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The Undoing – Le verità non dette: Nicole Kidman, Matilda De Angelis e altre piccole grandi bugie su Sky e NOW TV

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Nicole Kidman si muove leggiadra, e vestita di stoffe sottilissime, in eleganti interni borghesi come in Eyes Wide Shut. Siamo invece in una delle prime sequenze di The Undoing – Le verità non dette, la nuova serie tv che va in onda, tutta subito, l’8 gennaio alle 21.15 su Sky Atlantic e in streaming su NOW TV. È un esperimento interessante, che avvicina la tivù cosiddetta lineare a quella in streaming: da questa stessa data, infatti, tutti gli episodi saranno disponibili On Demand su Sky e in streaming su NOW TV a partire dalle 6.00. Il 9 e il 10 gennaio, inoltre, Sky Atlantic +1 (canale 111) si trasforma e diventa Sky Atlantic Maratone, con una programmazione interamente dedicata alla serie.

Abbiamo citato Eyes Wide Shut, e ne parleremo ancora, anche se, ovviamente, non stiamo parlando di Stanley Kubrick. Ma certi temi, i tradimenti, i segreti, le cose non dette, gli ambienti upper class, oltre alla bellezza di Nicole Kidman, ci portano con il pensiero da quelle parti. The Undoing – Le verità non dette, è comunque una serie d’Autore. Dietro alla macchina da presa c’è Susanne Bier, regista danese particolarmente portata per i family drama (Non desiderare la donna d’altri, il sottovalutato Things We Lost In The Fire, da noi uscito con il titolo Noi due sconosciuti, possono essere considerati tali), che ha sempre affrontato con una sensibilità particolare. Ma, soprattutto, The Undoing è la nuova serie firmata da David E. Kelley, sceneggiatore di Ally McBeal e, soprattutto, di quel Big Little Lies che vedeva Nicole Kidman come protagonista. Come quella serie, anche The Undoing è un family drama con delitto, una storia dove le dinamiche familiari, i rapporti tra padri e figli, tra mariti e mogli, si mescolano con il noir. Dove un aspetto serve a svelare l’altro, e viceversa. Entrambe ci raccontano molto dell’America di oggi, e in fondo di tutto l’Occidente, dove le classi sociali esistono ancora, eccome, e dove il mondo dell’alta società e quello delle persone normali non possono mai mescolarsi. Il primo è arroccato nella difesa a tutti i costi dei suoi privilegi, il secondo bloccato dal suo perenne senso di inferiorità e inadeguatezza.

È quello che accade in questa storia, tratta dal romanzo di Jean Hanff Korelitz You Should Have Known (caso letterario del 2014 da dicembre 2020 in libreria grazie a PIEMME) in cui, a New York, si incontrano/scontrano le vite Grace Fraser (Nicole Kidman), psicoterapeuta affermata, sposata con Jonathan (Hugh Grant), stimato oncologo pediatrico, ed Elena Alves (Matilda De Angelis), giovane madre il cui figlio frequenta – grazie a una borsa di studio – la stessa scuola del figlio di Grace, un istituto privato d’élite nell’Upper East Side. Elena ha appena avuto una bambina. Le due donne si incontrano alla riunione di un comitato per un’asta di beneficenza della scuola, dove Elena sembra essere un pesce fuor d’acqua. Ma anche una presenza in qualche modo deflagrante. Quando si scopre il seno per allattare la bambina, con un gesto che potrebbe essere naturale, ma anche di sfida, lascia Grace e le altre madri turbate…

È così che la nostra Matilda De Angelis entra nel firmamento di Hollywood. Nella prima mezz’ora di The Undoing la sua bellezza riesce quasi a mettere in secondo piano quella di Nicole Kidman, così come il corpo della sua Elena riesce a mettere a disagio, in imbarazzo, il personaggio di Grace. Elena è forte di una sensualità sfrontata, giovane, acerba ma irresistibile. Ma nel suo sguardo c’è una sorta di tristezza, di malinconia che la rende insondabile, e misteriosa. Matilda De Angelis, con The Undoing, fa un ulteriore salto di qualità, e si dimostra versatile, tanto da essere credibile sia come un’adolescente, come in Veloce come il vento e Youtopia, che come una giovane madre.

