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The Irishman, Martin Scorsese e il suo testamento cinematografico

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“Quei bravi ragazzi” sono invecchiati – verrebbe da dire sinteticamente (e banalmente) dopo la visione di The Irishman. L’ultima fatica del grande Martin Scorsese è forse il suo testamento cinematografico, un gangster movie compassato, sussurato, in cui tutto il suo cinema (e non solo il suo) viene riletto e filtrato da uno sguardo malinconico, ovattato, a tratti dolente, a tratti sommesso. Lo sguardo è il suo, quello del settantaseienne Scorsese, regista che ha segnato indelebilmente la storia del cinema con la sua estetica della violenza e che vive coscientemente l’ultima parte della sua carriera. Ma è anche quello dell’anziano Frank Sheeran, l’irlandese del titolo, il personaggio su cui ruota l’intero racconto. Lo troviamo nella primissima scena del film, anziano, segnato dal tempo, su una sedia a rotelle in una casa di riposo. Guarda in macchina, si rivolge al pubblico, e racconta la sua vita, racconta del suo rapporto con la mafia italoamericana, racconta di Jimmy Hoffa e del suo sindacato, racconta gli Stati Uniti d’America.

The Irishman, prodotto da Netflix –  sulla cui piattaforma approderà a fine novembre dopo una ristretta distribuzione nelle sale –, è un imponente affresco americano, una grande epopea a stelle e strisce resa sullo schermo, però, senza la spettacolarizzazione tipica di Hollywood. Anzi, di più, anche senza l’istrionismo rappresentativo della poetica scorsesiana. Il cineasta newyorkese, infatti, in questa occasione si approccia in punta di piedi alla smisurata materia narrativa offertagli dalla sceneggiatura di Steve Zaillian – ispirata al libro di Charles Brandt, I Heard You Paint Houses (2004). E così, anziché elettrizzare il racconto con una messa in scena virtuosa, scandirlo con un ritmo forsennato, caricarlo di numerose scene madri, sceglie la strada della cronaca didascalica, controllata, severa. Scorsese, insomma, opta per uno sguardo più intimo, riflessivo, con l’obiettivo di prendere tutti gli elementi della sua cinematografia (violenza, peccato, redenzione, spiritualità) e di rielaborarli in un’analisi filmica più ampia sul tempo, sullo scorrere della vita, sull’avvicinarsi alla morte.

Inserendo gli eventi sullo sfondo della macrostoria statunitense– dal secondo dopoguerra al conflitto in Kosovo, passando per l’omicidio di Kennedy e l’elezione di Nixon –, Scorsese segue i movimenti di Sheeran all’interno della mafia italoamericana, la quale si infiltra nelle istituzioni, nei sindacati, che in qualche modo decide sempre le sorti del paese. Tra minacce, omicidi, omertà e tradimenti, tra abbracci, strette di mano e pianti trattenuti, The Irishman tratteggia così un variopinto spaccato di umanità, dove le emozioni rimangono strozzate dal peso della vita che grava sui ricordi del protagonista.

Robert De Niro è commovente nei panni dell’irlandese, nel modo in cui riesce a trasmettere con il solo sguardo la sua falsa serenità. Joe Pesci è impressionante nel rendere l’impassibilità del suo Russell Bufalino. Ed infine Al Pacino, per la prima volta diretto da Scorsese, è un indimenticabile Jimmy Hoffa, con i suoi tic, le sue strambe regole, la sua simpatica arroganza. Tutti i personaggi sono osservati con tenerezza in quest’opera sontuosa. Una tenerezza conciliante ma assolutamente spiazzante. Una tenerezza che accompagna lo spettatore per tutto il film, per poi esplodere con prepotenza nella parte finale. Rendendo The Irishman la pietra tombale del gangster movie moderno.

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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