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Carrie Fisher. La nostra amata principessa. Per sempre

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Fantastica la ragazza, eh? Non so se ucciderla o innamorarmi di lei”. Sono le parole di Han Solo. E si riferiscono alla Principessa Leia. È il ruolo che ha lanciato nel mondo del cinema Carrie Fisher, in Guerre Stellari (o meglio, Star Wars – Episodio IV: Una nuova speranza, come è conosciuto oggi). Ed è il ruolo con cui la vediamo, per l’ultima volta, sul grande schermo, in Star Wars: Gli ultimi Jedi. Han Solo, nella finzione, si innamora di Leia, non può resisterle. E in realtà, si è saputo da poco, anche Harrison Ford si innamorò di Carrie Fisher, e i due ebbero una breve relazione. Finita presto, perché lui era sposato. Una delle tante storie finite male di quella che è stata una principessa sfortunata, travolta dal successo, da Hollywood, dalla sua malattia.

Per chi era un ragazzo negli anni Ottanta, la sua apparizione ne Il ritorno dello Jedi, è qualcosa di indimenticabile. Leia è diventata la schiava di Jabba The Hut, e appare in un succinto bikini di bronzo. Il suo corpo è allo stesso tempo minuto e morbido, sinuoso. La sua acconciatura è diversa. Leia, che avevamo visto fino a quel momento in lunghe tuniche bianche, ci appare all’improvviso in tutta la sua bellezza e il suo sex appeal. Vederla, in quel momento, è come vedere, tutto d’un colpo, in bikini, una tua compagnia di scuola che avevi sempre visto in versione compita e castigata, come scoprire la donna dietro la brava ragazza. Carrie Fisher aveva un suo modo di essere sexy, al di là del suo corpo. Era fatto di un sorriso irresistibile, da quelle guance un po’ paffute da ragazzina, quegli occhi timidi e dolci. E sì, anche da quell’incredibile acconciatura del primo Guerre stellari – altra idea di un team d’eccellenza come quello di George Lucas – con i capelli raccolti in due cerchi ai lati del capo, che sembrano delle cuffie, tanto assurda da diventare cult, e imitatissima. La Principessa Leia sogno erotico di molti? Di sicuro era la fantasia di Ross Geller (David Schwimmer) di Friends, talmente fissato da far vestire dai Leia Rachel/Jennifer Aniston, per una notte di passione… Ma Leia è nell’immaginario collettivo di tutti. Non solo degli uomini. Pensiamo a questi giorni di attesa febbrile per Star Wars: Gli ultimi Jedi. In occasione di proiezioni ed eventi a tema non si contavano le cosplayer vestite con gli storici Look di Leia, la veste bianca e il famoso costume da schiava.

Figlia d’arte – la madre è la famosa attrice Debbie Reynolds e il padre il cantante Eddie Fisher che, quando Carrie aveva solo due anni, lascia la famiglia per sposare Elizabeth Taylor – Carrie a 15 anni lascia la scuola per fare l’attrice e, poco più tardi, lascia anche la scuola di recitazione per girare un piccolo e temerario film di fantascienza, una scommessa: Star Wars, Guerre stellari. È il 1977. Diventerà una leggenda, e lei insieme al film. Potrebbe essere l’inizio di un periodo d’oro. Ma è l’inizio di un inferno. All’età di 24 anni le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Ma lei non accetta la cosa, almeno fino all’età di 28 anni, quando va in overdose, e definitivamente nel 1987, dopo un esaurimento nervoso. È una vita da romanzo, e lo diventa: Cartoline dall’inferno è il titolo del suo libro, in parte autobiografico, del 1987, e del film che Mike Nichols ne trae, del 1990. La protagonista è Meryl Streep, e la sceneggiatura è della stessa Fisher, come quella di Hook di Spielberg. La dipendenza da droghe, iniziata alla fine degli anni Settanta, è stata una costante della prima fase della sua carriera, rischiando anche di farla licenziare dal set di Blues Brothers. Anche la sua vita sentimentale è stata molto sfortunata. Il matrimonio con il cantautore Paul Simon, nel 1983, è durato solo un anno. È del 1991 la relazione con l’agente Bryan Lourd (da cui ha una figlia, Billie), ma finisce nel 1994. Quando lui scopre di essere omosessuale.

