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Black Mirror: quello che possiedi finisce per possederti. Anche la tecnologia

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Black Mirror, Cioè lo specchio nero. Nero perché è così che ci si presentano, prima che si accendano di relazioni, sogni o incubi, gli schermi di smartphone, tablet, computer, che sono il simbolo del nostro rapporto con la tecnologia. Nero perché Black Mirror, la serie antologica ideata da Charlie Brooker, è cupa, inquietante, e nel nostro rapporto con la tecnologia tende a mettere in risalto quasi sempre ciò che c’è di più oscuro e pericoloso. Black Mirror arriva in streaming su Netflix il 5 giugno con la quinta stagione, composta da tre episodi (com’era nelle prime due stagioni). Non sono tanti come nelle ultime due stagioni perché, subito dopo Natale, un’anticipazione era arrivata dal discusso episodio interattivo Bandersnatch, che non faceva parte della nuova stagione, ma indubbiamente ha richiesto tempo e dedizione.

La cosa che ormai tutti abbiamo imparato, in quella che è l’età dell’oro della serialità, è la dipendenza. Il fatto, cioè, che ogni volta che ci addentriamo in una storia ne rimaniamo invischiati (se ci piace, certo), entriamo in un mondo, e, a ogni nuova puntata, ci torniamo. La cosa originale di Black Mirror è questa. A ogni puntata occorre resettare tutto. A parte un mood generale, che solitamente è distopico, pessimista, inquietante, ogni volta dobbiamo fare uno sforzo, adattarci a un nuovo ambiente, provare a capirne le coordinate. Tutto questo è sì più difficile, ma anche estremamente stimolante. A ogni puntata, la curiosità è enorme. Tanto più che la scrittura di Charlie Brooker è eccezionale nel non farci capire tutto subito, nel lasciare, a ogni racconto, il modo che l’epifania sveli il finale, come accade nelle novelle, e come accadeva, ad esempio, nella storica serie Ai confini della realtà.

L’altro aspetto di Black Mirror che rende le nostre paure così vivide è che non siamo in uno di quei film distopici ambientati fra duecento o trecento anni. No, quello che accade in Black Mirror è in un futuro prossimo. Qualche anno, forse qualche mese. Forse domani, vista la velocità con cui la tecnologia si sta sviluppando, e visto come noi stiamo cambiando insieme ad essa. Quello che possiedi finisce per possederti, diceva una frase di Fight Club. Con la tecnologia, spesso, sembra essere così: dovrebbe essere al nostro servizio, una nostra dipendente. Invece siamo noi ad essere dipendenti da essa. Nella nuova stagione di Black Mirror si parla di videogame e realtà virtuale, di assistenti e intelligenze artificiali, e di social network, in maniera inaspettata.

Striking Vipers, il titolo di uno degli episodi, è anche il nome di un videogame a cui, tanti anni fa, giocavano due amici. Anche a notte fonda, anche dopo aver fatto l’amore con le proprie compagne. Parecchi anni dopo, uno di loro (Anthony Mackie) è sposato con la compagna del college, l’altro è single. Invitato al compleanno, regala all’amico una nuova versione di Striking Vipers, stavolta in modalità realtà virtuale. E allora i due continuano le partite da ragazzi, giocando anche da remoto, ma stavolta immergendosi completamente nel gioco, fino a tenere più ai propri avatar (che, attenzione, sono un uomo e una donna) che alla loro vita reale. Il tema è quello di un film come Ready Player One, o ancor di più quello di USS Callister, episodio della quarta stagione di Black Mirror, in cui una serie di persone entravano in un gioco ispirato a Star Trek. Il sistema di raffigurare la realtà virtuale è lo stesso, ed è molto potente: basta attaccare un chip ad una tempia, e si entra nel nuovo mondo. Ed è la stessa, e non lascia indifferenti, anche l’immagine del corpo che resta nella nostra realtà mentre la mente è nella realtà virtuale: una persona assente, senza sguardo, spenta, un corpo abbandonato che ha solo qualche sussulto. È nuovo, e interessante, il discorso sull’identità sessuale, il piacere, i rapporti personali: una realtà virtuale, vuole dirci Black Mirror, può anche cambiare tutto questo.

Così come i social media possono cambiarci la vita. Nel senso di togliere spazio alla vita reale, di darci assuefazione, di farci vivere in un altro mondo. Ma possono cambiare la nostra vita anche con un singolo gesto. Come mettere un like a un’immagine. L’epifania di Smithereens, un altro episodio della quinta stagione di Black Mirror, arriva a dieci minuti dalla fine, e tira le fila di un racconto lungo, sospeso, in cui un tassista tiene sequestrato il dipendente di un’azienda, la Smithereens (il cui numero uno è interpretato, in una fugace apparizione, da Topher Grace), con cui crede di avere un conto in sospeso. Non possiamo raccontarvi di più. Ma dentro questa storia, un action movie fatto di suspense apparentemente lontano dalla nostra quotidianità, ci siamo noi, i nostri telefonini, i nostri social media, e tutte le attenzioni che diamo a questi mezzi.

Ci siamo noi, in pieno, anche dentro Rachel, Jack and Ashley, Too, con tutte le nostre insicurezze. Ci sono gli assistenti a base di intelligenze artificiali di oggi, come Siri e Alexa. Solo che la protagonista del terzo episodio di Black Mirror si chiama Ashley Too, ed è un assistente modellata sulla personalità di Ashley, una cantante famosissima (la interpreta Miley Cyrus, una vera rivelazione): può parlarti dicendoti frasi motivazionali, farti ascoltare la sua musica, tenerti compagnia. Per la giovane Rachel, arrivata in una nuova scuola dove non ha amici, diventa un punto di riferimento. Ma la vita di Ashley, quella vera, non è come sembra. E, quando le cose si complicano, anche Ashley Too comincia a sviluppare un comportamento sorprendente. Rachel, Jack and Ashley, Too è sorprendente per svolte narrative e sorprese, ed è una riflessione sulle intelligenze artificiali, ma anche sulle nostre solitudini e il bisogno di qualcosa a cui attaccarsi. È un altro lato di quella superficie nera in cui specchiarci. Per perderci. Ma anche per ritrovarci, visto il finale in crescendo. Perché, anche in un’era tecnologica, può essere l’Io a vincere.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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