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Bohemian Rhapsody. I Queen e Freddie Mercury, quando sono stati grandissimi

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I baffi. Gli occhiali a specchio. Si apre così, dopo la fanfara della 20th Century Fox suonata da Brian May, Bohemian Rhapsody, l’attesissimo film su Freddie Mercury e i Queen, in uscita in Italia il 29 novembre. Siamo nel 1985, è il giorno del Live Aid: accompagniamo Mercury dalla sua casa, dove campeggia un ritratto di Marlene Dietrich, fino allo stadio di Wembley, sulle note di Somebody To Love, e fino al momento del suo ingresso sul palco. Ma non è ancora il momento di gustarsi il Live Aid. Con un flashback torniamo alla Londra del 1970: Farrokh Bulsara è un giovane indiano, di origine parsi, nato a Zanzibar. Ma vuole comportarsi come un ragazzo inglese. Cambia il suo nome in Freddie, e incontra una band, gli Smile, che cercano un cantante. Sono Brian May, Roger Taylor e John Deacon. Nascono così i Queen. La prima parte di Bohemian Rhapsody segue la loro scalata al successo, l’incontro con John Reid, il manager di Elton John che li porta a Top Of The Pops e il fa esplodere. Seguiamo la band dal vivo, dove capiamo come Freddie abbia inventato il famoso modo di cantare brandendo solo la parte superiore dell’asta del microfono. E in studio, dove conosciamo la loro capacità di sperimentare: come quell’idea di far rimbalzare il suono dalla cassa destra a quella sinistra. Fare musica usando che le monete e le pentole.

A Night At The Opera

E poi c’è il momento in cui i discografici chiedono un’altra hit, come Killer Queen. E Freddie mette su un vinile con la Carmen di Bizet. “Sarà un album rock’n’roll con lo spirito dell’opera”. La band si ritira in una casa di campagna, e Freddie tira fuori al piano una melodia che aveva in testa da tempo. Nasce così la monumentale, coraggiosa e complessa Bohemian Rhapsody, brano simbolo di A Night At The Opera, frutto di ore e ore di sperimentazione e registrazioni. “Una nenia di sei minuti pseudo-lirica e senza senso”, la definisce il loro discografico. Si sa, le radio non trasmettono canzoni sopra i tre minuti. Ma Bohemian Rhapsody diventa un successo. I Queen decollano: Freddie si esibisce sul palco nella famosa tuta a scacchi bianchi e neri. Nella vita privata comincia ad avere dei dubbi sulla sua sessualità, mentre è ancora legato a una donna, Mary. Ha ancora i capelli lunghi, e il volto rasato.

Another One Bites The Dust

Lo troveremo, con un altro salto narrativo, nella Londra del 1980. I capelli corti, i baffi. La sua nuova villa, una vita che comincia a riempirsi di eccessi. E la sua identità sessuale che è ormai definita. È il Freddie che siamo abituati a conoscere, che diventa icona. Sono gli anni Ottanta, bellezza. È la seconda vita dei Queen. Freddie è stufo degli inni, e vuole far ballare la gente. Non sono tutti d’accordo, ma John Deacon tira fuori un riff di basso, che riprende Good Times degli Chic, e che dà vita a Another One Bites The Dust. Mentre seguiamo la svolta disco ed elettronica dei Queen, cominciamo a entrare sempre più nella vita di Mercury: la presentazione del disco Hot Space, del 1982, è l’occasione per sentire la stampa chiedergli del suo stile di vita, la sua sessualità, la promiscuità, un presagio di quello che sarà il suo destino. È qui che il film diventa all’improvviso, ma non inaspettatamente, più intenso. Quasi parallelamente arrivano la malattia, l’Aids, e la tentazione della carriera solista. Una scelta che, di fatto, manda all’aria la band.