La sua filmografia conta quarantasei film. Ma dopo la trilogia originale di Star Wars e The Blues Brothers, pochi la ricordano. Eppure ha recitato con Lumet, Woody Allen (Hannah e le sue sorelle), Joe Dante, Wes Craven, anche con Kevin Smith. Ma spesso la sua apparizione sembra essere giustificata dal fatto di essere una “special guest”. Quando, dopo Star Wars, l’abbiamo rivista in Harry ti presento Sally, dove è l’amica di Sally/Meg Ryan, quasi non la riconoscevamo più. È già una signora di mezza età, i capelli corti, il trucco misurato, l’espressione anonima. Diverso da tutto è invece uno degli ultimi ruoli della sua carriera, quello in Maps To The Stars, il film di David Cronenberg dedicato a Hollywood e alla fama interpreta se stessa, ed è un po’ come riprendersi fieramente il proprio posto. Ma, ruolo di Leia a parte, il suo momento cult nella storia del cinema è la sua apparizione, con tanto di mitra, in The Blues Brothers, in cui è la fidanzata di John Belushi, passata alla storia come quella con le scuse più improbabili, mai inventate: “un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette…”. È una scena in cui molti di noi, per la prima volta, hanno visto Carrie in abiti normali, senza alcun costume fantasy. Solo un maglione e i capelli sciolti.

In Star Wars: Gli ultimi Jedi, come aveva fatto ne Il risveglio della forza, Carrie ritorna ad essere la principessa Leia (anzi, il generale Leia), ed è come se si fosse ripresa il suo posto, il posto che le spetta. È davvero l’ultima volta che la vedremo: Carrie è scomparsa, in seguito a un infarto, il 27 dicembre 2016, a sessant’anni. La Leia della nuova trilogia di Star Wars è molto diversa. I capelli cominciano a essere grigi, e raccolti dietro la nuca, semplicemente. Ci sono le rughe, i tratti del volto si sono induriti. La bocca è quasi sempre piegata con gli angoli verso il basso, le labbra serrate quasi in una smorfia. E, quando raramente si apre a un sorriso, è quasi sempre trattenuto. Il suo ruolo è quello di una leader, di un simbolo, di una santa. Ma la sua Leia è così iconica e così fissata nell’immaginario di Star Wars che i nuovi film, da Rogue One a Gli ultimi Jedi non mancano mai di riprendere le sue immagini. Come in Rogue One, in cui è ricostruita al computer nello splendore della sua giovinezza e nel candore della giovane Principessa Leia. O come ne Gli ultimi Jedi, quando R2 D2 proietta ancora una volta quel videomessaggio che, tanto tempo fa, diede inizio a tutto. La magia del cinema è questa: nonostante il tempo passi, i corpi e i volti cambino, le vite possano anche essere tormentate, le immagini del grande schermo possono fissare i nostri volti amati nel loro momento più bello. È così anche per Carrie Fisher. To our lovely princess, si legge sui titoli di coda, mentre risuona il tema di John Williams. Sì, Carrie Fisher sarà la nostra amata principessa. Per sempre.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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DE ANDRÉ – LA STORIA 25mo anniversario

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Location: Teatro Carcano – Milano
Data evento: 11 Gennaio 2024

Nell’anniversario della morte di Fabrizio de Andrè, al Tearo CARCANO di Milano, va in scena “De Andrè, la storia”, lo spettacolo-evento. De Andrè, La Storia è un vero e proprio viaggio musicale nell’universo di Fabrizio De André, il grande cantautore italiano scomparso l’11 gennaio del 1999, sempre presente nella memoria e nella cultura musicale italiana, che accompagna intere generazioni. “De André, La Storia”, è lo spettacolo sul cantautore più importante e influente della musica italiana che celebra, a 25 anni esatti dalla scomparsa, la sua opera. Lo spettacolo ha debuttato nel 2020 e, dopo una tournèè nazionale, approda a Milano, al Teatro CARCANO.

