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Laura Dern: David Lynch, Noah Baumbach, Netflix e l’Oscar

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Ci voleva Nora Fanshaw, il suo personaggio in Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, prodotto da Netflix, per regalare a Laura Dern il suo primo Oscar come miglior attrice non protagonista. Un premio che è il coronamento di una carriera quarantennale, iniziata nel 1980 con A donne con gli amici di Adrian Lyne. Ma l’esordio che tutti ricordano è quello targato 1986. Stiamo parlando di Velluto blu di David Lynch, autore visionario che ha segnato questi ultimi quarant’anni di cinema. Per chi ama la Settima Arte è impossibile non legare Laura Dern al cinema di David Lynch. Anche se, di legami, ne ha avuti tanti. Artistici, con autori come Steven Spielberg, Clint Eastwood, Paul Thomas Anderson, Greta Gerwig. E sentimentali, dal musicista Ben Harper, con cui è stata sposata dal 2005 al 3013, e da cui ha avuto due figli, ai colleghi Kyle MacLachlan, Renny Harlin, Jeff Goldblum e Billy Bob Thornton, con cui ha avuto delle relazioni importanti.

Per Lynch Laura Dern è stata tutto. È stata Sandy in Velluto blu, la ragazza acqua e sapone di cui si innamora Jeffrey (Kyle MacLachlan), il contraltare perfetto per l’altra donna che entra nella sua vita, la problematica Dorothy Valens di Isabella Rossellini. È stata Lula, la protagonista assoluta di Cuore Selvaggio, Palma d’Oro a Cannes nel 1990, giovane donna innamorata del suo uomo, Sailor (Nicholas Cage) e in fuga con lui. Lula è un personaggio agli antipodi di Sandy, è disinibita, sfrenata. L’amore romantico tra Sandy e Jeffrey in Velluto blu diventa l’amore fisico, sensuale tra Sailor e Lula. In Cuore selvaggio, accanto a Laura Dern, recita anche la madre, Diane Ladd (il padre è Bruce Dern), protagonista di una prestazione folle e memorabile. È stata proprio lei ad accompagnare Laura Dern alla Notte degli Oscar che l’ha vista vincente. Per Lynch è stata anche la protagonista di Inland Empire, che nasce proprio da un monologo dell’attrice, poi espanso e costruito per diventare un vero e proprio film. In cui la Dern è un’attrice che viene scelta per un film che è il remake di un film maledetto. La vediamo divisa, sdoppiata: tra l’attore protagonista e il marito, tra il suo personaggio e la sua persona, tra questa vita e un’altra (precedente, futura?) vita. La vediamo disperata, in mezzo ad alcune prostitute, tumefatta mentre racconta alcune violenze subite. È una scena di un’intensità incredibile. A chiudere il cerchio con il cinema di Lynch c’è stato Twin Peaks – Il ritorno, l’attesissima terza stagione della serie tv di culto. Laura Dern non poteva entrarci se non con un personaggio molto atteso: con i capelli a caschetto biondo platino, poi rossi, è Diane, quel personaggio che, nelle prime due stagioni, l’agente dell’FBI Dale Cooper nomina sempre, rivolgendosi a lei quando annota le sue sensazioni sui suoi nastri. Fino alla terza stagione di Twin Peaks non avevamo mai capito chi fosse. E il corpo longilineo, il volto particolare di Laura Dern servono finalmente a far vivere questo personaggio, che fino ad allora era esistito solo nella nostra immaginazione.

Ne è passato del tempo da Sandy, Lula e da quella giovane Laura Dern, da quel corpo acerbo con cui, in Cuore Selvaggio, abbiamo fatto l’amore. Il corpo è diventato più statuario, nervoso, muscoloso, e quel volto allungato, così particolare, è diventato più duro nei tratti. E tutto questo ha permesso a Laura Dern, ormai adulta, di affrontare in modo per nulla banale una serie di ruoli che le attrici di solito fanno nella seconda fase della loro carriera. È stata una madre nella serie tv Big Little Lies, ed è stata ancora una volta indimenticabile. La sua Renata è uno dei motori della storia: madre di un bambino delle elementari, donna ricca e in carriera, finisce presto per scontrarsi con le altre madri dando vita a equivoci e risentimenti. Anche qui Laura Dern è perfetta nel ruolo. I tratti spigolosi del suo volto finiscono per rispecchiare gli spigoli di un carattere difficile.

Ed è spigolosa, senza dubbio, anche la Nora Fanshaw di Storia di un matrimonio, il personaggio che le è valso l’Oscar come miglior attrice non protagonista. E non protagonista, stavolta, lo è davvero. Laura è in poche scene, e rappresenta uno dei fattori decisivi della storia, quegli avvocati che pensano prima a se stessi che ai propri assistiti, che finiscono per erigere ulteriori muri tra chi sta affrontando un momento difficile come il divorzio. La Nora di Laura Dern è ancora un personaggio spigoloso, indurito, un ruolo che il suo corpo veste benissimo, ma l’ironia con cui è filtrato la rende irresistibile, empatica, affascinante. Nella sua bocca Noah Baumbach mette uno di quei monologhi esplosivi che potrebbero essere stati scritti da Woody Allen. In cui si parla di come  da sempre, in un sistema che si basa sul modello giudaico-cristiano, le madri non hanno il diritto ad essere imperfette, cosa che ai padri è concesso. Perché il modello è Maria, che ha dato alla luce Gesù essendo vergine e ha stretto a sé il suo corpo esanime. “E Dio non era lì, Dio è il padre e Dio non si è neanche presentato” recita il momento cult, il culmine del suo discorso. Sapido, tagliente, irriverente, tremendamente vero, il monologo di Laura Dern (se non lo avete fatto, recuperate Storia di un matrimonio, che è su Netflix) è una di quelle cose che, come si suol dire, vale il prezzo del biglietto. E ora vale anche un Oscar.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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