Non è da tutti riuscire a distogliere l’attenzione da una Nicole Kidman che è la grande protagonista della storia. Dire che il tempo, da Eyes Wide Shut, sembra non essere passato, non è ironia. Certo c’è stata la chirurgia a fermare la bellezza, ma per un certo periodo anche la carriera, dell’attrice australiana. Ma questa sembra oggi meno evidente, anche se è innegabile che la Kidman oggi appaia una bellezza senza età. Ma troviamo in lei una nuova maturità, mentre attraversa The Undoing con il volto enigmatico della Gioconda, con quei capelli ricci, ramati e dorati, che la fanno sembrare una bellezza preraffaellita. La regia di Susanne Bier – da sempre attenta ai primissimi piani, ai particolari – indugia spesso sui suoi occhi spalcanti, quegli occhi aperti/chiusi, come recitava il titolo ossimoro di Eyes Wide Shut, stupiti davanti a quello che le succede, ma anche incapaci di vedere cosa dovrebbe vedere, di leggere in sé stessa quello che – da psicologa – riesce a leggere così bene negli altri. Accanto a lei c’è un Hugh Grant sorprendente, ormai cresciuto, invecchiato, con il volto che le rughe rendono più espressivo di un tempo. Guardate il finale dell’episodio 4, in cui ogni ruga, ogni centimetro di pelle che si muove sembra raccontarci qualcosa.

Avrete capito che The Undoing è uno di quei giochi perfetti dove ogni tassello è al suo posto, un film di attori, scelti alla perfezione nei protagonisti come nei comprimari, ma anche un film di sceneggiatura, una bomba a orologeria di emozioni e colpi di scena. Rispetto a Big Little Lies è molto più spostata sulla trama gialla rispetto alla satira sociale, e per questo è una serie che scorre che è un piacere, che incolla allo schermo – qualunque sia quello attraverso cui la state guardando – e non lascia respiro. Patinata, elegante, tesa e misteriosa, è una storia che ci arriva attraverso gli occhi di Susanne Bier, un’artista europea che ci mostra un mondo, la New York dell’upper class, come la vede lei. E, come spesso accade, New York, e l’America, visti da chi viene da fuori sono iconiche, stilizzate, fissate nell’immaginario. Susanne Bier non ha paura di indugiare sugli skyline di Manhattan, sulle luci, sui grattacieli, sulle strade operose e affollate, strette e profonde come canyon, su quei tombini da cui esce il fumo. È uno sguardo che arriva dall’esterno, che ci fa vedere un mondo apparentemente come un cliché. Ma, proprio fissandolo nel suo essere iconico, sembra riuscire a coglierne l’anima. Anche la natura così elegante, laccata, patinata delle immagini non deve essere scambiata per pura forma, per maniera. È perfetta per disegnare il ritratto di un mondo che è proprio così, così ricco e bello da rasentare la perfezione. Come se fosse fatto di ceramica. Scintillante, levigato. Ma anche in grado di incrinarsi molto facilmente.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Dark Matter: Le vite che non abbiamo mai vissuto… con Joel Edgerton e Jennifer Connelly, su Apple Tv+

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“E se quel giorno, invece di aver fatto quella scelta, avessi…”. Quante volte nella vita ci siamo fatti questa domanda? E quante volte, al cinema, abbiamo visto personaggi in qualche modo sdoppiarsi in due, tra quella che è la loro vita e quella che sarebbe potuta essere? Dark Matter, la nuova serie Apple Original, disponibile dall’8 maggio su Apple Tv+, con i primi due episodi (seguiti da un nuovo capitolo settimanale fino al 26 giugno) ripropone ancora una volta questo tema, ma lo fa con un thriller oscuro e misterioso, intrigante ed ipnotico che tiene incollati allo schermo. Forse è il nuovo Lost, forse non lo è, perché siamo in territori, colori e interrogativi, ma è dalla serie di J.J. Abrams (e, volendo, dalla prima stagione di Westworld) che una serie non ci emozionava in questa maniera. Definito come uno dei migliori romanzi di fantascienza del decennio, Dark Matter è una storia sulla strada non percorsa. La serie Apple lo rende in una forma visiva sublime e con delle prestazioni attoriali estremamente intense. Dark Matter è una delle serie dell’anno.

