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We Are Who We Are: gli absolute beginners di Luca Guadagnino nella nuova serie tv Sky

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Harper è un nome da ragazzo”. “È un nome per tante cose”. “Da dove vieni?” “Da tanti posti”. Harper in realtà si chiama Caitlin (Jordan Kristine Seamón) ed è una bellissima ragazza afroamericana. È una dei protagonisti di We Are Who We Are, la nuova serie tv Sky-HBO in otto episodi diretta da Luca Guadagnino, in onda dal 9 ottobre su Sky e in streaming su NOW TV. Siamo in una base americana in Italia, vicino a Chioggia. È il classico non luogo: non è l’America, che è lontana migliaia di chilometri. Ma non è nemmeno l’Italia, perché la base è territorio americano e ha regole tutte sue. È un mondo a parte. Una terra di nessuno, come è una terra di nessuno esistenziale quella in cui vivono i protagonisti della storia. Fraser (Jack Dylan Grazer), 14 anni, è appena arrivato da New York al seguito della madre Sarah (Chloe Sevigny) che prenderà il comando della base. Caitlin, o Harper, come si fa chiamare lei, è la figlia di un altro ufficiale: una bellissima ragazza che però non si sente tale, non si ritrova pienamente nel suo lato femminile, e sente in sé una parte di mascolinità.

Caitlin entra in scena, al mare, in un bikini nero, i lunghi capelli neri, lunghi e crespi, il volto e la capigliatura di una dea africana. Ma la vedremo in abiti maschili, con addosso la camicia del padre e con un cappellino da baseball a nascondere quei capelli così femminili La vedremo tirare di boxe, sparare. E provare interesse, quasi invidia, per i baffetti appena accennati di Fraser. Lui ha i capelli ossigenati, le unghie laccate, t-shirt e giacche coloratissime. Non sa ancora chi è. Forse gli piacciono i ragazzi. Ma si lega a Caitlin perché la sente un’anima gemella, l’unica che lo capisce, ed è così anche per lei. Il loro non è un amore convenzionale, è una comunione di intenti, una sintonia tra due persone che stanno affrontando un percorso, un passaggio. E quel viaggio vogliono farlo insieme. “Senti mai di non appartenere a nessun posto?” chiede Caitlin a Fraser? Quel posto a cui appartenere è qualcosa che cercheranno entrambi, fianco a fianco.

We Are Who We Are parla di fluidità di genere, di omosessualità, di libertà di esprimersi. Ma la serie firmata da Luca Guadagnino, con la sceneggiatura di Paolo Giordano e Francesca Manieri, non è solo questo, è una storia universale. È una storia d’amore, anzi una storia di storie d’amore, è un racconto sull’identità, vista da molteplici punti di vista. I ragazzi alla scoperta della loro sessualità, ma anche quelli italiani che cercano i ragazzi americani per cercare di uscire dal “buco” dove vivono. Gli adulti, divisi tra il loro ruolo pubblico e quello privato, tra i legami che hanno costruito negli anni e quelli nuovi che potrebbero stringere. I militari, divisi tra il loro essere tali e il loro essere persone, con i loro affetti e i loro bisogni.

Questa ricerca dell’identità, la vita all’interno di famiglie spesso problematiche a tratti avvicina We Are Who We Are a Euphoria, altra serie americana HBO passata su Sky lo scorso anno. Ma il tono di Luca Guadagnino è completamente diverso. We Are Who We Are non è mai un pugno nello stomaco, non è mai scioccante, pur essendo viscerale e a momenti molto dura. I toni sono più sfumati, in fondo leggeri. Quello che emerge è una sensualità ancora innocente, una vitalità pulsante, a tratti debordante e incontenibile, che Guadagnino riesce a raccontare come pochi sano fare, forse il solo Abdellatif Kechiche. Senza per forza dover ricorrere continuamente a momenti eclatanti, sconvolgenti (che ci sono, ma lo script non ne abusa), ma lasciando che il racconto segua il fluire della vita.
Il fatto che tutto si svolga in una base militare non fa che far risaltare questa vitalità. Perché poi i ragazzi devono rientrare tra quelle mura, convivere con quei rituali. Perché gli adulti sentono il loro corpi costretti in quelle divise, tanto che, quando le tolgono, quei corpi sembrano respirare, espandersi, esplodere. L’indole ribelle di certi personaggi risalta ancora di più in un mondo fatto di regole, di schemi, di procedure, un mondo rigidamente definito, che è tutto il contrario di quello che sono.

