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Hollywood. Netflix ci racconta la mecca del cinema, com’era e come sarebbe potuta essere…

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Chiedi chi era Peg Entwistle. Hollywood, la nuova miniserie originale Netflix ideata e prodotta da Ryan Murphy e Ian Brennan, disponibile dal 1° maggio, ruota intorno a questa figura. Peg Entwistle era un’attrice inglese che nel 1932, a 24 anni, si tolse la vita gettandosi dalla prima lettera della scritta gigante che campeggia sopra le colline di Hollywood, che allora era Hollywoodland. È un fatto tragico, e incredibilmente simbolico per come è avvenuto. È come dire che il mondo di Hollywood, scintillante e magniloquente visto dall’esterno, visto da vicino, sotto l’apparenza, vive anche di drammi. Uno su mille ce la fa, canterebbe Gianni Morandi. Peg Entwistle è il simbolo di chi non ce l’ha fatta. E al centro di Hollywood c’è Peg, un immaginario film ispirato proprio alla sua storia.

Hollywood racconta la storia di un gruppo di aspiranti attori e registi che cerca a qualsiasi costo di sfondare nella Hollywood del secondo dopoguerra. Jack (David Corenswet) è un ex soldato che arriva a Hollwood con la moglie incinta, convinto che basti un bel volto per sfondare, ma si trova a lavorare in una pompa di benzina, che non è altro che una copertura per un’attività di gigolo. La stessa dove capita Archie (Jeremy Pope), sceneggiatore afroamericano e gay che sta scrivendo il film Peg. Il regista del film potrebbe essere Raymond (Darren Criss), e la sua ragazza Camille (Laura Harrier) potrebbe aspirare al ruolo di protagonista.

Ma non è così facile. Perché Camille è afroamericana e, nella Hollywood di quegli anni, non è previsto che faccia la protagonista, ma solo parti di cameriera e domestica. Perché anche Archie è nero, e uno sceneggiatore come lui può solo scrivere i film per i neri. E se fa un film “per tutti”, il suo nome deve scomparire dalle locandine. Perché se dovesse uscire un film con protagonista un’afroamericana tutti i cinema degli stati del sud lo boicotterebbero. E perché un attore gay non può nemmeno essere preso in considerazione: non solo dovrà nascondere la sua natura, ma anche cambiare nome, e scegliere un nome più da macho, come Rock Hudson. Proprio Rock Hudson (Jake Picking) è un personaggio reale, la cui storia è incastonata tra quella di personaggi immaginari. Ogni personaggio, in Hollywood, è simbolico: mette in evidenza gli ingiusti favoritismi che hanno caratterizzato quel periodo, le discriminazioni basate sul colore della pelle, sul genere e sulle preferenze sessuali. Ma Ryan Murphy immagina che, in quel momento, prenda vita una Hollywood diversa, guidata dalle donne, da persone di buon senso e coraggiose. E che abbia la forza di abbattere gli steccati, di rompere gli schemi. La Hollywood che avrebbe dovuto essere, che forse è, o potrebbe essere, quella di oggi.

Ma Rock Hudson non è il solo appiglio alla vera Hollywood di quel tempo. La serie di Ryan Murphy prende a piene mani da quell’immaginario, mettendo in scena Vivien Leigh, Cole Porter, George Cukor, o evocando Alfred Hitchcock e David O. Selznick, a volte anche un po’ forzatamente, quasi a voler dire: siamo proprio in quel mondo. Hollywood si appoggia su una grande ricostruzione storica, con una superficie laccata e quella luce inconfondibile della California, con i colori pastello e i toni caldi degli anni Quaranta, come ce li immaginiamo (perché le immagini dei film, quando li vediamo realizzati, sono in bianco e nero). La serie di Ryan Murphy vive della fascinazione che, da sempre, il mondo di Hollywood, automaticamente evoca: siano gli anni Quaranta di Viale del tramonto, gli anni Sessanta di C’era una volta a… Hollywood, i giorni nostri di La La Land, Hollywood è sempre un luogo mitico, aureo, fuori dallo spazio e dal tempo. E il luogo dove si creano i sogni. E dove altri sogni naufragano.

Vedere Hollywood sotto questa nuova luce che le getta addosso Ryan Murphy, è allo stesso tempo stimolante e straniante.

Lascia un po’ spiazzati, attoniti, quel tono costantemente sopra le righe, esagitato, che si trova costantemente sul limite di sfociare nella farsa, a volte fermandosi prima, a volte cadendoci dentro. Hollywood ha un andamento jazzato, vola leggero al ritmo del jazz e dello swing anni Quaranta (che a volte danno vita a una colonna sonora fin troppo invasiva). Ma non è un tono che serve a far ridere, con battute o situazioni, quanto piuttosto a provare a dare leggerezza a dei temi che sarebbero piuttosto duri, come razzismo, omofobia, emarginazione.  Per capirci, non siamo dalle parti di The Marvellous Mrs. Meisel, una serie che, parlando di comicità, punta dichiaratamente sul sorriso, per sottintendere poi una serie di altri temi. Qui, per dare un registro brillante alla storia, sarebbe servita una scrittura più arguta, un po’ alla Woody Allen, per condire il racconto con battute più sagaci. Perché il racconto, nel suo sviluppo e nei dialoghi, ha una struttura piuttosto didascalica: spiega fin troppo chiaramente quali siano i problemi, quali le istanze in ballo, e altrettanto semplicemente trova gli escamotage per risolverli.

Hollywood è un racconto particolare già dal suo episodio pilota che, a differenza di quello che accade normalmente, indugia per una buona mezz’ora su un solo personaggio, il protagonista Jack, per poi tirare dentro gli altri personaggi con una sorta di struttura a catena, in cui ognuno è legato a un altro e lo introduce nella storia. In questo modo, la serie stenta un po’ a decollare, indugiando sul gossip, e sulle relazioni sentimentali e sessuali, esagerando nei toni. Per poi riprendersi quando entra nel vivo, quando si parla della materia cinema, si entra dietro le quinte del film in lavorazione. Il cinema nel cinema, da Effetto notte di Truffaut a C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, è sempre entusiasmante, perché ci mostra la materia di cui sono fatti i nostri sogni. E perché Hollywood, al di là della messinscena, ha cose importanti da dire. Cioè che chi fa cinema, come e forse più di chi si dedica alle altre arti, ha il compito di provare a cambiare le cose, ad anticipare la società, a spronarla. Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee, American Horror Story) da sempre attento ai giovani e ai diritti degli omosessuali, ci parla di una Hollywood e di quei tempi per dirci che produttori e artisti devono avere quel coraggio anche oggi. È curioso che a raccontare questa storia sia Netflix: il maggior produttore di tv in streaming celebra il cinema. Il che vuol dire almeno tre cose. Primo, che il cinema è arte, è storia, e senza il cinema non ci sarebbero nemmeno Netflix e i colossi dello streaming. Secondo, che a loro volta anche realtà come queste possono raccontare grandi storie, e il dualismo tra cinema e tv on line non ha più senso di esistere. Terzo, che forse oggi il mondo delle serie tv diffuse in streaming è più coraggioso e più avanti delle major del cinema. E che il cambiamento possa partire da qui.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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