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The Handmaid’s Tale 4: Elisabeth Moss e le ancelle, da prede a predatrici?

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Let Us Prey è la frase di lancio di The Handmaid’s Tale 4, l’acclamata serie tv con Elisabeth Moss che torna in anteprima esclusiva su TIMVISION dal 29 aprile, a 24 ore dalla messa in onda in USA. È un sottile gioco di parole tra Let Us Pray, cioè lasciaci pregare, e Let Us Prey, lasciaci predare, che si prende gioco del regime a sfondo religioso che domina il mondo della serie. E che racchiude dentro di sé il senso di quella che potrebbe essere la stagione 4 della serie tratta dal romanzo di Margaret Atwood, di cui abbiamo visto in anteprima le prime tre puntate. June Osborne (Elisabeth Moss) e le altre ancelle passano dalla resilienza alla resistenza, da prede diventano predatrici, si preparano a reagire e ad opporsi al sistema. Ma sarà una strada durissima.

Ritroviamo June ferita e in fuga insieme alle altre ancelle. In una fattoria, June trova riparo e viene accudita da una ragazza che la cura. Ma le fa anche conoscere anche una pianta velenosa, e a June la cosa sembra interessare molto. In Canada Fred Waterford (Joseph Fiennes) e Serena Joy (Yvonne Strahovski), dopo aver oltrepassato il confine, sono in stato di fermo. E Luke Bankole continua le ricerche della moglie.

The Handmaid’s Tale, anche nella quarta stagione, continua a usare con le protagoniste, e con il pubblico, il gioco del bastone e della carota, il gioco del gatto con il topo. Sembra lasciarle andare, e lasciarci andare, e le ricattura, e ci ricattura. Sembra lasciarci un barlume di speranza, e ci fa ripiombare nel baratro. Il racconto dell’ancella continua a chiedere molto allo spettatore, ci chiede di sopportare ancora violenze, torture, soprusi. Lo fa, è chiaro, per denunciare, per farci indignare. E anche per farci riflettere su quante violenze, fisiche ma anche psicologiche, le donne debbano ancora sopportare nella realtà.

C’è un momento, nei primi episodi della quarta stagione di The Handmaid’s Tale, che ci fa riflettere. Una volta arrivata in Canada ed essersi consegnata alla giustizia insieme al marito, Serena Joy si trova davanti a una scelta. Dichiarare di essere stata vittima di abusi da parte del marito e della società, e quindi ottenere una posizione migliore, o non farlo, e restare tra i colpevoli insieme al marito. Serena è reticente: secondo lei non è stata una vittima. Ma il fatto di essere vissuta tutto sommato in una posizione privilegiata, di comando, non toglie che sia stata comunque in una situazione subordinata rispetto a quella del marito, si sia ritrovata a vivere una vita in cui molte, troppe opportunità le sono state negate. Il racconto dell’ancella ci dice anche questo. Spesso la violenza è anche quella che non è evidente, che non è immediatamente percepita. È vittima in qualche modo anche chi non sa ancora di esserlo.

La quarta stagione di The Handmaid’s Tale sembra essere un racconto più corale e meno centrato su June, che comunque rimane al centro della scena ed è il motore della storia. Sembra essere meno claustrofobica e più ariosa. Non siamo sempre a Gilead, non siamo costantemente chiusi negli interni borghesi delle abitazioni dei comandanti. Ci muoviamo spesso tra i boschi e le campagne. Ma, soprattutto, andiamo sempre più spesso in Canada, la terra che, quando il montaggio stacca dalle violenze e dai soprusi di Gilead, è una vera e propria boccata d’ossigeno. È qui che seguiamo la nuova vita di Serena Joy, che sembra venire raccontata non più come un’antagonista, ma come una coprotagonista della storia, ed è qui che seguiamo anche la vita di chi, come Emily (Alexis Bledel), è riuscita a sfuggire a Gilead. La vita in Canada è certamente più leggera, profuma di libertà. Ma non è certo la felicità. Vi ricordate quella battuta nella stagione precedente? “Non c’è sempre il vissero felici e contenti. A volte c’è semplicemente vissero”. In Canada ci muoviamo pur sempre tra profughi di Gilead e attivisti per la libertà, tutte persone che portano il peso di quel mondo, e il pensiero per chi è ancora rimasto là. Il Canada è – più o meno – la nostra vita così com’è. Gilead è quello che potrebbe diventare se dimentichiamo di tenere alta la guardia sui diritti civili.

Attraversiamo tutta questa storia accompagnati ancora da June, e da un’attrice come Elisabeth Moss, che ad ogni interpretazione sembra volerci raccontare un passo delle rivendicazioni femminili. In Mad Men era Peggy Olson, una segretaria che diventava copywriter, e poi direttore creativo, in un mondo come quello della pubblicità degli anni Sessanta che era completamente maschile. Tra frecciatine, discriminazioni, frustrazioni, Peggy andava avanti per la sua strada, e arrivava dove voleva. Un personaggio scritto ormai quindici anni fa, e forse ancora più attuale oggi di quando nacque la serie. Ma Elisabeth Moss è anche l’attrice che ha permesso di fare del remake de L’uomo invisibile non un semplice horror ma una metafora dello stalking. La June Osborne di The Handmaid’s Tale, il cui sguardo nel corso delle stagioni sta mutando, da ferito a consapevole e poi a fiero, è il suo ruolo più importante, una donna che non si conforma alle regole imposte dalla società, che lotta per i diritti, non solo suoi, ma di tutte quelle come lei. È anche grazie a lei – che è anche regista di alcuni episodi – che The Handmaid’s Tale, è una delle serie tv che segneranno i tempi che stiamo vivendo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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