Così come spesso sono rigidamente definite le regole della serialità televisiva. Ma Luca Guadagnino decide di fare come i suoi personaggi, essere libero, indefinito. Il suo We Are Who We Are può essere visto come una serie in otto puntate, ma anche come un film di otto ore. Guadagnino non si preoccupa di cliffhanger, di ritmo, di suspense. Si permette di indugiare quasi per una puntata intera su una giornata di festa, di fermarsi per un attimo su una sequenza di ballo, che è allo stesso tempo avulsa e integrata nella storia, di fermare le immagini per qualche istante prima degli stacchi di montaggio, come se volesse bloccare in delle istantanee (una volta erano le Polaroid, oggi sono i selfie) alcuni momenti dei ragazzi. Il regista di Chiamami col tuo nome piega il tempo a suo piacimento, si permette di rallentarlo e poi di andare avanti veloce. Estate, autunno, inverno: non c’è la primavera. Possiamo intuirla, ma è fuori campo. Il suo stile è libero, emotivo, al servizio delle emozioni dei personaggi. Vi sembreranno strani, come ogni volta che incontrate una persona diversa da voi. Ma dopo poche ore vi troverete completamente immersi nelle loro vite, come se fossero quelle dei vostri amici.

Vi immergerete anche in un periodo ben preciso della Storia recente. America, 2016: è il semestre che porterà alla vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane. “La possibilità era troppo ghiotta per non essere colta” ha raccontato Guadagnino. L’avvento di Trump, del “Make America Great Again” è un avvenimento a suo modo epocale nelle vite degli americani. Che, in un mondo che vive in base all’ordine e alle prove di forza come quello militare, non può non influire. “La gente vuole un capo che possa prendere decisioni difficili”, sentiamo dire a Sarah, la madre di Fraser, l’ufficiale in capo nella base, di fronte a una scelta che ha portato alla morte di alcuni soldati. Sì, perché lì fuori, fuori da quella bolla che è la base americana vicino a Chioggia, c’è il mondo reale, c’è la guerra, c’è la morte. Che irrompe, all’improvviso, nelle vite quasi irreali delle persone che vivono lì. E allora tutto si ferma, le aule sono vuote, i corridoi anche. E una matita si spezza, come in Twin Peaks alla notizia della morte di Laura…

Vi abbiamo parlato di Caitlin e di Fraser. Ma We Are Who We Are è anche la relazione tormentata tra Sarah (Chole Sevigny) e Maggie (Alice Braga), due donne sposate che sono le madri di Fraser, è la vita di Britney, inquieta ragazza americana in cerca d’amore e di emozioni (è la sorprendente Francesca Scorsese, sì, proprio la figlia di Martin Scorsese, una che ha respirato cinema fin dalla culla), l’amore tra Craig e Valentina, Romeo e Giulietta divisi non dalle famiglie ma dalla guerra. We Are Who We Are racconta tutte queste storie, dando a tutte, se non lo stesso spazio, la stessa dignità. Per una volta ci sbilanciamo, e diciamo che Luca Guadagnino, con We Are Who We Are, ha realizzato quello che è sin qui il suo lavoro migliore. Tutta l’emotività che mancava nei suoi film precedenti arriva qui, tutta insieme. Ed è impossibile resistervi. Come Fraser e Caitlin, per otto ore, diventiamo anche noi dei “debuttanti assoluti”, degli Absolute Beginners, come canta David Bowie alla fine della serie. “Fino a che siamo insieme il resto può andare all’inferno”, canta il Duca Bianco. E sembra che parli proprio di Fraser e Caitlin. O anche di tutti noi, nel momento in cui abbiamo sentito di trovare un’anima in cui specchiarci.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Antonia: Chiara Martegiani, le donne dolcemente complicate e l’attitudine punk… Su Prime Video