Jason Dessen (Joel Edgerton) è un fisico, un professore e un padre di famiglia che vive una vita serena e felice a Chicago. Una notte, mentre torna a casa per le strade della città viene rapito da un misterioso uomo con una maschera bianca sul volto. Quando si risveglia, si rende conto di avere a che fare con delle persone che conosce. Tutti lo riconoscono, lui non riconosce tutti. Non riconosce il posto in cui si trova: sono stanze e corridoi grigi, ambulatori e laboratori di quella che sembra essere una grande azienda. Presto si rende conto di trovarsi in una versione alternativa della sua vita. Cerca di tornare alla sua realtà, ma non è affatto facile. Non ce n’è solo una, ma una serie di vite che avrebbe potuto vivere. Nel frattempo vediamo Jason tornare a casa, seppure in ritardo, dall’amata moglie Daniela (Jennifer Connelly). Come è possibile? Presto Jason capisce che dovrà salvare la sua famiglia dal nemico più terrificante e imbattibile che si possa immaginare: se stesso.

C’è una scatola. Dentro c’è un gatto. E un meccanismo che potrebbe farlo morire. Secondo una teoria c’è una possibilità, che il gatto sia vivo e morto allo stesso tempo. È il paradosso del gatto di Schrödinger che, tramite un disegno alla lavagna, Jason spiega ai suoi studenti. Secondo un’affascinante teoria di fisica quantistica le nostre scelte possono scatenare ogni volte infinite vite parallele, infiniti mondi. Proprio come quei videogame a scelta multipla, in cui, a ogni svolta, prende vita una strada diversa. La teoria al centro di Dark Matter è che questi mondi alternativi non siano teorici ma reali. E che qualcuno abbia trovato il modo per muoversi tra di essi. Sì, Dark Matter parla di multiverso. Ma non nella maniera in cui il cinema ne ha parlato finora.

Si tratta di fare una grande sospensione dell’incredulità e di farsi avvolgere dal racconto fino a precipitarvi inesorabilmente dentro. Non sarà difficile sospendere l’incredulità – in fondo non lo facciamo sempre di fronte a una serie o a un film? – e non vi preoccuperete molto di capire la teoria di fisica quantistica alla base del racconto. Perché Dark Matter è estremamente convincente sia per i mondi che costruisce, sia per la tensione e il dramma che provano i personaggi e arrivano dritti allo spettatore.

La regia e la fotografia disegnano un mondo grigio antracite, oscuro e misterioso. È un mondo di strutture metalliche fredde, levigate, di una tecnologia che ci sembra ostica, nemica. I toni dell’immagine poi cambiano, diventando più caldi o più freddi, a seconda della vita che stiamo seguendo. Il centro di gravità permanente della storia è quella scatola, quel cubo nero imponente come il monolite di Kubrick ed enigmatico come il cubo di Rubik. Lasciate ogni speranza voi che entrate, scriverebbe il poeta. Una volta dentro c’è un corridoio – sempre buio, sempre grigio – potenzialmente infinito. È un corridoio doloroso, perché dentro ci sono tutte le nostre occasioni perdute e forse quelle evitate. Ci sono i nostri rimorsi e i nostri rimpianti. Ci sono le nostre paure e le nostre incertezze. E anche le catastrofi.

E dentro questo limbo ci sono le persone, con i loro legami, i nostri sentimenti. Un uomo che vuole tornare dalla donna amata, dal figlio, da quella storia costruita con fatica, compromessi e rinunce, ma che è diventata una casa solida. Torniamo ancora a Lost, sperando di non nominare la parola invano, perché le storie tra Penny e Desmond e Jack e Kate si inserivano nel contesto del mistero, contribuendo e renderlo tutto ancora più intenso e caldo. Se Dark Matter è una serie riuscita lo dobbiamo anche alla trama sentimentale e agli attori che la mettono in scena. Joel Edgerton non è mai stato così a fuoco, così perfetto in una parte in tutta la sua carriera, e questa serie è la sua consacrazione: volto duro, spigoloso, ferito, ma con due occhi che possono essere ghiaccio o sciogliersi in sguardi dolenti e teneri. A tratti sembra di vedere il miglior Kurt Russell. Jennifer Connelly è al solito affascinante, e diversa a seconda dei mondi in cui si trova: moglie semplice e intrigante, con i capelli corti a caschetto e vestiti comodi, o artista irresistibilmente sexy con abiti da sera e capelli lunghi. Un’altra attrice che abbina bellezza e intensità e che, più di vent’anni dopo l’Oscar per A Beautiful Mind, si ritrova in una storia fatta di labirinti della mente.