We Are The Champions

La storia della sua rinascita inizia dal baratro. Siamo a Monaco, nel 1984, Freddie è ormai schiavo di varie sostanze e circondato da persone che non vogliono il meglio per lui. Sta lavorando al secondo album da solista. Arriva una chiamata, che inizialmente non gli viene passata. Si dice che stiano organizzando un concerto per raccogliere fondi contro la fame in Etiopia, e che vogliano i Queen. Quel concerto, a cui i Queen rischiano di non partecipare, è il loro trionfo. L’esibizione dei Queen al Live Aid, ricostruita e riproposta nella sua interezza, è un vero e proprio film nel film. È il momento in cui in sala ci arrivano i brividi. E ci fa capire quando accurato e lungo sia stato il lavoro di preparazione e costruzione di questa scena chiave. Bohemian Rhapsody, Radio Ga Ga, Hammer To Fall, We Are The Champions. È la scaletta perfetta: lo show è già scritto, non serve altro, basta metterlo in scena. I movimenti, i suoni, la luce tutta particolare che c’era quel giorno: tutto è ricostruito in maniera impressionante. Tutto ci è familiare. D’un tratto siamo lì, nel cuore di Wembley.

Who Wants To Live Forever?

Rami Malek è un Mercury perfetto nelle movenze. Ormai lo sappiamo, una delle chiavi di un biopic è lo studio e la ricostruzione del protagonista. Aiutato da protesi, l’attore di Mr. Robot punta molto anche sullo sguardo, curioso e affamato di vita, della rockstar. Malek, giustamente, non canta con la sua voce, come faceva Val Kilmer in The Doors. Freddie Mercury è irraggiungibile, e inimitabile: aver lasciato la sua voce è una delle scelte vincenti del film. Che, per lunghi tratti, sembra una lunga puntata di Vinyl (la serie ambientata nel mondo del rock degli anni Settanta) e sembra avere alcuni dei difetti di quel prodotto: Malek a parte, gli altri attori sembrano scelti più per la loro somiglianza che per altre doti, e rischiano di essere un po’ delle macchiette. Così come, per gran parte della sua durata, il film rischia di essere un po’ troppo didascalico, schematico. Ed edulcorato, per come cerca di addolcire alcuni tratti della personalità di Mercury. Non riesce a cogliere appieno l’irriverenza e la follia, la magniloquenza e l’ambizione dei Queen e del loro leader. Bryan Singer gioca con gli stili delle epoche che racconta, virando a volte le immagini nei formati e nella bassa definizione televisiva, giocando con le grafiche degli anni Settanta per le scritte, che aiutano in alcune ellissi narrative, e con alcuni effetti tipici dei video della band, come quelle batterie che spruzzano acqua quando vengono percosse. Rischia anche grosso con gli anacronismi, come quando posiziona We Will Rock You, un classico dei Queen del 1977, negli anni Ottanta, ma è qualcosa che serve alla sua progressione narrativa, al racconto che ha in mente. Mentre utilizza altre canzoni in maniera non diegetica, ma come semplice colonna sonora e contrappunto alla narrazione: Under Pressure arriva nel momento in cui Mercury sta per abbandonare il mondo in cui si era rinchiuso per tornare in seno alla band. Who Wants To Live Forever, un brano del 1986, fa da colonna sonora all’incubo dell’Aids. E sentire “There’s no time for us” in quel momento è struggente.

Show Must Go On

Bryan Singer ama Alfred Hitchcock. E, come lui, sa che ogni film va costruito intorno a una o più scene ad effetto. E così apre e chiude con il Live Aid, il simbolo della carriera dei Queen, il momento che tutti hanno fissato nella memoria. Chiude con l’emozione, chiude in crescendo. E ci fa uscire dalla sala con l’adrenalina di quell’esibizione. Si dice che Marilyn Monroe non sia bella in tutte le immagini, ma nelle foto in cui lo è, è bellissima. Così sono i Queen. Nella loro carriera forse non sono stati sempre grandi, ma nei momenti in cui lo sono, i Queen sono grandissimi. Freddie e i suoi scendono dal palco del Live Aid, lo schermo è a nero, e le scritte in sovraimpressione ci dicono come va a finire la storia. Lo spettacolo deve andare avanti. Show Must Go On.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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