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Siamo così, è difficile spiegare, certe giornate amare, lascia stare…” Era una canzone che cantava Fiorella Mannoia, si chiamava Quello che le donne non dicono e – anche se l’aveva scritta un uomo, Enrico Ruggeri – raccontava benissimo le donne e quel loro essere “dolcemente complicate”. Quella canzone ci è venuta in mente guardando Antonia, la nuova serie con Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea, diretta da Chiara Malta, in streaming su Prime Video dal 4 marzo, proprio perché riesce a raccontarci davvero bene le donne di oggi. E perché riesce a farlo in modo inedito, non allineato. Racconta le trentenni di oggi, e quei momenti in cui capita loro di sentirsi in crisi, di non sapere in che direzione andare. E anche una malattia come l’endometriosi, poco conosciuta, ma che colpisce davvero tante donne. È una serie tachicardica, ritmata, spassosa, e anche dolorosa, che si candida ad essere una delle serie italiane dell’anno. Da non perdere assolutamente.

Antonia (Chiara Martegiani), dopo aver lasciato la sua famiglia poco più che adolescente, ha trovato una sorta di equilibrio a Roma, una giungla urbana ed emotiva perfetta per integrarsi senza dover fornire troppe spiegazioni. Antonia fa l’attrice (in realtà, una comparsa parlante…) in una soap opera, ha un compagno comprensivo, Manfredi (Valerio Mastandrea), e una coppia di amici che ha appena avuto una bambina. Ma, al suo 33esimo compleanno, il suo piano di difesa fallisce: litiga con tutti, viene licenziata e finisce in ospedale, dove scopre di avere l’endometriosi, malattia cronica che, senza che Antonia se ne rendesse conto, ha influenzato tutta la sua vita. Attraverso uno strano percorso di psicoterapia, la scoperta della malattia diventerà però un’occasione per conoscersi e smettere di scappare, iniziando ad affrontare i nodi della sua vita.

Chiara Martegiani, anche autrice della serie insieme a a Elisa Casseri e Carlotta Corradi, tra scrittura e interpretazione riesce a disegnare un ritratto di donna memorabile. Antonia è urticante, scontrosa, insopportabile. Eppure, a suo modo, è adorabile, irresistibile. E poi capiamo ben presto che un motivo perché è così ce l’ha. Per il suo taglio, la sua irriverenza, lo sguardo ironico al femminile, Antonia, ancor prima dell’uscita, è stata definita subito la Fleabag italiana. Ma confessiamo che abbiamo provato subito molta più empatia con Chiara Martegiani e la sua Antonia che con la fredda Phoebe Waller-Bridge.

Labbra rosso Coca-Cola, come diceva un’altra canzone, occhi neri enormi, vispi e caldi, Antonia ha un viso che buca lo schermo e un corpo che lo riempie e detta la linea del film. Antonia ha le gambe lunghissime, l’andatura disordinata e dinoccolata. La sua falcata nervosa e veloce detta il ritmo della serie, che è fremente e indiavolato. La regista Chiara Malta ha scelto di mettere la macchina da presa costantemente su di lei e di costruire il ritratto di una donna scassata, non performante. Ha preso una palla di spugna e l’messa sotto la macchina da presa per dare questo senso di instabilità all’inquadratura, che è l’instabilità della vita di Antonia.

Valerio Mastandrea, compagno di Chiara Martegiani nella vita oltre che sul set, è Manfredi, e porta in scena tutto lo spleen tragicomico che è in grado di dare ai suoi personaggi, il suo lavoro di sottrazione, l’ennesima sfumatura del tipo di uomo che ha raccontato per tutta la sua carriera. Nel ritratto di Manfredi si legge il bisogno di raccontare maschi che di solito non si raccontano, maschi fragili che nella loro fragilità trovano la loro sicurezza. Come faceva, già 40 anni fa, il grande Massimo Troisi. Nel casto ci sono anche Chiara Caselli, la madre problematica di Antonia, Emanuele Linfatti, nel ruolo di Michele, uno sconosciuto che diventa amico di Antonia, Tiziano Menichelli, che dà il volto a Nico, il figlio di Manfredi, e Hildegard Lena Kuhlenberg, che è Gertrud, la pittoresca agente di Antonia che vive perennemente nel passato. Ma a conquistarci sono soprattutto Leonardo Lidi e Barbara Chichiarelli: sono Marco e Radiosa, una coppia che ha appena avuto una bambina. E sono anche loro in crisi, ma di un altro tipo.

