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No Time To Die. L’ultima volta di Daniel Craig, un Bond ironico e commovente

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“We Have All The Time In The World”. Vuol dire “abbiamo tutto il tempo che c’è al mondo”. Lo dice James Bond (Daniel Craig) a Madeleine Swann (Lèa Seydoux), mentre, innamorati, stanno viaggiando in macchina. È una delle prime sequenze di No Time To Die, l’attesissimo nuovo film della saga di James Bond, l’Agente 007, che arriva finalmente al cinema il 30 settembre 2021. “Abbiamo tutto il tempo che c’è al mondo” è la frase che due persone che si amano, e sentono di avere tutta la vita davanti, si dicono in certe occasioni. Ma We Have All The Time In The World è anche la famosa canzone di Louis Armstrong che chiudeva Al servizio segreto di Sua Maestà, il film del 1969, e che qui apre e chiude il film. No Time To Die, il film che conclude l’era di Daniel Craig come Agente 007, deve molto a quella pellicola, come l’intero ciclo con l’amato attore.

Al servizio segreto di Sua Maestà è stato uno dei Bond Movie più particolari, Quello che, per la prima volta, vedeva un Bond innamorato veramente di una donna, tanto da sposarla. Fino all’amaro finale. Non sono sposati James e Madeleine, ma è come se lo fossero. Sono innamorati, vivono insieme, e hanno in progetto di farlo a lungo. Arrivati in un paese dell’Italia (è Matera, con alcune scene che sono state girate a Gravina in Puglia), una volta a letto, i due cominciano a parlare. “A cosa pensavi, prima, al mare?” chiede Bond alla sua compagna. “Te lo dirò se mi parli di Vesper”, risponde lei. James Bond è lì per lasciare definitivamente andare il suo primo amore, per visitare la sua tomba all’acropoli, e chiudere per sempre con lei. È qui che, però, accade qualcosa. Cinque anni dopo, James Bond e Madeleine Swann non sono più insieme. Dietro c’è il peso di un tradimento che si è consumato in quei giorni in Italia. Ma è stato davvero così? Mentre a Londra un’arma batteriologica viene rubata da un laboratorio segreto dell’MI6, Bond è in Giamaica, dove si è ritirato lontano da tutto. Il suo amico Felix Leiter (Jeffrey Wright) e una donna di nome Nomi (Lashana Lynch) gli portano un messaggio che lo convince a tornare in pista.

Madeleine, Nomi. Ma ci sono anche Paloma (Ana De Armas), e Eve Moneypenny (Naomie Harris). Sono tutte donne. Le donne, lo sappiamo, ci sono sempre state nei film di James Bond. Le chiamavano Bond Girl. E si innamoravano di lui, o tentavano di ucciderlo, O a volte entrambe le cose. Ma qui siamo nel 2021, nell’era del #metoo e di un nuovo modo di intendere le donne. Anche un personaggio misogino e sessista come James Bond è cambiato: non lo ha fatto di colpo, ma con un’evoluzione, un percorso di crescita che, lungo tutti i film di Daniel Craig, è stata costante. Ma qui è tutto più evidente. Le prime due donne con cui James Bond viene a contatto non cadono ai suoi piedi né tra le sue braccia. Il tutto è raccontato con ironia, con Bond stesso, sorpreso o restio, che equivoca divertito. Nomi – che scopriremo essere il nuovo 007, l’agente con licenza di uccidere – e Paloma – un’agente d’appoggio cubana, impacciata e irresistibile – non sono più Bond Girl, oggetti di seduzione e pericolo. Sono a tutti gli effetti degli agenti operativi, sono al suo livello, sono accanto a lui. Eve Moneypenny è una sincera amica e fedele complice, senza complicazioni sentimentali o giochi di seduzione. E Madeleine è una donna di cui si innamora e per cui è disposto anche ad andare oltre dubbi e segreti, in un’unità di intenti che non ha precedenti nella storia di Bond. Per l’Agente 007, in questo film, c’è solo lei. Tutto questo è un cambio di prospettiva interessante, e fondamentale per raccontare i tempi che stiamo vivendo.

