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La mostra su Inge Morath al Museo Diocesano di Milano: la fotografia come necessità di un racconto

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Treviso, Genova, Roma ed ora, Milano.
L’arte di Inge Morath approda nel bell’allestimento presso il Museo Diocesano di Milano alla presenza dell’ Assessore alla Cultura di Milano Filippo del Corno e che sarà visitabile dal 19 giugno al 1° novembre 2020, essendo parte integrante del palinsesto culturale Aria di Cultura I talenti delle donne, promossi e coordinati dal Comune di Milano. Una location unica, che si preannuncia anche in tempi difficili come questi, meta  milanese con “Il Chiostro in Estate“, tra  i tavolini del bistrot, le conferenze – aperitivo su Raffaello e il programma teatrale del progetto “Moto Teatro Oscar“; oltre che il proseguimento della mostra temporanea “Gaugin Matisse Chagall: la passione nell’arte francese dei musei Vaticani” e dal 19 Giugno 2020, appunto, anche questa nuova mostra fotografica dal

titolo:”Inge Morath.La vita. La fotografia“. Ovvero 150 immagini e documenti originali disposti a cura di Brigitte Bluml -Kaindl, Kaindl Kurt e Marco Minuz prodotta da Fotohof, Magnum Photos, Suazes e con il supporto del Forum Austriaco della cultura e partner tra cui Rinascente e IGP Decaux. La mostra si apre con una Inge Morath  profondamente europea essendo nata a a Graz nel 1923. La si descrive poi come interprete di informazioni, con ambientazioni surreali e quasi grafiche, sino ad arrivare a fotografie intime, quasi un diario di vita.Impostazione che la accompagno’ sino alla sua “ultima fotografia”, a cui la mostra dedica una intera parete.

Come recita il comunicato stampa “studiò lingue all’università di Berlino e Bucarest e lavorò come interprete per il servizio americano d’informazione. Nel 1953 si unì alla celebre agenzia Magnum Photos Agency, diventando membro ufficiale nel 1954. In quegli anni lavora, come assistente, per i fotografi Ernst Haas e Henri Cartier-Bresson. Nel 1955 pubblicò la sua prima collezione di fotografie, alla fine della carriera si contarono 30 monografie“.
SI, perche’ come lei stessa diceva: “fare foto era diventata una necessità ed io non volevo rinunciare a nulla“. Come nelle altre tappe italiane di questo percorso emozionale, la mostra ripercorre gli scatti piu’ intensi della carriera della celebre fotografa,  diventata molto americana: moglie in seconde nozze di uno scrittore, Arthur Miller, madre di una regista cinematografica, Rebecca Miller, suocera dell’attore Daniel DayLewis; è evidente quanto si sentisse a proprio agio ovunque dietro una macchina fotografica con una rara capacità, come ha sottolineato Marco Minuz “di non semplificare mai cio’ che è complesso e mai complicare quello che è semplice“. Dono raro. Che si trattasse di un ritratto di Marilyn Monroe sul celebre set del suo ultimo film, la classe di Audry Hepbourn,un pacioso emù in taxi a New York,o dei tanti volti anonimi reali o presunti del suo fotografare luoghi offrendone l’anima e la vita nella sua versione diretta ed originale, sia che si trattasse di Venezia, la Cina, la Spagna o la Russia, quello che incanta della fotografia di questa autrice è il racconto, l’ordito nella sua tessitura piu’ intima. Nel solco del mood scrittori (non si dimentichi che iniziò come scrittrice e traduttrice), dunque, ecco che la mostra proposta al pubblico milanese diventa un insieme di trame che ne formano il tessuto. Come fili dell’ordito infatti, stesi sul telaio, le foto della Morath in questo percorso vengono fatte passare attraverso le maglie dei licci della storia e alle fessure del pettine del talento della prima donna fotoreporter dell’agenzia fotografica Magnum.
Da segnalare inoltre, l’idea alla base del catalogo realizzato grazie anche a Fotohof e della Fondazione Morath : non una monografia ma un lavoro per dare “respiro” dando appieno la dimensione del lavoro di questa fotografa. E vi riesce appieno.
Edito da Silvana Editoriale, molto ben curato, è lo stesso Marco Minuz, curatore della mostra, a mettere in risalto la componente della vicinanza, non soltanto fisica ma anche emotiva dei soggetti fotografati dalla celebre fotografa, parlando dell’approccio sistemico della mostra e che si ispira al lavoro della Morath che trova riscontro nelle parole riportate proprio in una delle pagine del catalogo in cui la fotografa diceva: “devo prima vedere e trovare quello che posso fare. Quando facevo un viaggio, naturalmente sapevo che cos’è un reportage e lo tenevo sempre presente. In altre parole, non ho mai viaggiato in un paese per tornare riportando solo primi piani di strutture murarie. Però avevo bisogno della mia libertà. Una o due volte è capitato, semplicemente, di non fare il reportage. Sono andata, e ho detto “Non lo vedo”. Quello che mi riusciva particolarmente difficile era quando i clienti dicevano di volere solo il colore quando non c’era nessun vero colore“. Concludendo, tutte le foto in mostra sono in bianco e nero. Quasi che il nero con la luce, fosse il suo “inchiostro” fotografico. Ed ecco la fotografia, la vita. Come necessità di un racconto”fatto” e scritto a mano del tutto personale.

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