alleggerita, senza la scena incriminata. Ma il video integrale venne trasmesso nei nightclub dotati di schermi video, e sulle nostre tivù musicali spesso veniva tramesso. Ma è un video che ha una sua ironia e, nonostante sia spinto, non è mai volgare. A maggior ragione se visto oggi. La potenza del suono di Girls On Film e quel video così particolare portarono l’album la terza posizione nella Top 20 inglese.
La Duranmania doveva ancora iniziare, e le ragazze che avrebbero voluto sposare Simon Le Bon anche. Da lì a poco sarebbe arrivato Rio, il secondo album, e i video esotici girati da Russell Mulcahy. Sarebbero arrivate le loro canzoni più belle e più famose, quelle che avrebbero fissato per sempre nell’immaginario il suono e l’immagine dei Duran Duran. Ma il primo album aveva forse un suono ancora più sperimentale, coraggioso, innovativo. I Duran Duran, insieme a un’altra manciata di artisti, avevano lanciato il movimento dei new romantic. Un movimento fatto di musica, come detto, ma anche di look sgargianti e sfrontati. I Duran Duran, grazie alla collaborazione con stilisti come Perry Haines, Kahn & Bell e Anthony Price, a ogni video e ogni apparizione si distinguevano per il loro abiti. Se i pantaloni sono spesso quelli di pelle tipici del rock, a volte stretti, a volte più larghi e a vita alta, i nostri vestono spesso con camicioni dalle maniche larghe e dal collo a sbuffo che sembrano usciti da un film su Casanova. Hanno vistose sciarpe attorno al collo, o strette in vita a mò di cinture, e a volte portano delle fasce annodate sulla fronte. Nel loro guardaroba ci sono quelle giubbe militari che oggi vediamo molto spesso, e il tipico giubbetto del rock, il chiodo, magari è di colore bianco, come quello che indossa Simon Le Bon nel video di Girls On Film, o blu. Gli abiti sono speso di tinte pastello, ad esempio carta da zucchero. Un classico del periodo, poi, sono le t-shirt, colorate o bianche e nere, a righe orizzontali. Il trucco sul volto è spesso deciso, pesante. E i capelli sono colorati con meches, bionde o di altri colori, e spesso dalle forme molto voluminose.
Quelle parole di Planet Earth possono suonare come “qualche nuovo romantico in cerca del segnale della tv”, o “in cerca di una sigla per la tv”. Ma ci piace leggere, in quei versi, che quei new romantic stessero cercando il suono della tv, cioè il prodotto perfetto per le nuove tivù musicali che stavano nascendo, una forma d’arte che unisse musica e immagini, canzoni e videoclip perfetti e inscindibili da essere una cosa sole nell’immaginario collettivo, suoni all’avanguardia e un look all’altezza di essi. A quarant’anni da Duran Duran, se oggi vi guardate e attorno e tenete le orecchie aperte, vedrete ancora in giro tracce del look new romantic. E, se le hit dei Duran risuonano ancora, hanno lasciato anche molte tracce sonore in canzoni di oggi e in band che, da almeno vent’anni o forse di più, in qualche modo provano a recuperare il loro suono.
di Maurizio Ermisino per DailyMood.it
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Io volevo essere eterna – La biografia di Krizia

Published
2 anni agoon
7 Giugno 2021By
DailyMood.it
«Chi sceglie Krizia, ha scelto un modo di pensare, di presentarsi agli altri, di essere» Umberto Eco.
Krizia è un nome preso in prestito da un dialogo di Platone sulla vanità femminile, lo scelse Mariuccia Mandelli (Bergamo 1925 – Milano 2015) per la sua casa di moda. E per se stessa. Icona di stile nel mondo intero, in America era soprannominata «Crazy Krizia» e in Asia veniva trattata come una regina. Ha contribuito alla nascita del prêt-à-porter italiano e a plasmare la donna moderna a suon di plissé, hot pants, animali e materiali inediti. Dismessi i panni di maestra elementare, dopo un’infanzia trascorsa a cucire vestiti per le sue bambole, Mariuccia parte con una valigia piena di abiti da vendere alle boutique in giro per l’Italia: ha con sé idee innovative, un sorriso genuino e la tempra di una pantera. Nel giro di pochi anni costruisce un impero, alla sua corte tra i primi collaboratori ci sono Walter Albini e Karl Lagerfeld, e di fatto scrive la storia della moda con sessant’anni di collezioni.
Questa biografia si costruisce attraverso le sue stesse dichiarazioni – estratte da centinaia di interviste rilasciate dalla stilista e conservate negli archivi di «Corriere della Sera», «la Repubblica», «Vogue», «Amica», «Elle» – e la compenetrazione dell’autrice nelle sue pieghe di donna, nelle sue contraddizioni, nelle idee che l’hanno ispirata fino ai novant’anni. E nel temperamento, schietto e feroce proprio come i suoi abiti, che l’ha portata a difendere dai pregiudizi la morte di persone a lei care, come Gianni Versace e Lady Diana, a guerreggiare con la storica direttrice di «Vogue America», Anna Wintour, e a difendere con determinazione la sua innocenza nella celebre inchiesta del pool Mani Pulite sugli stilisti italiani.
Anna Marchitelli (1982) è nata, vive e lavora a Napoli. Scrive dal 2016 per il «Corriere del Mezzogiorno», dorso del «Corriere della Sera», e collabora con gli inserti speciali. Dal 2010 al 2016 ha scritto per «la Repubblica Napoli». Suoi articoli sono apparsi su «Grazia», «Vanity Fair», «D di Repubblica», «I’M Magazine», «Casa Mia Decor». Nel 2017 ha pubblicato la raccolta di poesie Certe stanze (Manni Editori), aggiudicandosi il premio «L’Iguana» dedicato ad Anna Maria Ortese. Nel 2018 ha pubblicato Tredici canti (12+1) (Neri Pozza), riscrittura delle cartelle cliniche custodite nell’archivio dell’ex manicomio di Napoli Leonardo Bianchi. Nel 2020 ha scritto per il teatro i monologhi su Emilio Caporali e Maria Amalia di Sassonia per la rassegna «Racconti per ricominciare». Sempre per il teatro ha lavorato al monologo su Krizia. Nel 2021 ha firmato i componimenti poetici per il libro d’artista del pittore Ciro Palumbo ispirato a L’Infinito di Leopardi.
Info tecniche:
Collana Beaubourg – Varia
Data di uscita: 15 giugno 2021
Pagine: 180
€ 17,00
Isbn 978-88-6799-803-6
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