Che sia il nuovo Lost o meno (quello che scriviamo è rischiosissimo, e ne siamo consci) Dark Matter è una grande serie, una delle serie dell’anno. È un racconto potente, intenso, e originale, pur contenendo in sé una serie di rimandi. L’architettura tecnologica, la famosa scatola dove si muovono i protagonisti (non dimentichiamo la bravissima e affascinante Alice Braga), ci rimanda alla fantascienza di The Cube, non solo per il marchingegno al centro del racconto, ma anche perché la serie, come in quel film, si pone interrogativi chiave delle nostre esistenze, il fondamentale che ci facciamo in questo mondo e dove stiamo andando”. Tra i riferimenti di Dark Matter ci sono anche i film che hanno parlato di realtà parallele, come Smoking/No Smoking e Sliding Doors (per non parlare dei paradossi temporali da Ricomincio da capo a Questione di tempo che finiscono, a loro modo, per creare mondi paralleli), ma l’originalità di Dark Matter è togliere tutto quello che di pop e di commedia ci fosse in quei film per portarci in un mondo angosciante. È c’è anche Face/Off. Pensate all’idea di guardare un uomo in volto, sapendo che dietro quel volto, in fondo, c’è qualcun altro. Altro non possiamo dirvi, non vi resta che sprofondare nel buio di Dark Matter.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Loro: La paura, il terrore e il razzismo arrivano su Prime Video

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Pam Grier appare subito, in una delle prime scene di Loro: La paura (Them: The Scare), seconda stagione della serie antologica horror creata da Little Marvin, disponibile in streaming su Prime Video. La presenza della famosa attrice afroamericana ci vuole dire subito una cosa: la nuova stagione di Loro, ambientata nel 1991, è un omaggio al cinema Blaxploitation degli anni Settanta e a quel cinema degli anni Novanta che lo ha riportato in auge. Ricorderete tutti Jackie Brown di Quentin Tarantino, che aveva scelto Pam Grier come protagonista proprio per riprendere quel mondo. Per questo Loro: La paura è un viaggio tra i Settanta e i Novanta, una nuova storia che rimane perfettamente coerente con quella della prima stagione di Loro.

Loro: La paura è ambientato ancora una volta nella contea di Los Angeles. La prima stagione, Loro: Covenant, era ambientata a Compton nel 1952. Adesso siamo nel 1991. La detective della squadra omicidi di Los Angeles Dawn Reeve (Deborah Ayorinde) è alle prese con un nuovo caso: il raccapricciante omicidio di una madre affidataria che ha lasciato scossi anche i detective più esperti. Nel pieno di un tumultuoso periodo a Los Angeles, con una città sul filo del caos, Dawn è determinata a fermare l’assassino. Mentre si avvicina alla verità, qualcosa di sinistro attanaglia lei e la sua famiglia…

Il senso di Loro, sin dalla prima stagione, è stato quello di sublimare attraverso l’horror l’orrore. Il genere, il soprannaturale, lo spaventoso erano un veicolo per raccontare qualcos’altro di molto raccapricciante: il comportamento dei bianchi verso le persone afroamericane. Così, in Loro: Covenant, seguivamo, sconvolti, quello che accadeva a una famiglia di neri che si era appena trasferita in un quartiere benestante. L’horror arrivava in un secondo momento, era spaventoso, certo. Eppure a lasciarci sconvolti era il comportamento quotidiano delle persone.

Loro: La paura continua sulla sua strada di denuncia sociale, ma l’horror vira più sul thriller. La protagonista, infatti, è un’investigatrice che segue il caso di un serial killer. L’atmosfera funziona, tra colori chiari e omogenei, che ci riportano allo stile di un certo cinema indie anni Novanta, accesi da toni di rosso e nero che sono indispensabili al racconto. C’è molto David Fincher in questa storia. Guardate l’arrivo della polizia sul primo luogo del delitto, e vi verrà in mente l’incipit di Seven, in cui la polizia squarcia il buio con la sola luce delle sue torce. Più tardi, parlando delle modalità di comportamento del killer, si fa riferimento al caso Zodiac, che era stato raccontato da David Fincher nell’omonimo film.

Gli anni Novanta in cui si muove Loro: La paura sono anche quelli del famoso caso di Rodney King, il tassista afroamericano che fu pestato violentemente della polizia nel marzo del 1991, mentre qualcuno stava riprendendo la scena per un video che fece il giro del mondo, denunciando il razzismo e gli abusi della polizia sui neri americani (un caso simile, tristemente, è accaduto di nuovo proprio pochi giorni fa). Il pestaggio a King scatenò violenti disordini a Los Angeles nei giorni successivi alla diffusione del video e ad una grande sommossa un anno dopo, quando i poliziotti accusati vennero assolti. È in questa atmosfera che vive la nuova stagione di Loro. Ed è una grande scelta, perché è un momento chiave del razzismo in America.

