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Brigderton: Se Jane Austen incontra Grey’s Anatomy. Su Netflix

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Prendete due parti di Orgoglio e pregiudizio, e una di Grey’s Anatomy. Mescolate, non agitate. E avrete il cocktail che dà vita a Bridgerton, la nuova serie Netflix che debutterà il 25 dicembre in tutti i Paesi in cui il servizio è attivo. Bridgerton, infatti, è la prima serie targata Shondaland, la casa di produzione fondata da Shonda Rhimes, ed è stata creata dal suo collaboratore di lunga data, Chris Van Dusen, artefice di serie come Scandal, Grey’s Anatomy e Private Practice. Bridgerton è tratta dai romanzi di Julia Quinn. È una serie romantica, che sembra riprendere le storie di Jane Austen, e quei corteggiamenti così complessi e delicati che prendevano vita presso la nobiltà nell’Ottocento. Ma vuole provare a farlo con un pizzico di pepe e di attualità in più. Ci riuscirà?

Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor) è la figlia maggiore della nobile famiglia Bridgerton. La seguiamo mentre fa il suo debutto nell’alta società di Londra. Come una classica eroina di quei tempi, il suo sogno è trovare il vero amore, ma capisce subito di trovarsi in un mondo complicato, fatto di contrattazioni, di ripicche, e dove la reputazionde è tutto. Il fratello maggiore – che fa le veci di capofamiglia, visto che il padre è venuto a mancare – da un lato esclude alcuni suoi potenziali corteggiatori, dall’altro prova a farla sposare con un uomo non bellissimo perché crede sia rispettabile, e ad affrettare le cose perché la sorella non resti “zitella” troppo a lungo. Su tutto questo incombe il famigerato foglio dello scandalo dell’alta società scritto dalla misteriosa Lady Whistledown, che inizia a mettere Daphne sotto una cattiva luce. Quando entra in scena il Duca di Hastings (Regé-Jean Page), affascinante, ma restio ai sentimenti, Daphne chiede a lui di corteggiarla, o di fingere di farlo, al solo scopo di  allontanare pretendenti indesiderati. Ma tra loro l’attrazione è palpabile…

 

In Bridgerton l’intento è evidente. Lo aveva spiegato lo stesso creatore della serie, Chris Van Dusen: l’obiettivo era di trasformare un genere molto tradizionale in qualcosa di fresco, intelligente, sexy e divertente. Aggiungere, insomma, un po’ di pepe, e di attualità, agli schemi codificati di un certo genere. La prima cosa che balza agli occhi è che quello della Londra raffigurato nella serie è vero e proprio “mercato del matrimonio”. Che le unioni, all’epoca, fossero soppesate e in qualche modo combinate lo sapevamo già dai romanzi di Jane Austen. Ma il racconto di Bridgerton rende tutto esplicito, evidente, senza filtri. Le ragazze che si gettano in questo tipo di giostra finiscono in quello che è un vero e proprio lavoro, o un campionato, se volete, fatto di continui impegni mondani, di tattiche da studiare e mettere in atto, e di conseguenti alleanze, e non è privo di colpi bassi. La sfida, per dirla sempre alla Jane Austen, è sempre quella tra “ragione e sentimento”, ma qui ci sembra che, per farsi strada, il vero amore debba superare ostacoli ancor più duri.

C’è un che di attuale, poi, nel racconto di Chris Van Dusen. Perché quel foglio dello scandalo dell’alta società di Lady Whistledown evoca immediatamente, se pensiamo al mondo com’era fino a una quindicina di anni fa, i nostri giornali scandalistici (dai tabloid inglesi come il Sun alla nostra Novella 2000). Se pensiamo al mondo di oggi, è chiaro il riferimento ai social media e alla macchina del fango che è così facile mettere in atto con le nuove tecnologie. Eppure, anche con vecchi, vecchissimi media come la carta stampata, il foglio di Lady Whistledown si diffonde con velocità e precisione eccezionali, e finisce davvero per condizionare i comportamenti di tutti i personaggi. È la reputazione, bellezza. Un aspetto nevralgico delle nostre vite di oggi, come lo era, in certi ambienti, a quei tempi.

Il tocco Grey’s Anatomy è nella ricerca di situazioni al limite della credibilità, sopra le righe. I comportamenti e i fatti che vediamo in Bridgerton non sono tutti plausibili. Ma anche quello che avveniva al Grey Sloan Memorial Hospital (già Seattle Grace Hospital) non era proprio realistico e credibile. Lo Shondaland touch è qualcosa che prende dei mondi reali e prova in qualche modo a renderli sognanti, intricati, lo spunto per farne una soap opera. Da qui la tendenza, tipica anche di Grey’s Anatomy, di prendere attori avvenenti, dai faccini puliti, e un cast multietnico. Se questo secondo aspetto serve a raggiungere – e permettere l’identificazione – un pubblico il più ampio possibile, il primo fa sì che ci si trovi spesso davanti ad attori belli ma un po’ freddi, un po’ troppo perfetti, con il rischio che l’empatia con loro non sia immediata. In particolare, Phoebe Dynevor, per quanto bella, non ci sembra abbia la profondità per far vivere le tensioni che vive il suo personaggio, e Regé-Jean Page, nei panni del Duca di Hasting, o Simon, se preferite, ha lo stesso problema. Il suo personaggio sembra riprendere quello del Mr. Grey di 50 sfumature di grigio, senza i suoi eccessi, un uomo che non riesce ad amare a causa del suo passato tormentato.

Ma è soprattutto la scrittura, e a seguire la regia, che, preoccupati di confezionare un prodotto moderno, colorato, frizzante, volano su toni sempre sopra le righe, su mossette e moine. Ne guadagna certamente il ritmo, l’attenzione, l’occhio, ma ne perde, ancora una volta, l’empatia e il fatto di riuscire ad entrare completamente in una storia. Che in realtà ci vuole raccontare, ancora una volta, qualcosa di molto importante: la difficoltà per una donna di scegliere davvero la sua strada, senza imposizioni di sorta. Allora, come oggi.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

 

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