Il personaggio di Antonia, lo vedrete, diventerà iconico. Il vestito nero con il colletto bianco e le spalle scoperte è già un cult. Così come il look da uomo, con giacca, camicia e una sottile cravatta scura. O ancora, il giubbino di jeans smanicato, anni Ottanta, con le spalline larghissime, portato con dei pantaloni della tuta in acetato. Nel look, come nel suo muoversi, nel reagire, nel suo essere Antonia sembra avere un’attitudine punk. Come recita il titolo della nota pagina Facebook, “adottare soluzioni punk per sopravvivere” potrebbe essere il sottotitolo della serie.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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The New Look: Christian Dior e la creazione come sopravvivenza. Su Apple Tv+

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Se non fosse che The New Look, la serie su Christian Dior, in streaming su AppleTv+ dal 14 febbraio, e Cristóbal Balenciaga, disponibile da qualche settimana su Disney+, appartengono a piattaforme diverse, potremmo pensare che oggi ci sia un universo condiviso dedicato al mondo della moda. Sì, proprio come avviene per i supereroi, quelli della Marvel e della DC. La storia di Dior e quella di Balenciaga, infatti, si intrecciano e vivono nello stesso mondo e lo stesso tempo, la Parigi dell’occupazione nazista dei primi anni Quaranta, dove, tra l’altro, vive un’altra grande della moda come Coco Chanel. Le loro storie hanno un prima e un dopo, ovviamente. Ma è in quel momento, e in quelli immediatamente successivi, che si sono incrociate e hanno lasciato il segno. È in quegli anni che è nata l’idea di Haute Couture, la moda fatta su misura, a mano, con tessuti unici e tagli unici. Un’industria che, come spiega Coco Chanel a un attonito Heinrich Himmler che la vorrebbe spostare da Parigi a Berlino, è composta da circa 20mila artigiani. Il Christian Dior che ci viene raccontato da The New Look è stato una nuova speranza. È stato l’idea che la moda potesse portare una ventata di bellezza e di positività dopo gli orrori della guerra. Oggi, che di guerre ne stiamo vivendo molte, alcune anche vicine a noi, ci piace questa idea che la moda, e in generale la bellezza, possano sbocciare una volta che, come tutti speriamo, le guerre siano spazzate via. È anche con questo mood che dobbiamo vedere una serie come The New Look.

Ambientata durante l’occupazione nazista di Parigi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, The New Look si concentra su uno dei momenti più cruciali del XX secolo, quando la capitale francese ha riportato in vita il mondo grazie a un’icona della moda: Christian Dior (Ben Mendelsohn). Mentre Dior sale alla ribalta con la sua rivoluzionaria e iconica impronta di bellezza e influenza, il primato di Coco Chanel (Juliette Binoche) come stilista più famosa del mondo viene messo in discussione. La saga intreccia le storie sorprendenti di personaggi contemporanei e antagonisti di Dior: dalla Grand Dame Coco Chanel a Pierre Balmain, Cristóbal Balenciaga e altri ancora e offre una visione straordinaria dell’atelier, dei disegni e degli abiti creati da Christian Dior grazie alla collaborazione con la Maison Dior.

