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The assassination of Gianni Versace. In bilico tra il successo e il flop

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È ancora viva l’emozione provata nella sequenza di apertura di The assassination of Gianni Versace. La macchina da presa mossa in ampie e sinuose carrellate, la magnificenza dell’Adagio di Albinoni in sottofondo. Le immagini si alternano tra lo sfarzo di una villa e il sole battente della spiaggia, tra un uomo di fama mondiale circondato da amici e ammiratori e un ragazzo come tanti rimasto solo con una pistola nascosta nello zaino. Quella però non è una villa qualunque in una città qualunque e quell’uomo e quel ragazzo apparentemente così lontani si ritrovano coinvolti in uno degli omicidi più discussi di tutti i tempi. È il 15 luglio 1997 quando Andrew Cunanan spara a bruciapelo davanti al cancello della sua dimora a Miami lo stilista Gianni Versace.

Dieci minuti di pura potenza visiva ed emotiva estasiante lasciavano presagire per la serie antologica American Crime Story una seconda stagione degna di nota. Del resto, già nel 2016 con People vs. O.J. Simpson lo scetticismo iniziale nel corso degli episodi era risultato infondato: gli showrunner erano riusciti a creare attorno ad uno dei casi di cronaca nera più mediatici degli anni novanta uno dei legal drama più riusciti di sempre, grazie ad un approfondimento che ha coinvolto non solo il processo di per sé (già conosciuto grazie alle riprese televisive) ma anche ogni fase e ogni personaggio coinvolto, con tutte le conseguenze personali del caso.
Poco importa quindi se in The assassination of Gianni Versace il delitto si è consumato nel prologo; gli spettatori non si sono di certo persi d’animo, forti non solo del successo della stagione precedente ma anche della presenza di un cast del calibro di Edgar Ramirez, Penelope Cruz e Ricky Martin (nome di forte richiamo nonostante non si conoscessero ancora le sue doti recitative) e del talento del suo creatore, quel Ryan Murphy che negli anni ha portato sul piccolo schermo serie tv come Nip/Tuck, Glee e American Horror Story.
La curiosità di scoprire cosa ci avrebbero riservato gli sceneggiatori era alle stelle, soprattutto perché nel caso Versace non c’era stato alcun processo e le indagini si erano concluse pochi giorni dopo in seguito al ritrovamento del corpo priva di vita dell’assassino. Con la seconda stagione lo show FX era quindi pronto a cambiare pelle, e tutti credevano che la trama si sarebbe concentrata sulla vita privata dello stilista calabrese, soprattutto in seguito alle due note ufficiali rilasciate qualche giorno prima della messa in onda in cui la famiglia Versace dichiarava di non aver in alcun modo visionato e approvato né il lavoro di Ryan Murphy né tantomeno il libro su cui si basa l’intera trama (Vulgar Favors: Andrew Cunanan, Gianni Versace, and the Largest Failed Manhunt in U.S. History scritto nel 1999 dalla giornalista di Vanity Fair Maureen Orth).
A distanza di mesi, possiamo dire con certezza che la via intrapresa dallo sceneggiatore Tom Rob Smith è stata senza ombra di dubbio la meno scontata, la più rischiosa e (forse) la più controproducente. Perché contrariamente a quanto il titolo lasciava immaginare, l’unico vero protagonista in The assassination of Gianni Versace non è l’illustre vittima ma il misterioso carnefice. E l’entusiasmo provato con l’apertura è andato via via scemando.