“Fabrizio De André è stato uno dei primi a portare la canzone italiana verso la modernità, ha cambiato le regole delle canzoni, ha mescolato la storia e l’intelletto con il canto popolare, il sacro e il profano, la cultura alta e bassa con una libertà di espressione senza pari – dice il direttore Musicale, Massimiliano Salani – poterne raccontare l’epopea musicale ed umana attraverso la sua musica, ma anche attrvaerso immagini e testi credo sia una grande sfida e un grande privilegio”.

Da Creuza de ma, a Non al denaro… da La buona Novella a Le nuvole, da Anime salve a l’Indiano, l’avventura musicale di De Andrè viene attraversata in uno spettacolo emotivo e coinvolgente, arricchito dalle immagini e dalle informazioni che lo rendono un vero e proprio concerto documentario.
Grazie a un grande interprete, una band eccezionale e video esclusivi, questo spettacolo ripercorre quindi quarant’anni di attività artistica di Fabrizio De André, raccontando un’epoca storica, il clima sociale e politico di un periodo, l’atmosfera e il sapore di un mondo e di come un visionario lo abbia attraversato, descrivendo magistralmente noi stessi, oggi.

La sua storia, la nostra storia.

“È una grande emozione poter lavorare e ideare uno spettacolo basato su una figura così imponente del panorama musicale e intellettuale italiano. L’arte e la musica svolgono nella vita delle persone un ruolo fondamentale, che Fabrizio ha saputo coniugare con una rara indipendenza e profondità di pensiero. Oggi De Andrè è più seguito ed amato che mai, le sue canzoni restano attuali, le nuove generazioni le assorbono e rimandano sui social, negli eventi.
Stiamo ricevendo un caloroso riscontro riguardo agli spettacoli che abbiamo in programma.
Abbiamo voluto dedicare questo spettacolo a un musicista e poeta visionario, proseguendo una ricerca che portiamo avanti dal 2003. Questo evento non è solo un modo per ascoltare i brani di Fabrizio ma anche una possibilità di celebrare la sua influenza storica e la sua continua conversazione con il tempo e con la contemporaneità.” afferma il regista e produttore Emiliano Galigani.

Uno spettacolo da non perdere! I biglietti sono acquistabili online (TicketOne).

Lo spettacolo è prodotto da Stage 11: il regista, Emiliano Galigani ha già realizzato, nel 2003 lo spettacolo musicale Circo Faber, con la collaborazione della Fondazione Fabrizio de André, di Dori Ghezzi e dello storico collaboratore di De André, Pepi Morgia.

Voce: Carlo Costa
Synth, minimoog, voce: Massimiliano Salani
Chitarra acustica, nylon, bouzouki, voce: Emmanuele Modestino
Chitarra elettrica, chitarra acustica, berimbeau, guitalele: Giacomo Dell’Immagine
Basso: Luca Santangeli
Flauto: Eanda Lutaj
Batteria: Alessandro Matteucci

Regia: Emiliano Galigani
Video: Domenico Zazzara
Prodotto da: Federica Moretti, Simone Giusti
Per Stage11

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Pronto, Raffaella?… ci mancherai!

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Raffaella Carrà ci ha lasciato. Senza alcun segno di preavviso, in silenzio. La notizia è arrivata come un colpo a ciel sereno, totalmente inattesa. Aveva tenuto nascosta la sua malattia, probabilmente per non intaccherà quel senso di gioia, freschezza, libertà ed eterna giovinezza che la sua figura pubblica portava con sé, agli occhi di tutti, nell’immaginario collettivo, italiano ed internazionale.