I nostri tempi sono anche quelli in cui “è difficile distinguere i buoni dai cattivi”. Sono gli anni del terrorismo senza nazione e senza bandiere, dei pirati informatici, del traffico di dati. Dare un volto o una casa al nemico è sempre più difficile. No Time To Die, come gli altri film di Craig, racconta bene tutto questo. E continua a raccontarci un mondo dove Bond è molto simile ai suoi nemici: in fondo fanno tutti lo stesso lavoro, quello di uccidere le persone. No Time To Die, come Skyfall e Spectre, ci mostra i villain non così distanti dall’agente che dà loro la caccia. Nel nuovo corso di 007, Blofeld e Bond sono come Joker e Batman ne Il cavaliere oscuro, due facce della stessa medaglia. E anche Safin, il cattivo di No Time To Die che evoca il Dr. No, il villain del primissimo Bond, Licenza di uccidere, vede le cose in questo modo. Ma starà a Bond smentire tutto questo con i fatti. E con le sue scelte. Se il Blofeld di Christoph Waltz agisce da dietro le sbarre, come l’Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti, Safin è interpretato da Rami Malek, che crea un villain dal volto sfigurato, la voce bassa e inespressiva, gli occhi sbarrati, fissi. Un’interpretazione notevole e funzionale al film.

Ma, che sia stato Safin a costruire la minaccia o meno, quello che conta è che in questa storia la morte è qualcosa che, per diffondersi, passa attraverso il corpo delle persone, e, anche se non danneggia loro, può uccidere gli altri, chi ci viene a contatto. L’arma del progetto Heracles è a tutti gli effetti come un virus, in grado di diffondersi a grande velocità attraverso i nostri corpi. E il fatto che No Time To Die sia stato scritto ormai parecchi anni fa, prima della pandemia, non fa che accrescerne la sua attualità, il suo valore come segno dei tempi. No Time To Die è un film a suo modo profetico.

No Time To Die è il finale perfetto per la saga del Bond di Daniel Craig, iniziata nel 2006 con Casino Royale e proseguita con Quantum Of Solace, Skyfall e Spectre. È un film che completa gli altri – e in questo senso è mirabile per come collega tutti i tasselli – e se ne discosta, sorprendendo da tanti punti di vista. È un film che per tutta la prima parte punta a confondere, spiazzare, a ribaltare le carte, come in un episodio di Mission: Impossible. Ma poi, man mano che procede, diventa più intenso e appassionante. La vera tensione è tutta interiore, tutta psicologica. C’è in ballo qualcosa di più della missione, qualcosa che si interseca con essa, e rende a Bond tutto più complicato, Ma gli dà un motivo in più per portare a termine la sua missione.

La chiave del successo dei Bond Movie dell’era Craig è stato guardare James Bond da dentro, mentre tutti i Bond, prima, erano visti da fuori. Erano l’estetica, lo smoking, il vodka Martini, la Walther Ppk, il Dom Perignon. La scelta vincente di film come Skyfall e No Time To Die è riuscire a trovare il pericolo, il dolore, i fantasmi dentro James Bond, o in chi è vicino a lui. In questo modo tutto diventa più intenso. Rispetto ad altri film, No Time To Die punta meno a creare scene madri ad alto tasso estetico (ma l’azione è comunque tanta, e riuscita) e lavora molto sulle psicologie dei personaggi, sui loro legami, sugli affetti. We Have All The Time in The World torna qui proprio per questo, per ricordarci che un Bond innamorato è fragile e in pericolo. Ed è in pericolo la persona che ama.

Dopo aver spogliato di tutto – il glamour e tutti gli orpelli – il mondo di 007 all’inizio dell’era Craig, gli sceneggiatori hanno man mano reintrodotto molti degli elementi del Bond classico (Moneypenny, lo studio di M, l’Aston Martin, la Spectre) e qui, alla fine, hanno completato l’operazione aggiungendo un altro marchio di fabbrica: l’ironia. È quella più fredda e secca del Bond di Connery piuttosto che quella di Moore e Brosnan. Ma è un elemento nuovo in questo ciclo, e serve a stemperare il cuore intimo e doloroso del film. No Time To Die è un film commovente, e non ci era capitato mai, o quasi, di definire così un Bond Movie. Daniel Craig ci saluta nel migliore dei modi. E ci ricorda, come scriveva Jack London, che “la funzione di un uomo è vivere, non esistere”. Il James Bond di Daniel Craig i suoi anni li ha vissuti davvero. Ma il messaggio è anche per noi. Quello di vivere intensamente la nostra vita, anche se pensiamo di avere tutto il tempo del mondo.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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