Nel corso dei nove episodi lo spettatore assiste ai retroscena dell’esistenza di Andrew Cunanan (interpretato da Darren Criss, il Blaine Anderson di Glee), trasformando quello che doveva essere un crime in thriller psicologico a tratti inquietante. Quel giovane ragazzo con gli occhialini e il berretto da baseball infatti, nei tre mesi precedenti al 15 luglio 1997 aveva lasciato dietro di sé una scia di sangue, passando dall’anonimato all’essere inserito nella lista dei ricercati più pericolosi dell’FBI.
La vita di Cunanan si svolge all’ombra delle sue bugie. Eroinomane, gigolò d’alto bordo per uomini interessati a giochi erotici al limite del pericolo, studente modello o ricco ereditiere: il ragazzo tendeva a plasmare il proprio essere e il proprio modo di fare in base a chi si trovava di fronte a lui. Persino la sua omosessualità era vissuta con ambiguità, a tratti sbandierata senza paura e a volte vissuta come un peso.
Desideroso di attenzioni e convinto di meritarsi ad ogni costo la fama, la follia omicida di Cunanan ha colpito quattro persone (due suoi amici, un architetto facoltoso suo cliente e un uomo che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato) prima di arrivare a Gianni Versace.
La figura dello stilista italiano nella serie non viene presentata solo come la vittima più illustre di un serial killer spietato, ma anche per offrire un parallelismo con la vita del suo aguzzino, utile per addentrarsi al meglio nella sua psiche. Laddove Versace era da tutti stimato e apprezzato Cunanan veniva allontanato da chi gli stava vicino; quando lo stilista aveva deciso di rivelare a tutti la sua omosessualità ufficializzando il rapporto con il suo compagno, nell’ambiente di Andrew accettare quella stessa omosessualità come normalità era ancora difficile. E soprattutto, proprio quando Versace sembrava avere tutto, al suo assassino non rimaneva più niente (il montaggio alternato in apertura rende perfettamente la disparità tra i due).

Una curatissima messa in scena (con l’eccezione della ricostruzione di un episodio d’infanzia di Gianni, dove si sarebbe potuto utilizzare un copione in italiano) e una strepitosa interpretazione di Darren Criss (che regge sulle sue spalle l’intera narrazione facendo passare in secondo piano tutto il resto del cast) però non bastano.
Due errori (vien da definirli imperdonabili) sono stati commessi in The Assassination of Gianni Versace. Il primo è stato quello di dedicare un’intera stagione ad un personaggio con il quale non si crea alcun tipo di empatia e, laddove questa viene a mancare, come può il pubblico essere coinvolto in quello che vede?
Discutibile inoltre la scelta di mostrare il controverso rapporto tra Andrew e la figura paterna, quasi a voler giustificare i suoi comportamenti. Cunanan non ha avuto una vita facile, ma era consapevole di ciò che faceva e nonostante questo ha proseguito per la sua strada senza mai mostrare un minimo di rimorso.
L’errore più grande sta però nel titolo. Perché rispetto a tutto ciò che viene raccontato, l’assassinio e la famiglia Versace in generale sembrano inseriti solo con l’intento di attirare l’attenzione. O meglio: concesso di farne il riferimento nel titolo – in fin dei conti è da quell’omicidio che si parte – del tutto illogica è stata la scelta di basare l’intera promozione dello show con le immagini maestose di Edgar Ramirez, Penelope Cruz e Ricky Martin nei panni di personaggi che nella costruzione del racconto sono solo di contorno. Che bello sarebbe stato approfondire la sensibilità di Gianni di cui tutti parlano, o la forza e la tempra di Donatella o raccontare in maniera più approfondita il rapporto con il compagno Antonio, senza dimenticare un’esplorazione del glamour e del cambiamento portato dalla casa di moda nel mondo. Questa scelta risulta essere un espediente scaltro di cui una serie di questo tipo non aveva per niente bisogno, in primis perché il successo della prima stagione era già di per sé un’ottima esca per guardare anche la seconda e poi perché basta solo la firma di Ryan Murphy per attirare a prescindere la curiosità degli spettatori.

Le nomination agli Emmy Awards sono tante (qui potete trovarle) e saranno la prova del nove per capire se The assassination of Gianni Versace è riuscita a fare colpo come il suo predecessore o finirà presto nel dimenticatoio seriale. Non ci resta che attendere il 17 settembre.

di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it

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