E’ soltanto di qualche mese fa, del novembre 2020, l’articolo del Guardian che la incoronava “icona culturale che ha rivoluzionato l’intrattenimento italiano e ha insegnato all’Europa la gioia del sesso”. Parole che descrivono perfettamente ciò che Raffaella ha rappresentato per la società italiana e non solo, il ruolo fondamentale del suo personaggio, che ha saputo rompere tabù, creare e anticipare tendenze, sdoganare pregiudizi, giocare divertita su sessualità e sensualità.

La sua forza era la naturalezza. Quella naturalezza che l’ha spinta ad affrontare con caparbietà e disincanto dei tempi che stentavano a cambiare. Negli anni Sessanta-Settanta appariva, soprattutto agli occhi conservatori e benpensati, come una provocatrice scandalosa. Ma era “semplicemente” una donna che riusciva a spingere il suo sguardo oltre gli schemi sociali dell’epoca, senza paura dei giudizi, senza timore della censura.

Soubrette per eccellenza, nel senso più nobile del termine – non come lo si intende oggi… –, Raffaella Carrà è stata un’artista poliedrica, capace di cantare, ballare, recitare, condurre, stando alla pari con tutti, se non un passo, anzi dieci, avanti. Amata da tutti e da tutte le generazioni che ha toccato con la sua irrefrenabile simpatia e la sua dolce sensualità, negli anni non ha mai smesso di reinventarsi, di sperimentare, di mettersi in gioco.

Pochi lo ricordano, ma ha iniziato come attrice, diplomandosi al Centro Sperimentale di Cinematografia e recitando per tanti registi, da Carlo Lizzani a Mario Mattoli, da Mario Monicelli a Steno, e poi è esplosa in televisione rendendo il suo caschetto biondo, insieme ai suoi vestiti attillati e coloratissimi, un vero simbolo di libertà e sfrontatezza.

Ha lavorato e duettato con i più grandi dello spettacolo italiano, da Corrado ad Alberto Sordi, da Alighiero Noschese a Renato Zero, soltanto per citarne alcuni, e poi ha travalicato i nostri confini, conquistando le vette delle classifiche internazionali con le sue canzoni, diventate ormai immortali. E’ stato il “primo ombelico” del piccolo schermo, scandalizzando l’opinione pubblica, ha fatto innervosire il Vaticano con il suo “Tuca Tuca”, la sua discografia è ancora oggi l’inno per eccellenza dell’amore libero, del divertimento senza freni. “Tanti auguri”, “Ballo ballo”, “Fiesta”, “Rumore” sono soltanto alcuni dei titoli che negli anni sono diventati la colonna sonora dell’appagamento, della felicità, facendo ballare e conquistando il mondo intero.

Una colonna sonora che sicuramente continuerà a cadenzare anche le prossime generazioni, con i suoi ritmi coinvolgenti e i suoi testi semplici ma unici. Esattamente come lei, come la stessa Raffaella, inimitabile icona pop, che con una “carrambata”, una risata, un balletto, è riuscita con tenerezza ed esplosività ad appassionare, divertire, coccolare il suo pubblico, ad entrare nelle nostre case, a farsi considerare una di famiglia. Da tutti. “Pronto, Raffaella?”, ci mancherai…

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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Duran Duran: Quei new romantic in cerca del suono della tv

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Some new romantics looking for a tv sound” recita, a un certo punto, il testo di Planet Earth, il primo successo dei Duran Duran, la band che ha caratterizzato gli anni Ottanta, e, questo non lo immaginava nessuno, è ancora viva, vegeta e in ottima salute. E, a quarant’anni dall’uscita del primo album, Duran Duran (arrivò nei negozi proprio il 15 giugno del 1981) continua a fare tendenza. Se negli anni Ottanta Simon Le Bon, Nick Rhodes, John Taylor, Andy Taylor e Roger Taylor, da Birmingham, UK, idoli delle ragazzine per la loro bellezza, erano considerati alla stregua di una boyband, oggi tutti li considerano una grande band, gli artefici di un suono che ancora oggi è attualissimo, e che ha ispirato decine di gruppi che sarebbero venuti dopo di loro. I Duran Duran sono forse tra i più famosi esponenti del genere new romantic, una variante della new wave, il movimento che, in varie sfaccettature, seguì il punk.

