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Curon. Un campanile sommerso, il nostro Io sommerso. Su Netflix

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C’è un campanile che spunta dal lago di Resia, in Trentino-Alto Adige, a 1498 metri di altitudine in provincia di Bolzano. Per metà è visibile, ed emerge dalle acque dal lago, per metà è sommerso. Quel campanile è quello che resta del paesino di Curon Venosta e dell’antica chiesa di Santa Caterina, risalente al 1357. Siamo quasi al confine con l’Austria e Indiana Production ha deciso di ambientare qui la storia di Curon, la quinta serie italiana di Netflix, disponibile in streaming dal 10 giugno. Una leggenda dice che in certe notti dell’anno è possibile sentire le campane suonare. Ma le campane sono state rimosse nel 1500…

Intorno al campanile e ai suggestivi luoghi circostanti è stata costruita la storia di una famiglia. Anna, una giovane madre, torna a Curon, il suo paese natale, insieme ai suoi figli, Mauro e Daria. Mauro è quello nato dopo, è il più fragile, ma quello che è stato più vicino al cuore della mamma, e forse lo è ancora. Ha dei problemi di udito, ed è taciturno. Daria è quella che è nata per prima, la più tenace, la più combattiva, addirittura rissosa. Anna è in fuga dall’ex marito e torna nell’hotel dove vive ancora il padre Thomas e dove, quando era bambina, è accaduto un fatto tragico. Le vite di Mauro e Daria si intrecciano con quelle dei ragazzi del luogo, Giulio e Micki, fratello e sorella, figli di Albert, che era stato il primo amore di Anna, e che rimane colpito dal suo ritorno. Anna, però, scompare all’improvviso.

Quel campanile sommerso per metà è già di per sé un ottimo punto di partenza per un racconto. È immediatamente cinematografico, iconico, misterioso e irresistibilmente attraente. È un’immagine che cattura da subito. Per metà visibile, per metà nascosto, racchiude in sé la nostra natura. Da un lato il nostro aspetto visibile a tutti, dall’altro la nostra metà oscura, quella che non facciamo vedere, quella che teniamo a bada. Anche i lupi, ci viene detto, sono così: c’è il lupo gentile, quello che caccia per i propri piccoli e per il branco, e il lupo oscuro, quello rabbioso. Ma le due componenti sono entrambe dentro di noi. Cosa accadrebbe se il nostro lato oscuro avesse la prevalenza sulla nostra parte buona?

Come avrete capito, la chiave di Curon è tutta nel concetto di doppio, continuamente evocata dall’intrigante regia di Fabio Mollo e Lyda Patitucci, che firmano rispettivamente le prime quattro e le rimanenti tre puntate (la scrittura è affidata a Ezio Abbate come head writer insieme agli autori Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano). Vediamo continuamente immagini di specchi, ma non solo: le due lampade che vediamo nel salone dell’hotel, i due rossi d’uovo nella padella, tutto rimanda all’idea del doppio.

La forza di Curon sta proprio qui, nelle atmosfere, in una fotografia molto particolare, dove i colori – i rossi, i verdi, i gialli – spiccano dal buio eppure continuano a farne parte. E sta nelle location (si è girato in Alto Adige, a Bolzano, in Val Venosta tra Curon e Malles, sul Lago di Caldaro e a San Felice), sia per quanto riguarda la natura selvaggia sia per gli interni, con quell’albergo che ci fa venire in mente l’Overlook Hotel di Shining. L’Alto Adige è una terra di confine, come l’immaginaria Twin Peaks dello Stato di Washington (a proposito, attenzione alle teste di animali impagliate…). È un confine tra due stati, ma anche un confine tra la civiltà e la natura. Ed è un luogo dove il confine tra razionale e irrazionale, cioè tra la parte di noi che abbiamo sotto controllo e la nostra parte più sfrenata, è più labile. E così può capitare che, chi si sente più frustrato, più insoddisfatto, più debole possa perdere il controllo e lasciare spazio, come si direbbe in Star Wars, al proprio Lato Oscuro…

Il senso di Curon è questo. Ed è chiaro, fin troppo, sin dalle prime sequenze del film. Forse il maggior difetto di una serie come Curon, rispetto ad altre serie mistery con risvolti sovrannaturali come Stranger Things e Dark, è che tutto è troppo spiegato, chiaro fin da subito, e così la storia diventa un gioco a carte scoperte, troppo scoperte. Una delle chiavi della grande serialità dei nostri tempi, pensiamo a Lost, è proprio il saper nascondere fino all’ultimo le soluzioni ai propri enigmi. Detto questo, la storia si segue comunque molto volentieri: è bella, intrigante, è un coming of age e allo stesso tempo un fantasy con elementi horror. Se alcuni dialoghi non sono all’altezza dell’atmosfera del racconto e alcuni attori (i personaggi secondari) ci sembrano acerbi, Curon nel complesso è una produzione coraggiosa, ambiziosa, che fino a qualche tempo fa non credevamo fosse possibile nel panorama italiano. L’idea, per ammissione degli autori, è prendere il soprannaturale e il magico e portarlo nel reale: i punti di riferimento sono quelli del cosiddetto quality horror, film come It Follows, Babadook e A Quiet Place.

Fabio Mollo e Lyda Patitucci dirigono un cast dove spiccano una convincente Valeria Billello (eravamo abituati a vederla in commedie, come in Happy Family, dov’era perfetta) e soprattutto i due giovani attori che interpretano Daria e Mauro. Lei è Margherita Morchio (vista al cinema in Succede e in tv in Volevo fare la rockstar), grinta da vendere per un personaggio di adolescente molto coraggioso (nella prima puntata della serie la vediamo giocare con un sex toy e chiedere, appena arrivata a scuola, se ci sia della marjuana). Lui è Federico Russo (visto da piccolo ne I Cesaroni), occhi chiari e una sensibilità notevole. Anche Luca Lionello, nei panni di Thomas, ci è sembrato in parte. Vedendo Curon vi verrà voglia di andare in quei luoghi, di perdervici dentro. E magari di tornare diversi…

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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