The New Look si muove quindi nello stesso universo di Cristóbal Balenciaga, ma in realtà è molto diversa. Questo dipende dalla durata delle due serie, 6 episodi quella sullo stilista spagnolo e 10 questa. Ma molto dipende soprattutto sull’impostazione delle due opere. Cristóbal Balenciaga aveva l’intenzione di celebrare lo stilista di Madrid e l’arte del disegno, della sartoria, della scelta dei tessuti, la creazione e il rapporto tra gli abiti e lo spazio. La guerra e il nazismo erano parte di quella storia: veniva raccontata, ma in un episodio solo. Era un capitolo, fondamentale, ma da lasciare poi per andare avanti. Qui il racconto della Parigi occupata dai nazisti, di quegli anni terribili è invece il punto di partenza e il cuore stesso della storia. I creatori della serie, prima che l’arte degli stilisti, vogliono raccontarci il dolore e la sofferenza che li ha animati. Per farci capire come tutta la bellezza che è venuta dopo sia frutto di questo. Di un fango che è diventato il terreno dal quale sono nati i fiori.

Così, almeno per i primi cinque episodi, The New Look è qualcosa di molto diverso da quello che avevamo visto in Cristóbal Balenciaga e di quello che ci aspettavamo. Quei primi episodi sono duri, senza sconti, molto vicini a quei film di guerra e sul nazismo, che sono sempre molto carichi di commozione e che apprezziamo sempre. Ma che, magari, non ci aspettiamo di trovare in una serie dedicata un grande della moda. A tratti la serie scivola anche nella spy story, con la missione di Coco Chanel a Madrid per conto dei nazisti. In questo senso, The New Look pone una questione molto controversa: i diversi livelli di collaborazione con il nemico. Si collabora per sopravvivere, lo si fa in modi diversi. Si può farlo restando il più distante possibile. O avvicinandosi pericolosamente. In questo senso, la storia di Coco Chanel è la più controversa.

The New Look è creata da Todd A. Kessler, sceneggiatore de I Soprano e creatore di serie come Damages e, soprattutto, Bloodline. Una serie fatta di relazioni pericolose e legami familiari. Anche qui i legami familiari (il rapporto tra Christian Dior e la sorella Catherine, interpretata da Maisie Williams) e le relazioni pericolose, come quella tra Coco Chanel e alcuni esponenti del partito nazista, sono il cuore del racconto. Ma da Bloodline, soprattutto, arriva un grande attore come Ben Mendelsohn, che qui ci regala una prestazione sontuosa e carica di sensibilità. La sua interpretazione è tutta giocata sui mezzi toni, su una mimica facciale fatta di tanti minimi tic e di movimenti impercettibili. I suoi occhi azzurri sono finestre attraverso le quali leggere la disperazione, lo spaesamento, la paura, ma anche l’ispirazione e l’orgoglio. La bocca, tremante e mobilissima, la voce tenue contribuiscono al ritratto di un uomo mite e sensibile. Accanto a lui, come una vera e propria coprotagonista della storia, c’è Juliette Binoche, capace di dare corpo a Coco Chanel in tutte le sue contraddizioni, nel suo sarcasmo come nelle sue fragilità. Ma è l’intero cast a brillare: ci sono John Malkovich, nel ruolo di Lucien Lelong, Emily Mortimer, nel ruolo di Elsa Lombardi e Glenn Close nel ruolo di Carmel Snow, la giornalista di Harper’s Bazaar che coniò il termine “new look” assistendo alla prima sfilata di Dior nel 1947.

La storia della moda parigina comincia ad entrare in scena alla fine del quarto episodio quando si racconta come, il 28 marzo del 1945, al Louvre venne aperto il Theatre de la mode, una mostra della moda francese che raccolse oltre 100mila visitatori. Senza modelli e modelle, con abiti creati per essere indossati da manichini in miniatura. Ci parteciparono tutti i grandi nomi della moda francese, che lavorarono insieme a portarono speranza alla Francia. C’erano tutti i grandi nomi che ancora oggi esistono. E salvarono la moda francese dal rischio di estinzione. Tra tutti, i due modelli più apprezzati furono proprio quelli di Christian Dior. Alla fine del primo episodio, durante una lezione alla Sorbona di Parigi, Dior parla della guerra per spiegare il desiderio di sopravvivenza. E per dire una cosa fondamentale. “Per me la creazione è sopravvivenza”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Cristóbal Balenciaga: L’ultimo vero couturier, gli altri sono semplici stilisti. La serie è su Disney+

