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1917. Sam Mendes ci immerge nell’orrore della grande guerra

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La Grande Guerra, quella del 1915-1918, la guerra delle trincee, la guerra senza fine. 1917, il nuovo film di Sam Mendes, in uscita il 23 gennaio, tra i grandi favoriti nella corsa agli Oscar, ci porta proprio lì, al fronte, fin dentro le trincee, con un lungo piano sequenza (in realtà sono almeno tre, ma il senso è quello) con la macchina da presa che non ci fa staccare mai gli occhi dal protagonista, e in questo modo ci costringe a stare insieme a lui, a non prendere mai respiro. 1917 racconta la storia del soldato inglese Schofield (George MacKay) che, insieme al compagno Blake è inviato in una missione pericolosa e fondamentale dietro le linee nemiche. Devono infatti avvisare il Secondo Battaglione di non attaccare i tedeschi, che credono in ritirata. In realtà si tratta di una trappola orchestrata ad arte: fingersi deboli per farsi attaccare, per poi sterminare il nemico. Non si tratta di un commando in missione per salvare un solo soldato, come in Salvate il soldato Ryan. Si tratta di due soli soldati che devono salvare un intero battaglione, 1600 soldati, altrimenti destinato al massacro.

1917, come dicevamo, è un lungo piano sequenza o, se preferite, un racconto fatto di lunghi piani sequenza. La macchina da presa non molla mai il protagonista: lo precede, lo “pedina” standogli subito dietro, lo accompagna correndogli a lato. È una scelta che dà immediatamente una personalità netta al film, lo distingue. E dimostra la grande abilità tecnica di un regista come Sam Mendes (che ci aveva deliziato con un piano sequenza non banale anche nell’incipit di Spectre, il suo secondo e ultimo film di James Bond) e del direttore della fotografia Roger Deakins. Ma è una scelta che probabilmente ha un senso: quello di rimanere sempre ad altezza d’uomo, per raccontare una guerra che più delle seguenti fu combattuta dai soldati in prima persona, sul campo, in trincea. E proprio in quelle trincee, che sembrano non finire mai, addentrandoci e seguendo Schofield, riusciamo a provare la claustrofobia, il senso di oppressione, l’impossibilità di una via di fuga che questa guerra ha comportato. Il piano sequenza è anche questo. È restare sempre accanto a lui, sempre sul campo di battaglia, in costante pericolo, senza possibilità di rifugiarsi da qualche parte, senza possibilità di prendere un respiro, così come la macchina da presa non può “staccare” dall’inquadratura.

Per tutta la prima parte, 1917 è fatto di immensi spazi vuoti e devastati. Intorno a Schofield e Blake non c’è nessuno. È Il deserto dei Tartari, un’attesa che sembra infinita (anche in Jarhead, sulla guerra in Iraq, Mendes raffigurava la guerra come attesa), ma con un senso di pericolo incombente che si respira a ogni inquadratura. Dopo il primo stacco, lo svenimento e il risveglio, lo scenario cambia: gli edifici di un paesino francese sono sotto attacco e il pericolo è tangibile, è reale. Capiamo che sono passate alcune ore: dall’esterno/giorno ora siamo passati all’esterno/notte ed è qui che viviamo in uno scenario che è una meraviglia abbagliante per gli occhi e un orrore per chi lo sta vivendo in prima persona. È qui che viene fuori l’arte di Roger Deakins, direttore della fotografia tra i migliori al mondo, che ci avvolge in una notte illuminata solo dalle fiamme circostanti: luci rossastre e dorate, ombre sinistre che si proiettano sul nostro cammino mentre proviamo a farci strada in mezzo alla morte. È una sequenza impressionante che prende un attimo di respiro nel momento dell’incontro con la ragazza e la bambina nell’edificio e che continua fino al secondo stacco, quello di un salto nell’acqua, che è salvezza e rinascita. E ci porta nell’ultima parte della storia.

1917 è questo. È un film fatto di terra, profondamente piantato sulla terra, ma anche di aria, fuoco e acqua: sono questi tre elementi (l’aereo che arriva dall’aria, i fabbricati in fiamme, il fiume del salto) a creare le svolte, a far progredire la storia, a cambiare ogni volta lo scenario. 1917 è un grande film sulla Grande Guerra. Ma, non dimentichiamolo, è anche un film di Sam Mendes. In tutti i suoi film c’è un alone di morte che incombe sulla storia dall’inizio alla fine: Kevin Spacey che racconta la sua storia da morto in American Beauty, Tom Hanks che ha la vita segnata da una sentenza in Era mio padre, i marines che partono per la guerra, che della morte è chiaramente sinonimo, in Jarhead, e il tragico destino che aspetta Kate Winslet in Revolutionary Road. E ancora, Skyfall che si apre e si chiude con una morte, e Spectre che si apre nel dia de muertos a Città del Messico.

Ma abbiamo trovato altri tocchi del cinema di Mendes, in 1917. Quegli scenari spettrali che i due soldati incontrano nella prima parte, quella pozza d’acqua piena di cadaveri e quello spazio pieno di armi e carri abbandonati, ci hanno ricordato l’isola di Skyfall, quella dove Bond incontra il Raoul Silva di Javier Bardem, con i palazzi distrutti che sembrano quinte di cartapesta. E proprio a Skyfall, e ai cieli infuocati del finale in Scozia, ci ha riportato la parte centrale, con la notte illuminata dalle fiamme. Nella scena in cui il protagonista riemerge dall’acqua lo troviamo cosparso di petali, proprio come lo era Mena Suvari in American Beauty, il film che ha rivelato Mendes al mondo.

1917 è un film tecnicamente perfetto, ed emotivamente un passo indietro, perché tanta perfezione, come sappiamo, lascia un po’ meno spazio all’emozione. È coinvolgente a livello di tensione. Ma, soprattutto, coglie bene il senso di quella vita appesa un filo che era quella dei soldati nella Prima Guerra Mondiale. Come scriveva Giuseppe Ungaretti. Soldati. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

di Maurizio Ermisino per Dailymood.it

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