Un razzismo che, in Loro: La paura, viviamo però in ogni sequenza. Seguiamo Dawn, che è una donna realizzata, emancipata, una stimata detective del LAPD, ma che è continuamente sminuita in tutta una serie di modi. È razzismo se Dawn viene affiancata da un altro collega (maschio, bianco, più anziano) per un’indagine, e se non viene dato credito alle sue piste. È razzismo se, chiedendo di poter parcheggiare nel cortile del dipartimento, viene apostrofata con epiteti che potete immaginare. È razzismo se, a ogni sua mossa, viene liquidata con delle battute. Se anche una poliziotta viene discriminata, figuratevi chi è al di fuori della polizia.

Dawn è interpretata da Deborah Ayorinde (già nel cast della prima stagione, in un altro ruolo), una vera rivelazione: un volto fiero, un piglio orgoglioso, una personalità notevole e anche una dose di sex appeal che ne fa una protagonista perfetta, un personaggio definito a tutto tondo. L’attrice storica Pam Grier interpreta la madre Athena. I bianchi, e il loro razzismo, sono interpretati da Wayne Knight, caratterista visto in molti film di Hollywood, che è il capo della polizia, Schiff, e da Jeremy Bobb, che è il viscido detective Ronald McKinney, che segue le indagini insieme a Dawn. Ma l’altra rivelazione della serie è Luke James, nel ruolo di Edmund, un ragazzo che lavora in un ristorante – parco giochi per bambini, e che è un aspirante attore. Quando, per prepararsi al provino per il ruolo di un serial killer, comincia a entrare nel ruolo, assistiamo a una serie di trasformazioni, prima goffe e poi sempre più inquietanti.

Loro: La paura viaggia tra gli anni Ottanta e Novanta anche attraverso la musica, black e non solo. C’è il pop di Rockwell con Somebody’s Watching Me (la canzone che era nata come risposta a Thriller di Michael Jackson), il rap dei Run DMC con gli Aerosmith di Walk This Way, il cool jazz di Sade e Your Love Is King. E anche un po’ di sano hard rock, con i Guns’n’Roses e Welcome To The Jungle. Little Marvin, ancora una volta, riesce a colpirci con il perturbante, con la paura che nasce da quelli che dovrebbero essere i luoghi più sicuri, gli angoli della casa. Ma che cos’è dunque la paura? “La paura è il dolore che sorge dall’anticipazione del Male”. Lo diceva Aristotele.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Briganti: Un western nel Sud dell’Italia, su Netflix

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La parola glocal è stata pronunciata spesso nelle convention e negli incontri stampa di Netflix. Come sapete, sta a significare global + local. Declinato a proposito della produzione di film e serie tv, vuol dire che Netflix ama investire su prodotti che colgano la storia, la cultura, la cronaca del Paese dove sono prodotti, ma che abbiano un’universalità che possa farli apprezzare in tutto il mondo. Le produzioni Netflix nel nostro Paese sinora sono state queste: storie italiane che possano essere apprezzate in tutto il mondo. Sono state questo infatti Suburra, Baby, Luna nera, Zero, Tutto chiede salvezza e molte altre serie che sono venute. È un chiaro esempio di questa strategia anche Briganti, la nuova serie italiana Netflix, composta da 6 episodi e prodotta da Fabula Pictures in associazione con Los Hermanos, disponibile su Netflix dal 23 aprile. Ambientato nel nostro Sud dopo l’unità d’Italia, è un racconto moderno e ricco d’azione, sul fenomeno del brigantaggio. Liberamente ispirata a figure femminili e maschili realmente esistite, la serie è un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio sulle tracce del leggendario tesoro del Sud.