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“Lo riconoscerei anche se fossi cieca”. Lo dice una donna, una sera, mentre assiste a una sfilata. Sta parlando dello stile di Coco Chanel. Cristóbal Balenciaga è a quella sfilata ed è molto colpito da quelle parole. Sarà anche questa frase che lo spingerà a trovare uno stile personale, immediatamente riconoscibile. È un dettaglio che ci fa capire che cosa sia Cristóbal Balenciaga, la serie drama originale ispirata alla vita e all’eredità del creatore spagnolo di Guetaria, uno degli stilisti più iconici di tutti i tempi, in esclusiva dal 19 gennaio su Disney+. Nella serie, creata da Lourdes Iglesias e dai 12 volte vincitori del premio Goya Aitor Arregi, Jon Garaño e Jose Mari Goenaga (La trincea infinita), l’attore Alberto San Juan interpreta Cristóbal Balenciaga, un uomo enigmatico e di straordinario talento che sfidò le convenzioni sociali dell’epoca e rivoluzionò il mondo della moda.

Balenciaga nell’impero della moda sofisticata di Parigi
Parigi, 1971. Si tengono i funerali di Coco Chanel. In chiesa, una donna guarda insistentemente un uomo. Lui è Cristóbal Balenciaga, famoso stilista che si è ritirato ormai da tre anni. Lei è la giornalista del Times Prudence Glynn. Balenciaga per tutti è una sorta di mistero. Non parla mai, o quasi. Non appare quasi mai nemmeno in fotografia. La giornalista lo contatta per una lunga intervista che fa da cornice al racconto. Così torniamo indietro nel tempo. Balenciaga arriva a Parigi nel gennaio 1937, in fuga dalla Spagna di Franco, e nell’estate dello stesso anno presenta la sua prima collezione di Haute Couture parigina. Si è lasciato alle spalle una carriera di successo nei suoi atelier di Madrid e San Sebastian vestendo l’élite e l’aristocrazia spagnola. Ma i modelli che avevano fatto tendenza in Spagna non funzionano nell’impero della moda sofisticata di Parigi, dove Chanel, Dior e Givenchy sono il punto di riferimento dell’Haute Couture. Guidato dall’ossessione per il controllo in tutti gli aspetti della sua vita, Cristóbal Balenciaga definirà il suo stile e alla fine diventerà uno dei più importanti stilisti di tutti i tempi.

Cristóbal Balenciaga: uno stile folcloristico, esotico ed estetico
È tutta questione di stile. Le recensioni della sua prima sfilata parlano di uno stilista che conquista Parigi grazie alla semplicità delle linee e l’assenza di elementi superficiali. Parlano di vestiti eleganti, di semplicità sofisticata. Ma Balenciaga non è soddisfatto. Per lui questo è come un “sei”, una sufficienza. Nessuno parla di genialità. Cristóbal così studia, ci riflette, torna alle sue radici. Guarda delle foto e trova la sua ispirazione nei vecchi costumi spagnoli. Prende la tradizione e crea qualcosa di nuovo. Punta forte sui tessuti. Nasce così quello che viene definito uno stile folcloristico, esotico ed estetico allo stesso tempo.

Non piegarsi al prêt-à-porter
La serie affronta diversi aspetti della vita di Balenciaga. Ognuno dei sei episodi è come se fosse un film. Il secondo episodio, The Occupation, ad esempio, racconta la sopravvivenza della sua maison, e del mondo della moda, all’occupazione nazista di Parigi, un momento durante il quale c’è chi definisce lo stile di Balenciaga una sorta di ribellione attraverso dei cappelli provocatori. Il terzo episodio, A Rival To Balenciaga, racconta il confronto tra lo stilista spagnolo e un altro grande della moda, Christian Dior. Uno stilista che è più bravo in una cosa rispetto a Balenciaga: comunicare. E così la sua presenza lo spinge ad aprirsi, a comunicare di più. In qualche modo, a fare marketing. Il quarto episodio, Replicas, racconta lo sbarco di Balenciaga negli Stati Uniti e la questione delle repliche. Il mercato presenta delle copie degli abiti dei grandi stilisti, e questi sono economici. Per cui gli americani che producono Balenciaga negli States vorrebbero usare dei tessuti locali, per essere più competitivi a livello di prezzi. Ma Cristóbal è contrario. E sceglie di creare da sé i propri tessuti. L’episodio 5, Dressing A Queen, parla del suo non volersi piegare al prêt-à-porter, e il racconto della nascita dell’abito nuziale di Fabiola, futura regina consorte del Belgio.