I Duran Duran nascono già nel 1978. Sono tre studenti d’arte, John Taylor alla chitarra, Nick Rhodes ai sintetizzatori e Stephen Duffy alla voce e al basso. I tre sono compagni di scuola e amano gli artisti glam e synth pop. È proprio John Taylor a suggerire il nome per la band: si chiamerà Duran Duran ispirandosi a Durand Durand, il cattivo del film Barbarella, famoso film di fantascienza con Jane Fonda. E, se ascoltate certe linee di tastiera del primo album dei Duran, sentirete che una certa atmosfera fantascientifica c’è tutta. Nella band entrerà poi Simon Colley, al clarinetto e al basso. Ma, già dopo il terzo concerto, Duffy e Colley se ne andranno. John Taylor lascerà la chitarra per imbracciare il basso, lo strumento con cui darà un groove inconfondibile al suono dei Duran Duran. Alla batteria ci sarà il secondo Taylor, Roger. Il terzo, Andy Taylor (i tre non sono parenti) entrerà nella band come chitarrista. Alla voce ci proverà Andy Wickett, che registrerà con la band alcune demo. Ma non saranno i Duran Duran che conosciamo fino a che, con la sua voce inconfondibile, non prenderà in mano il microfono Simon Le Bon.

Il biglietto da visita con cui i Duran Duran si sono presentati al mondo è il singolo Planet Earth, quello in cui si parla di new romantic in cerca del suono della televisione. È una canzone trascinante che, ancora oggi, sembra arrivare da un altro pianeta. Ci sono i synth spaziali di Nick Rhodes, il basso incalzante di John Taylor, il ritmo sincopato della batteria di Roger Taylor che si sposa alla perfezione con i salti del basso, la chitarra ritmica rockeggiante di Andy Taylor. E poi quegli effetti sonori che sembrano evocare l’atterraggio di un elicottero, o qualsiasi altro veicolo vogliate immaginare. Magari un’astronave. È qui che sentiamo già tutte le influenze che hanno reso quello dei Duran Duran un suono unico. In quella ritmica c’è, ad esempio, il groove di Giorgio Moroder, quello, per capirci, di I Feel Love di Donna Summer. L’influenza dei Roxy Music, una band che aveva dato una propria interpretazione del glam rock, la sentiamo tutta in Girls On Film, il brano che apre l’album. Ascoltate Love Is The Drug dei Roxy Music e poi questa canzone, e capirete quanto siano importanti. E poi, ancora, ci sono gli Chic, ci sono i Japan di David Sylvian, idolo di Nick Rhodes, tanto che i due sembrano due gemelli separati alla nascita. E ovviamente David Bowie, che in qualche modo aveva lanciato il movimento new romantic nel suo video Ashes To Ashes, in cu apparivano alcune comparse prese da quella scena, tra cui Steve Strange dei Visage. Nelle linee melodiche orientaleggianti di Tel Aviv, lo strumentale che chiude il disco, ci sono degli echi di alcune canzoni del Bowie della trilogia berlinese. E nella versione Deluxe di Duran Duran, del 2010, c’è una cover di Fame (che i Duran incisero come lato B di Careless Memories), il brano, tratto da Young Americans, che Bowie registrò a metà anni Settanta insieme a John Lennon. A proposito, Duran Duran fu registrato, agli AIR Studios di Londra, proprio nel dicembre del 1980, quando da New York arrivava la notizia dell’assassinio di Lennon. Più tardi i Duran confessarono quanto fu difficile portare a termine le registrazioni dopo aver sentito quella notizia. Ma in quei giorni in quello studio c’erano proprio i Japan, i loro idoli, che stavano registrando Gentlemen Take Polaroids in fondo alla sala dello studio.