1862, Sud Italia. Filomena, di origini contadine, è sposata con un ricco possessivo e violento. Ribellandosi al suo destino è costretta a rifugiarsi nei boschi popolati da pericolosi briganti, non prima di essersi impossessata della mappa per l’introvabile Oro delle Camicie Rosse. Lì viene catturata dalla banda Monaco, proprio mentre sulle sue tracce si mette un audace e misterioso cacciatore di taglie, Sparviero. In un Sud Italia impoverito e sfruttato dall’occupazione piemontese i destini di Filomena e Sparviero si uniranno in un’epica caccia al mitico tesoro, che vedrà i briganti contro l’appena costituito Regno d’Italia, ma anche briganti contro briganti. Un’avventura fatta di ribellione, amore e coraggio, dove la Storia si confonde con la leggenda e la guerra sarà vinta da chi per primo si impossesserà dell’oro…

L’idea di Briganti è buona. Perché si sceglie di prendere un genere ben preciso, come il western o il racconto picaresco, e lo si adatta a quella che è la Storia italiana. Noi italiani abbiamo sempre fatto i western, i nostri Spaghetti Western che hanno fatto la Storia del cinema. Ma erano film girati da italiani, spesso in Spagna, che raccontavano comunque storie di un altro mondo, immaginando di essere in America o in Messico. Stavolta si prende il western, ma lo si porta letteralmente a casa nostra, a raccontare quello che, in quel periodo, accadeva in Italia, in un Sud ancora selvaggio come in America era selvaggio il West. Prendetelo così. O prendetelo, se volete, come un film di pirati senza navi, ma con una mappa e un tesoro da trovare.

Lo schema narrativo, infatti, sembra essere proprio questo, quello delle storie dei pirati, in cui ci sono alleanze, cambi di campo, tradimenti e ritorni, doppi giochi e sorprese. La struttura della storia è quella del “gioco dell’oca”, un percorso in avanti verso l’arrivo, in cui ad ogni passaggio ci sono contrattempi, imprevisti, sfide da affrontare. E capita anche che si debba tornare indietro. La serie, che sin dai suoi sviluppi è certamente intrigante, sembra però muoversi in modo piuttosto meccanico, come se, sopra quel tavolo da gioco, ci sia un deus ex machina che sposti a suo piacimento le pedine per creare movimento, sorpresa e azione.

Tutto questo è un fatto di scrittura, anzi di scelte di scrittura. Per capire perché, in parte, siamo delusi, va detto che la serie è stata creata dai GRAMS*, il collettivo composto dai cinque giovani autori Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Si tratta degli sceneggiatori che avevano scritto Baby, prodotta sempre da Fabula Pictures, la serie dedicata alla storia delle Baby squillo dei Parioli. Nelle loro mani, e nelle loro penne, era diventata una interessante viaggio nel disagio giovanile, parlando non di scandali, ma di apatia, noia, inadeguatezza. La forza di Baby, è che era una serie “character driven”, cioè basata sui personaggi, sulla loro interiorità e i loro sentimenti. Briganti è invece una storia basata sull’intreccio, e l’azione viene prima dei personaggi. Il risultato è che ci si affezioni di meno di quanto era accaduto con i personaggi di Baby. Certo, questo genere di prodotti punta sull’azione e meno sull’approfondimento. E probabilmente è più difficile entrare nella mente di personaggi vissuti più di 150 anni fa che in quella di ragazzi dei nostri tempi. Eppure è un peccato non riuscire ad entrare in sintonia con i personaggi.

Alla regia ci sono Steve Saint Leger (Vikings, Vikings: Valhalla, Barbarians), lo stesso Antonio Le Fosse (Baby), e Nicola Sorcinelli (Balcanica), che ne ha curato anche la supervisione artistica. La regia è potente e riesce a mettere in evidenza i bellissimi spazi del nostro Sud con inquadrature spettacolari e di ampio respiro. Così come è potente la musica di Michele Braga (ormai una certezza) che mescola la musica popolare e tradizionale al rock fornendo uno score che riesce a trascinare l’azione.

Sono interessanti anche gli attori. Michela De Rossi, nel ruolo di Filomena, è una bellezza insolita e selvaggia, e riesce a incarnare bene quello che vuole essere il suo personaggio. Ivana Lotito, nel ruolo di Ciccilla, è il sex appeal della serie, e Matilda Lutz, nel ruolo di Michelina De Cesare, continua nel suo carnet di donne d’azione che ha portato al cinema.  Marlon Joubert è Giuseppe Schiavone, alias Sparviero: l’attore che abbiamo visto in Suburra ed È stata la mano di Dio, tolto un cappuccio che lo faceva sembrare un antesignano dello Spaventapasseri di Batman Begins, svela il suo volto, fiero e telegenico. Quello di un attore che ora può fare davvero il protagonista.

Credits: Francesco Berardinelli / Netflix

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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