Una serie compassata, riflessiva e, ovviamente, elegante
La Spagna, in questi anni, ci aveva abituato a uno stile ben preciso di serialità. Da La casa di carta a White Lines, da Elite a Sky Rojo, sono arrivati a noi sempre prodotti dal forte impatto, adrenalinici, tachicardici, a volte anche grossolani. Cristóbal Balenciaga ci mostra un altro lato della serialità spagnola, come questa storia ha bisogno. Più compassata, riflessiva e, ovviamente, elegante. Non è chiaramente una serie che colpisce per il ritmo e l’azione, ma per lo stile, la classe. E l’approfondimento. Mette in scena infatti vari lati dello stilista, anche quelli più controversi, come quando, durante l’occupazione nazista, non si schierò apertamente contro il regime.

Una serie imperdibile per chiunque si interessi di moda
Quello che conta è che è una serie imperdibile per chiunque si interessi di moda. La cosa più emozionante è poter entrare dietro le quinte di questo mondo. Addentrarsi tra le mura di una casa di moda. Studiare i modelli, viaggiare nelle sartorie, avere quasi la sensazione di toccare le preziose stoffe. Vedere uno stilista mentre cura ogni minimo dettaglio. E vivere quei momenti febbrili prima e dopo una sfilata. È un documento prezioso, perché tra una sequenza e l’altra di girato, inserisce anche alcune immagini di repertorio, con i veri abiti della maison Balenciaga. Guardate le prime immagini dell’episodio 6, I Am Balenciaga, che ci riportano negli anni Sessanta, e – tra girato e repertorio – ci raccontano la fine della storia.

Belén Cuesta è Fabiola de Mora y Aragón, regina del Belgio
Cristóbal Balenciaga è interpretato da Alberto San Juan.  Belén Cuesta (che avevamo visto ne La casa di carta) è la famosa Fabiola de Mora y Aragón, regina del Belgio. Ma hanno dei ruoli importanti anche Josean Bengoetxea, che è l’uomo d’affari di San Sebastian, Nicolás Bizkarrondo e Thomas Coumans, Wladzio D’Attainville, socio e partner commerciale di Cristóbal Balenciaga. Gemma Whelan è Prudence Glynn, la giornalista del Times, e Anouk Grinberg è la leggendaria Coco Chanel. Patrice Thibaud è un altro personaggio chiave, Christian Dior, e Anna-Victoire Olivier è l’attrice Audrey Hepburn. Ma ogni attore “scompare” nel suo personaggio ed è funzionale alla storia. Ognuno è la tessera di un mosaico, ognuno contribuisce a creare quello che non è solo il racconto di Balenciaga, ma un affresco su un’età dell’oro della moda. Una menzione, in questo caso, va fatta per i costumisti: sono Bina Daigeler, candidata agli Academy Award per Mulan dei Walt Disney Studios e agli Emmy Award per Mrs. America, e Pepo Ruiz Dorado.

Il corpo di una donna, un pezzo di stoffa e l’aria
Cristóbal Balenciaga riesce a svelare il mistero dello stilista di Guetaria, il suo segreto. Era nei tessuti che gli permettevano di dare forme mai viste agli abiti, senza dover aggiungere peso. Gli permettevano, soprattutto, di giocare con l’aria, con lo spazio. L’aria tra il corpo e il tessuto era parte del vestito. Il corpo di una donna, un pezzo di stoffa e l’aria. E un paio di cuciture per tenere tutto questo assieme. D’altra parte, lo diceva proprio Coco Chanel. “Balenciaga è l’ultimo vero couturier, tutti noi siamo solo semplici stilisti”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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