Girls On Film, il terzo singolo estratto dall’album, è stato il salto definitivo dei Duran Duran verso la fama. Merito anche di un video ad effetto, arrivato proprio nel momento in cui, grazie a MTV, il videoclip diventava allo stesso tempo una forma ad arte a sé, e il miglior veicolo promozionale per lanciare un singolo e un artista in vetta alle classifiche. Girls On Film era uno di questi video: fatto per bucare lo schermo, scandalizzare, far discutere. Era stato girato dal duo Godley & Creme, musicisti e videomaker tra i più in voga al tempo, e due settimane dopo venne lanciato negli Stati Uniti da MTV. Nel video, i Duran Duran suonano di fronte a un ring, sul quale si avvicendano una serie di numeri da nightclub: una ragazza mima un combattimento con un lottatore di sumo, un’altra simula un salvataggio da parte di un bagnino, una un massaggio e una cowgirl cavalca un uomo con una testa di cavallo. La parte più spinta è quella in cui due donne, di cui una in topless, lottano nel fango. Il video fece scandalo e molte reti televisive finirono per mandare in onda la versione alleggerita, senza la scena incriminata. Ma il video integrale venne trasmesso nei nightclub dotati di schermi video, e sulle nostre tivù musicali spesso veniva tramesso. Ma è un video che ha una sua ironia e, nonostante sia spinto, non è mai volgare. A maggior ragione se visto oggi. La potenza del suono di Girls On Film e quel video così particolare portarono l’album la terza posizione nella Top 20 inglese.

La Duranmania doveva ancora iniziare, e le ragazze che avrebbero voluto sposare Simon Le Bon anche. Da lì a poco sarebbe arrivato Rio, il secondo album, e i video esotici girati da Russell Mulcahy. Sarebbero arrivate le loro canzoni più belle e più famose, quelle che avrebbero fissato per sempre nell’immaginario il suono e l’immagine dei Duran Duran. Ma il primo album aveva forse un suono ancora più sperimentale, coraggioso, innovativo. I Duran Duran, insieme a un’altra manciata di artisti, avevano lanciato il movimento dei new romantic. Un movimento fatto di musica, come detto, ma anche di look sgargianti e sfrontati. I Duran Duran, grazie alla collaborazione con stilisti come Perry Haines, Kahn & Bell e Anthony Price, a ogni video e ogni apparizione si distinguevano per il loro abiti. Se i pantaloni sono spesso quelli di pelle tipici del rock, a volte stretti, a volte più larghi e a vita alta, i nostri vestono spesso con camicioni dalle maniche larghe e dal collo a sbuffo che sembrano usciti da un film su Casanova. Hanno vistose sciarpe attorno al collo, o strette in vita a mò di cinture, e a volte portano delle fasce annodate sulla fronte. Nel loro guardaroba ci sono quelle giubbe militari che oggi vediamo molto spesso, e il tipico giubbetto del rock, il chiodo, magari è di colore bianco, come quello che indossa Simon Le Bon nel video di Girls On Film, o blu. Gli abiti sono speso di tinte pastello, ad esempio carta da zucchero. Un classico del periodo, poi, sono le t-shirt, colorate o bianche e nere, a righe orizzontali. Il trucco sul volto è spesso deciso, pesante. E i capelli sono colorati con meches, bionde o di altri colori, e spesso dalle forme molto voluminose.

Quelle parole di Planet Earth possono suonare come “qualche nuovo romantico in cerca del segnale della tv”, o “in cerca di una sigla per la tv”. Ma ci piace leggere, in quei versi, che quei new romantic stessero cercando il suono della tv, cioè il prodotto perfetto per le nuove tivù musicali che stavano nascendo, una forma d’arte che unisse musica e immagini, canzoni e videoclip perfetti e inscindibili da essere una cosa sole nell’immaginario collettivo, suoni all’avanguardia e un look all’altezza di essi. A quarant’anni da Duran Duran, se oggi vi guardate e attorno e tenete le orecchie aperte, vedrete ancora in giro tracce del look new romantic. E, se le hit dei Duran risuonano ancora, hanno lasciato anche molte tracce sonore in canzoni di oggi e in band che, da almeno vent’anni o forse di più, in qualche modo provano a recuperare il loro suono.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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